di Aldo A. Mola
Mentre tempestosi venti di guerra sferzano
l'Estremo Oriente come altre volte in agosto (1914, 1939...), ricorre il
centenario del mese cruciale della Grande Guerra. In poche settimane si consumò
l'estremo tentativo di fermare l'Europa sull'orlo della catastrofe. Dopo tre
anni di conflitto tutte le potenze erano al collasso. A marzo lo zar Nicola II
fu spazzato via. I tedeschi propiziarono l'arrivo di Lenin in Russia: una mina
ai danni del governo provvisorio e di Kerenskij, che a fine luglio represse
duramente la sollevazione armata a Pietrogrado e ogni opposizione alla
prosecuzione della guerra, alimentata da pressioni anglo-francesi e da un
cospicuo prestito da parte degli USA, scesi in lotta il 6 aprile ma ancora
lontanissimi da incidere direttamente sul suo esito. In aprile-maggio la
Francia fu sconvolta da ammutinamenti al fronte e da scioperi a Parigi. La
protesta dilagò in Ungheria. Il 19 luglio il Parlamento tedesco propose la
“pace sulla base di accordi”. Il 3 agosto si registrarono ammutinamenti anche
nella marina germanica.
In quel quadro di crisi papa Benedetto XV (il
genovese Giacomo della Chiesa, 1854-1922, asceso al Sacro Soglio a conflitto
appena iniziato) pubblicò l'appello a fermare con trattative diplomatiche
l'“inutile strage”. Non era solo la parola di un “capo di Stato”, qual era
riconosciuto, con o senza “scettro”, ma anche l'estremo sforzo per bloccare la
deriva verso l'“ateismo materialistico” ormai incombente. Atee non erano solo
le “tesi di aprile” di Lenin. Lo erano anche la conduzione della guerra come
annientamento reciproco dei contendenti e la riduzione dei popoli in macchine
belliche lanciate in un fratricidio planetario privo di prospettive politiche.
Dopo un anno di forzato silenzio, trascorso
nella solitudine a Cavour, il 13 agosto 1917 Giovanni Giolitti parlò dall'unica
tribuna rimastagli dopo il forzato allontanamento da Roma, sotto la minaccia di
attentato mortale alla sua vita. Dal seggio di presidente del Consiglio
provinciale di Cuneo (che avrebbe dovuto ricordarlo), si associò al premier
inglese Lloyd George: la guerra era “la più grave catastrofe dopo il diluvio
universale”, con la differenza che essa era opera dell'uomo, non di una volontà
imperscrutabile per punire gli uomini della loro malvagità (Genesi, 6, 5-8) o
della “invidia degli Dei” evocata da Erodoto per spiegare la caduta degli
imperi. Convinto che fosse ormai chiusa l'età della “politica estera a base di
trattati segreti”, Giolitti ammonì: i reduci (“milioni di lavoratori delle
città e delle campagne, la parte più virile della nazione, affratellati per
anni dai comuni pericoli, sofferenze e disagi sopportati per la patria”) al
rientro dal fronte avrebbero reclamato “ordinamenti improntati a maggiore
giustizia sociale, che la patria riconoscente non potrà loro negare”.
Monarchico e liberale, fautore di riforme per salvaguardare le istituzioni,
propose il riconoscimento universale delle nazionalità, libere di darsi il
proprio governo: Pax in iure gentium... “L'Italia, sorta in nome di quei
principi, ne sarà certamente efficace sostenitrice nel consesso delle nazioni”.
Lo statista italiano precorse di sei mesi i “quattordici punti” enunciati dal
presidente americano Woodrow Wilson l'8 gennaio 1918. Far leva sulle
nazionalità era anche il concetto-guida del Comandante Supremo, Luigi Cadorna,
il cui piano strategico originario era infatti l'irruzione nell'impero
austro-ungarico per suscitarvi la sollevazione contro Vienna: un progetto che
aveva radici nel Risorgimento italiano e nel Quarantotto, “primavera dei
popoli”. Malgrado incomprensioni e lontananze, all'opposto di quanto asserito
dal liberalofago Angelo d'Orsi in “1917: l'anno della rivoluzione” (ed.
Laterza), l'insieme della dirigenza politico-militare italiana rimaneva
ancorata all'umanesimo e contraria alla riduzione del conflitto a “guerra dei
materiali”.
All'opposto, nei due incontri di San Giovanni
di Moriana (aprile-giugno 1917) i governi di Londra e di Parigi ribadirono il
programma originario dell'Intesa: nessuna pace separata sino all'annientamento
degli Imperi Centrali. L'Italia andò al traino. Non aveva scelte.
Il colonnello Angelo Gatti, chiamato da
Cadorna a organizzare la “memoria storica” del conflitto, tra il 21 e il 23
giugno 1917 stese un “Promemoria” e lo consegnò al generale Roberto Bencivenga
(massone) per il Comandante Supremo in partenza per l'incontro con il francese
Ferdinand Foch e con il generale inglese Radcliffe. Segretamente Gatti ne dette
copia anche al comandante della II^ Armata, Luigi Capello, che non faceva
mistero della sua affiliazione al Grande Oriente d'Italia. Secondo Gatti, dopo
26 mesi di guerra e di perdite altissime bisognava “ricominciare da capo. è necessario inculcare uno spirito
nuovo; fare nuova organizzazione; trasformarci col tempo (…); non bisogna
credere che sia tutta insipienza dei capi, o cattiva tattica, o cattivo spirito
(…); è tutto l'insieme che non va, c'è qualcosa di intimo, di profondo, che si
rompe”. Soprattutto occorreva “guardare in faccia le compagini (militari) come
composte d'uomini, non come materia”. Cinque giorni dopo si fece iniziare nella
loggia “Propaganda massonica”. Tornato da San Giovanni di Moriana, Cadorna non
gli disse una parola del “Promemoria”. Oltralpe era prevalsa la visione
materiale del conflitto.
Il 17 agosto 1917 la II Armata iniziò l'XI
battaglia dell'Isonzo. In due settimane avanzò di circa 8 chilometri sull'altipiano
della Bainsizza, ma non riuscì a sfondare. Cadorna percepì che l'Impero
austro-ungarico, duramente provato, era al collasso. Lo confermarono le memorie
postbelliche dei generali avversari. Però in agosto mancò il successo finale.
Alle strette, Vienna chiese il soccorso massiccio della Germania, facilitato
dalla ormai ampia smobilitazione del fronte russo. Le perdite dell'Esercito
italiano nella battaglia sommarono a 40.000 morti,108.000 feriti e 18.500
dispersi. Come ricorda lo storico militare gen. Oreste Bovio, nelle trincee
circolava un motto amaro: “massimo sforzo col minimo di risultati”. Cadorna
reagì con quattro severe lettere al presidente del Consiglio, Paolo Boselli: il
Comando Supremo teneva in pugno lo strumento militare (enormemente cresciuto)
con ferrea disciplina. Toccava però al governo coprirgli le spalle. Boselli non
rispose. Due mesi dopo fu messo in minoranza alla Camera, prima ancora che a
Roma arrivasse notizia dell'avanzata austro-germanica nella conca di Caporetto.
Malgrado tutto l'Italia tenne, proprio perché la sua guerra aveva radici in
quel Risorgimento che aveva forgiato lo Stato nazionale. Lo ricordò Gioacchino
Volpe in “La guerra 1915-1918” (ed. Pagine, concorrente al Premio Acqui Storia
2017). L'insigne storico evocò le parole di Vittorio Emanuele III agli
italiani, soldati e civili, dopo la ritirata dall'Isonzo al Piave (non una
“rotta”, né una catastrofe, ma una lunga “battaglia di arresto”): “Siate un
esercito solo”. Ma dopo la Vittoria italiana dell'ottobre-novembre 1918,
risolutiva dell'intero conflitto come documentò Luigi Gratton nella bella
biografia di Armando Diaz (ed. Bastogi), venne il diktat della “pace” di
Versailles. Questa gettò le premesse per il ritorno alle armi. La Grande Guerra
risultò solo l'inizio della nuova Guerra dei trent'anni (1914-1945), che ha
segnato l'eclissi d'Europa e il primato del materialismo sull'umanesimo, del
“mercato” sullo “spirito”, il lungo predominio dei profanatori del Tempio.
Aldo A. Mola
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