NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

sabato 2 aprile 2022

La Monarchia dal 22 a domani - IX parte

 




E allora? Salus rei pubblicati suprema lex esto, proclamava, la saggezza giuridica di Roma e fin dal IV secolo a. c. Euripide proclamava: Si violandum est jus, regnandi causa violandum est.

Ma, ripeto, ormai la questione ha perduto di importanza perché anche quelli che al primo momento furono restii ad ammettere la moralità dell'atto compiuto dall'Italia, finirono dopo più maturo consiglio e giudizio sull'opera della Germania durante fa guerra nei confronti con gli Alleati, a chiedersi, come fa il Prof. Crosa, «chi fu il tradito e chi il traditore».

Annunziato l'armistizio, seguirono le tristi vicende militari dell'8 e 9 settembre a Roma che esulano dalla mia trattazione. Malacoda, dopo averle narrate e aver dichiarato che a non intendeva sottoscrivere né una difesa dello Stato Maggiore e neppure un atto di accusa contro gli Alti Comandi e meno che mai contro gli Ufficiali e le truppe che ovunque furono degnamente comandate si batterono con l'antico valore”, conclude che «la Monarchia è assolutamente fuori di causa in tutto questo». (1).

 

Continua Malacoda: all'Alba del 9 settembre appare evidente che ormai un colpo di mano tedesco poteva effettuarsi in, qualunque momento. Nella notte tutte le autorità si erano riunite in sol luogo, il Ministero della Guerra; qui erano convenuti il Re, il Capo del Governo, il Capo di Stato, Maggiore Generale e molti dei ministri. Verso le tre del mattino il Maresciallo Badoglio, Ambrosio e il Capo di Stato Maggiore dell'esercito - Roatta - si consultano sulla situazione e concordemente decidono che si impone la partenza di quegli organi del potere politico e militare che non si volessero lasciar cadere in mano del nemico. Badoglio si recò dal Re e gli prospettò la necessità dell'allontanamento immediato del Governo, e della Famiglia Reale. Il Re non voleva partire e il Maresciallo penò assai a convincerlo; si decise alla fine e soltanto quando Badoglio gli disse di aver già ordinato ai Ministri di lasciare la Capitale e che i suoi ordini erano ormai in corso di esecuzione. A sua volta il Principe Ereditario, accettata dal Re: la decisione del Governo, oppone per quanto lo riguarda le stesse difficoltà e nei locali del Ministero ebbe col Padre un contrasto piuttosto violento. Verso le quattro e trenta poche autovetture seguite, da due autoblinde si dirigono verso l'Abruzzo lungo la via Tiburtina. Si incrociarono automezzi tedeschi che correvano nei due sensi; il Re e il Principe indossavano le divise (lo notino quelli che blaterano di fughe): i grigi occhi germanici guardavano senza vedere.

Su questa partenza del Re si è molto speculato dai Partiti, ma, anche indipendentemente da considerazioni politiche è innegabile che per molti la questione istituzionale è influenzata dal loro giudizio su questo atto. Scrive Malacoda (2): «Ben si comprende una istintiva reazione sentimentale al primo annunzio di affrettato abbandono di Roma che in quel momento poteva apparire inspiegabile: ben si comprende che l'improvviso avvenimento ferisse nel profondo quel naturale senso cavalleresco che è innato in tutti gli italiani, lo stesso del resto che portava il Re e il Principe, l'uno di fronte a Badoglio, l'altro di fronte al Sovrano a ribellarsi all'evento; ma in verità è ormai tempo di affermare che per il supremo interesse della Patria, il Re, la Famiglia Reale, il Governo dovevano partire».

Il Re come capo della nazione aveva soprattutto il dovere di garantire la continuità dello Stato.

Arangio Ruiz nell'ottobre 1944 sul «Giornale di Napoli» ne dava la più chiara giustificazione.

Dopo aver ricordato che in Ungheria il tentativo di sganciarsi dalla Germania era stato stroncato in 24 ore per la cattura del Reggente, Horty rimasto a Budapest, scrive: «...l'aver affermato tangibilmente l'esistenza di un'Italia belligerante presso gli Alleati capace, di rivendicare i diritti ed assumere obbligazioni ha assicurato all'Italia attuale, già essenzialmente diversa da quella del 1943, una legalità che in tanta miseria è la sola sua forza». E aggiunge ancora: «E a che cosa se non alla continuità dello Stato così garantita è dovuta la splendida disciplina della nostra flotta che immediatamente riprese a fianco degli Alleati le azioni di guerra che fino al giorno precedente aveva condotto contro di loro? A che cosa l'atteggiamento delle nostre unità schierate nella parte del territorio nazionale occupato dai tedeschi o in terre straniere da essi controllate e il fermo contegno dei quattrocentomila italiani che coraggiosamente affrontarono, per non collaborare, la dura prigionia tedesca e l'impossibilità in cui Mussolini si è trovato di formare un esercito ribelle, e lo slancio con il quale i militari, sbandati hanno inquadrato e addestrato i partigiani? A che cosa il rifiuto di tanta parte dei pubblici impiegati di giurare fedeltà alla Repubblica Sociale e l'inerzia di quasi tutte le forze poliziesche nel reprimere l'antifascismo e l'antinazismo, e insomma il fiasco totale di quell'improvvisata Repubblica Sociale?»

Queste appassionate parole di Arangio Ruiz potrebbero avere ben larga dimostrazione citando fatti e nomi: basti qui accennare all’ affondamento della nave ammiraglia di Bergamini; alle gloriose gesta dei Reparti che gli Alleati ci permisero di unire alle loro Forze, in cui rifulsero Casati, Ruffo di Calabria, Dolino Giojtre, Gastaldi...; la gloriosa resistenza delle 32 Divisioni dislocate nei Balcani, i 500 Ufficiali e 4000 soldati trucidati dalla ferocia tedesca e Cefalonia (3); i non meno gloriosi partigiani: Rossino, Gimmi Curreno, Pamparato, Galimberti, Cattaneo padre e figlio... il cui ultimo grida fu “Viva l'Italia! Viva il Re! (4); il formidabile esercito dei deportati che sopportarono sevizie, stenti e affrontarono la morte pur di tener fede a quell'Italia, che a stento da Bari a Roma riconquistava il Nord; e infine l'elettissima schiera dei prigionieri e morti del Fronte clandestino: Perotti, Montezemolo, Grenet, Frignani, Aversa...(5) Vi è chi obbietta clic il Re doveva restare a Roma e dare «allora» la luogotenenza al Principe di Piemonte; ma non pensano costoro quale pegno sarebbe stato nelle mani dei tedeschi Vittorio Emanuele III, pur sempre Re, per legare l'Italia a difenderlo per l'onore della Nazione? Ricordino. gli Italiani la Principessa. Mafalda, che pure era sposata ad un tedesco, fatta prigioniera col più cinico inganno e poi fatta perire a Buchenwald con inaudita ferocia!

E d'altra parte era prudente in un momento così grave una soluzione di continuità nella funzione di Capo dello Stato di cui evidentemente le forze politiche più disparate avrebbero approfittato per i loro fini di partito? Fu per queste ragioni che il Re, pur riluttante a lasciar Roma, dovette persuadersi dell'ineluttabile necessità della sua partenza la notte stessa. Purtroppo l'aver dovuto partire tanto improvvisamente e tanto affrettatamente ha prodotto una dolorosa impressione; che quanto alla partenza in sé quando ne fu necessità si hanno numerosi esempi sia nel conflitto del 1914-1918, dal Re del Belgio e quello di Serbia, di Romania, al Presidente della Repubblica Francese e in quest'ultima campagna bellica, dal Presidente della Repubblica Polacca a quello della repubblica Francese, al Re di Norvegia, a quello di Grecia, Jugoslavia e alla Regina Guglielmina. E per le stesse ragioni, insieme con il Suo stretto dovere di ubbidire al suo Re e a suo Padre, dovette assogettarvisi anche il Principe Ereditario. Non fu certo il più lontano pensiero della loro incolumità che vi ebbe il minimo peso: sarebbe offesa gratuita a dei Savoia.

Del resto il Re non fece che ripetere il gesto del suo glorioso antenato il Re Vittorio Amedeo II, che all'avvicinarsi delle truppe francesi a Torino nel 1706 lasciò la Capitale e dopo aver guerreggiato di qua e di là in Piemonte, si unì al valoroso Cugino il Principe Eugenio che comandava le truppe imperiali e con le forze unite vinsero la battaglia di Torino e d'allora cominciò l'ascesa regale che doveva concludersi col Regno d'Italia.

 

(1)  Malacoda – op. cit. pag. 189.

(2) Malacoda – op. cit pag. 174.

(3)  Ivanoe Bonorni: Le luci, in «La Nuova Stampa »

28 Marzo corr  

(4)  Mauri: Noi del 1° Gruppo Divisioni Alpine

(5) Amedeo Strazzera Perniciani: Umanità ed eroismi nella vita segreta di Regina Coeli

Nessun commento:

Posta un commento