E
allora? Salus rei pubblicati suprema lex esto, proclamava, la saggezza
giuridica di Roma e fin dal IV secolo a. c. Euripide proclamava: Si violandum
est jus, regnandi causa violandum est.
Ma,
ripeto, ormai la questione ha perduto di importanza perché anche quelli che al
primo momento furono restii ad ammettere la moralità dell'atto compiuto
dall'Italia, finirono dopo più maturo consiglio e giudizio sull'opera della
Germania durante fa guerra nei confronti con gli Alleati, a chiedersi, come fa
il Prof. Crosa, «chi fu il tradito e chi il traditore».
Annunziato
l'armistizio, seguirono le tristi vicende militari dell'8 e 9 settembre a Roma
che esulano dalla mia trattazione. Malacoda, dopo averle narrate e aver dichiarato
che a non intendeva sottoscrivere né una difesa dello Stato Maggiore e neppure
un atto di accusa contro gli Alti Comandi e meno che mai contro gli Ufficiali e
le truppe che ovunque furono degnamente comandate si batterono con l'antico
valore”, conclude che «la Monarchia è assolutamente fuori di causa in tutto questo».
(1).
Continua
Malacoda: all'Alba del 9 settembre appare evidente che ormai un colpo di mano
tedesco poteva effettuarsi in, qualunque momento. Nella notte tutte le autorità
si erano riunite in sol luogo, il Ministero della Guerra; qui erano convenuti
il Re, il Capo del Governo, il Capo di Stato, Maggiore Generale e molti dei
ministri. Verso le tre del mattino il Maresciallo Badoglio, Ambrosio e il Capo
di Stato Maggiore dell'esercito - Roatta - si consultano sulla situazione e concordemente
decidono che si impone la partenza di quegli organi del potere politico e
militare che non si volessero lasciar cadere in mano del nemico. Badoglio si
recò dal Re e gli prospettò la necessità dell'allontanamento immediato del
Governo, e della Famiglia Reale. Il Re non voleva partire e il Maresciallo penò
assai a convincerlo; si decise alla fine e soltanto quando Badoglio gli disse
di aver già ordinato ai Ministri di lasciare la Capitale e che i suoi ordini
erano ormai in corso di esecuzione. A sua volta il Principe Ereditario,
accettata dal Re: la decisione del Governo, oppone per quanto lo riguarda le stesse
difficoltà e nei locali del Ministero ebbe col Padre un contrasto piuttosto
violento. Verso le quattro e trenta poche autovetture seguite, da due
autoblinde si dirigono verso l'Abruzzo lungo la via Tiburtina. Si incrociarono
automezzi tedeschi che correvano nei due sensi; il Re e il Principe indossavano
le divise (lo notino quelli che blaterano di fughe): i grigi occhi germanici
guardavano senza vedere.
Su
questa partenza del Re si è molto speculato dai Partiti, ma, anche
indipendentemente da considerazioni politiche è innegabile che per molti la
questione istituzionale è influenzata dal loro giudizio su questo atto. Scrive
Malacoda (2): «Ben si comprende una istintiva reazione sentimentale al primo
annunzio di affrettato abbandono di Roma che in quel momento poteva apparire
inspiegabile: ben si comprende che l'improvviso avvenimento ferisse nel
profondo quel naturale senso cavalleresco che è innato in tutti gli italiani,
lo stesso del resto che portava il Re e il Principe, l'uno di fronte a
Badoglio, l'altro di fronte al Sovrano a ribellarsi all'evento; ma in verità è
ormai tempo di affermare che per il supremo interesse della Patria, il Re, la
Famiglia Reale, il Governo dovevano partire».
Il Re
come capo della nazione aveva soprattutto il dovere di garantire la continuità
dello Stato.
Arangio
Ruiz nell'ottobre 1944 sul «Giornale di Napoli» ne dava la più chiara
giustificazione.
Dopo
aver ricordato che in Ungheria il tentativo di sganciarsi dalla Germania era
stato stroncato in 24 ore per la cattura del Reggente, Horty rimasto a
Budapest, scrive: «...l'aver affermato tangibilmente l'esistenza di un'Italia
belligerante presso gli Alleati capace, di rivendicare i diritti ed assumere
obbligazioni ha assicurato all'Italia attuale, già essenzialmente diversa da
quella del 1943, una legalità che in tanta miseria è la sola sua forza». E
aggiunge ancora: «E a che cosa se non alla continuità dello Stato così
garantita è dovuta la splendida disciplina della nostra flotta che
immediatamente riprese a fianco degli Alleati le azioni di guerra che fino al
giorno precedente aveva condotto contro di loro? A che cosa l'atteggiamento
delle nostre unità schierate nella parte del territorio nazionale occupato dai
tedeschi o in terre straniere da essi controllate e il fermo contegno dei quattrocentomila
italiani che coraggiosamente affrontarono, per non collaborare, la dura
prigionia tedesca e l'impossibilità in cui Mussolini si è trovato di formare un
esercito ribelle, e lo slancio con il quale i militari, sbandati hanno
inquadrato e addestrato i partigiani? A che cosa il rifiuto di tanta parte dei
pubblici impiegati di giurare fedeltà alla Repubblica Sociale e l'inerzia di
quasi tutte le forze poliziesche nel reprimere l'antifascismo e l'antinazismo,
e insomma il fiasco totale di quell'improvvisata Repubblica Sociale?»
Queste
appassionate parole di Arangio Ruiz potrebbero avere ben larga dimostrazione
citando fatti e nomi: basti qui accennare all’ affondamento della nave
ammiraglia di Bergamini; alle gloriose gesta dei Reparti che gli Alleati ci
permisero di unire alle loro Forze, in cui rifulsero Casati, Ruffo di Calabria,
Dolino Giojtre, Gastaldi...; la gloriosa resistenza delle 32 Divisioni dislocate
nei Balcani, i 500 Ufficiali e 4000 soldati trucidati dalla ferocia tedesca e
Cefalonia (3); i non meno gloriosi partigiani: Rossino, Gimmi Curreno,
Pamparato, Galimberti, Cattaneo padre e figlio... il cui ultimo grida fu “Viva
l'Italia! Viva il Re! (4); il formidabile esercito dei deportati che
sopportarono sevizie, stenti e affrontarono la morte pur di tener fede a
quell'Italia, che a stento da Bari a Roma riconquistava il Nord; e infine
l'elettissima schiera dei prigionieri e morti del Fronte clandestino: Perotti,
Montezemolo, Grenet, Frignani, Aversa...(5) Vi è chi obbietta clic il Re doveva
restare a Roma e dare «allora» la luogotenenza al Principe di Piemonte; ma non
pensano costoro quale pegno sarebbe stato nelle mani dei tedeschi Vittorio
Emanuele III, pur sempre Re, per legare l'Italia a difenderlo per l'onore della
Nazione? Ricordino. gli Italiani la Principessa. Mafalda, che pure era sposata
ad un tedesco, fatta prigioniera col più cinico inganno e poi fatta perire a
Buchenwald con inaudita ferocia!
E
d'altra parte era prudente in un momento così grave una soluzione di continuità
nella funzione di Capo dello Stato di cui evidentemente le forze politiche più
disparate avrebbero approfittato per i loro fini di partito? Fu per queste
ragioni che il Re, pur riluttante a lasciar Roma, dovette persuadersi
dell'ineluttabile necessità della sua partenza la notte stessa. Purtroppo
l'aver dovuto partire tanto improvvisamente e tanto affrettatamente ha prodotto
una dolorosa impressione; che quanto alla partenza in sé quando ne fu necessità
si hanno numerosi esempi sia nel conflitto del 1914-1918, dal Re del Belgio e
quello di Serbia, di Romania, al Presidente della Repubblica Francese e in
quest'ultima campagna bellica, dal Presidente della Repubblica Polacca a quello
della repubblica Francese, al Re di Norvegia, a quello di Grecia, Jugoslavia e
alla Regina Guglielmina. E per le stesse ragioni, insieme con il Suo stretto
dovere di ubbidire al suo Re e a suo Padre, dovette assogettarvisi anche il
Principe Ereditario. Non fu certo il più lontano pensiero della loro incolumità
che vi ebbe il minimo peso: sarebbe offesa gratuita a dei Savoia.
Del
resto il Re non fece che ripetere il gesto del suo glorioso antenato il Re
Vittorio Amedeo II, che all'avvicinarsi delle truppe francesi a Torino nel 1706
lasciò la Capitale e dopo aver guerreggiato di qua e di là in Piemonte, si unì
al valoroso Cugino il Principe Eugenio che comandava le truppe imperiali e con
le forze unite vinsero la battaglia di Torino e d'allora cominciò l'ascesa
regale che doveva concludersi col Regno d'Italia.
(1) Malacoda – op. cit. pag. 189.
(2) Malacoda
– op. cit pag. 174.
(3) Ivanoe Bonorni: Le luci, in «La Nuova Stampa »
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Marzo corr
(4) Mauri: Noi del 1° Gruppo Divisioni Alpine
(5)
Amedeo Strazzera Perniciani: Umanità ed eroismi nella vita segreta di Regina
Coeli
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