Per anni celebrata, fu poi offuscata dalla retorica della resistenza e del 25 aprile. Eppure fu una affermazione tutta italiana, anche se gli alleati (e molto storici anglosassoni) hanno cercato di sminuirla
Massimo De Leonardis
Mercoledì 14 giugno 2017
In entrambe le guerre mondiali, le ostilità terminarono in Italia prima che nel resto dell'Europa: il 4 novembre 1918 invece dell'11, il 2 maggio 1945 invece dell'8. Ancora fino all'inizio degli anni '60 del secolo scorso, il 4 novembre era certamente una festa di popolo, la più sentita del calendario civile. A scuola si studiavano il Risorgimento e la Grande guerra fin troppo agiograficamente.
Già allora però il 4 novembre non aveva più la denominazione originaria del 1922, «anniversario della vittoria», dal 1949 era la «festa dell'unità nazionale»; oggi è «festa dell'unità nazionale e giornata delle Forze armate». Nulla da dire sui due concetti, ma è evidente l'offuscamento della vittoria, l'unica che l'Italia unitaria possa vantare e potrebbe rivendicare (certo sarebbe pretendere troppo ricordare quelle nelle guerre di Etiopia e di Libia). Altre retoriche sono prevalse: quelle della Resistenza partigiana festeggiata il 25 aprile e della Costituzione «più bella del mondo». Così si celebra una sconfitta, perché partorì la Repubblica e fece rinascere la democrazia, mentre si sorvola sulla vittoria, poiché si ritiene, erroneamente, che quella guerra vittoriosa abbia portato al fascismo.
In entrambe le guerre mondiali, il fronte italiano fu però considerato secondario. Nella Grande guerra l'opinione prevalente all'estero era che lo sforzo militare italiano fosse stato per nulla essenziale ai fini della vittoria finale. Di ciò il Comando supremo italiano era consapevole già nei giorni stessi dell'armistizio, come risulta dal messaggio che il generale Armando Diaz inviò il 4 novembre 1918 al presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando: «Vi sono tentativi di svalutazione dei risultati della nostra vittoria». Anche per l'ignoranza delle opere in lingua italiana, tale pregiudizio è rimasto poi in gran parte della storiografia straniera, compresa la migliore, che ricorda più facilmente la sconfitta di Caporetto della vittoria di Vittorio Veneto. Un esempio di ciò è la peraltro eccellente opera di Paul Kennedy Ascesa e declino delle grandi potenze, che scrive infatti a proposito dell'Italia: «La sua vittoria finale nel 1918, come la sconfitta finale e la disgregazione dell'impero asburgico, dipesero essenzialmente da iniziative e decisioni prese altrove», salvo poi contraddirsi più avanti, ove parla di «splendide vittorie (stavolta senza virgolette) in Siria, Bulgaria e Italia».
Vediamo i fatti. La battaglia di Vittorio Veneto, o terza battaglia del Piave, seguendo quelle del novembre 1917 di arresto dell'avanzata nemica dopo la sconfitta di Caporetto, e del giugno 1918, detta anche battaglia del solstizio, che bloccò l'ultima offensiva austriaca, fu combattuta tra il 24 ottobre e il 4 novembre 1918.
Dall'estate gli alleati dell'Italia sollecitavano un'offensiva sul nostro fronte, ma il generale Diaz aveva respinto le pressioni, richiedendo anche un consistente concorso di truppe americane, che venne però rifiutato. Il 26 settembre riprese l'offensiva dell'Intesa sul fronte occidentale, il 29 la Bulgaria firmò l'armistizio di Salonicco uscendo dalla guerra e il 4 ottobre anche gli Imperi centrali fecero i primi sondaggi per una cessazione delle ostilità. Era evidente il rischio che la guerra finisse senza che l'Italia avesse conseguito una vittoria, con la possibile messa in discussione dei territori promessi dal Patto di Londra del 26 aprile 1915. Il presidente del Consiglio Orlando incalzò Diaz perché attaccasse, dichiarando di preferire «all'inazione la sconfitta» e ventilandone la sostituzione con il generale Gaetano Giardino.
Un piano d'attacco fu preparato dal colonnello Ugo Cavallero, capo dell'Ufficio operazioni del Comando supremo e futuro Capo di Stato maggiore generale dal dicembre 1940 al gennaio 1943, e rivisto dal generale Enrico Caviglia, comandante dell'8a Armata. L'ordine definitivo delle operazioni fu comunicato il 21 ottobre. Si fronteggiavano circa (i dati precisi divergono alquanto) un milione di uomini da entrambe le parti: 58 divisioni di fanteria austro-ungariche con 7.000 pezzi d'artiglieria, divise in due gruppi di armate, comandati sulla linea del Piave dal generale Svetozar Borevic von Bojna (soprannominato «il leone dell'Isonzo») e in Trentino dall'Arciduca Giuseppe (fino al 26 ottobre), contro 4 divisioni di cavalleria e 57 di fanteria dell'Intesa (51 italiane, 3 britanniche, 2 francesi, 1 di fuoriusciti cecoslovacchi, più un reggimento americano) con 7.700 pezzi di artiglieria. La 10a Armata italo-britannica era comandata da Lord Cavan e la 12a franco-italiana da Jean César Graziani. La costituzione di due armate miste sotto il comando di generali stranieri era strategicamente inutile e motivata da ragioni politico-diplomatiche; fu criticata da Caviglia e Giardino e diede poi modo ai nostri alleati di enfatizzare il loro ruolo, tanto più che fu l'Armata di Lord Cavan ad attuare il primo sfondamento decisivo. Va comunque ricordato che come pegno della solidarietà inter-alleata nel giugno 1918 era stato inviato in Francia (dove già si trovavano 79.000 truppe ausiliarie italiane) il II Corpo d'Armata del Generale Alberico Albricci, forte di 25.000 uomini.
Prima ad attaccare nella zona del Monte Grappa, all'alba del 24 ottobre, fu la 4a Armata del generale Giardino che incontrò la tenace resistenza del nemico. Lo stesso giorno, sul Piave mentre i reparti italiani non riuscivano a passare il fiume anche a causa della piena, Lord Cavan occupò l'isola delle Grave di Papadopoli e l'isola Maggiore, in mezzo al corso d'acqua. Il 26 Giardino, che non aveva conseguito alcun risultato, sospese l'offensiva e il giorno successivo gli austriaci contrattaccarono con efficacia. Nella giornata del 27 reparti italiani, francesi e inglesi traversarono il Piave e Caviglia decise di sfruttare le teste di ponte create. Il 28 e il 29 la situazione sul Grappa restava bloccata, anche con contrattacchi austriaci, e si decise di sospendere l'offensiva italiana in attesa degli sviluppi sul Piave. Qui Caviglia esortò le sue truppe al massimo sforzo dichiarando che entro le successive ventiquattro ore la battaglia sarebbe stata decisa e dal suo esito sarebbe dipesa la storia d'Italia «forse per un secolo».
Nel frattempo da Vienna l'Imperatore Carlo aveva chiesto al Presidente americano Wilson un armistizio e una pace separata. Mentre le truppe di prima linea si battevano ancora tenacemente, nelle retrovie l'evoluzione della situazione politica all'interno dell'Impero diede luogo a defezioni e ammutinamenti dei reparti non austriaci e cominciò la ritirata dell'Esercito imperiale. Un ufficiale italiano descrisse la difesa austriaca come «un budino con crosta» (una crème brûlée), rotta la quale si incontrava poca resistenza. A metà del 30 ottobre gli italiani entrarono a Vittorio Veneto. Nel 1866 i comuni di Ceneda e Serravalle erano stati uniti in quello di «Vittorio» in onore di Vittorio Emanuele II; l'appellativo «Veneto», usato abitualmente soprattutto dopo la battaglia, fu ufficializzato nel 1923. Il 1° novembre tra i generali Viktor Weber von Webenau e Pietro Badoglio, Sottocapo di Stato Maggiore, iniziarono le trattative di armistizio, che fu firmato a Padova nella Villa Giusti del Giardino alle 18.20 del 3, con effetto dalle 15 del giorno successivo. Il quartier generale austriaco aveva già ordinato di cessare i combattimenti nella notte sul 3, aggiungendo confusione alla situazione già compromessa e gli italiani approfittarono dell'intervallo di tempo per avanzare, facendo il massimo numero di prigionieri ed impadronendosi di materiali nemici. Sempre il 3, furono conquistate le città «irredente», Trento e Trieste, senza incontrare resistenza. Nelle dieci giornate di combattimenti gli italiani (e i loro alleati) ebbero circa 37.000 tra morti, feriti e dispersi; gli austriaci circa 30.000 tra morti e feriti e, naturalmente, un altissimo numero di prigionieri, catturati soprattutto negli ultimi tre giorni.
Come si diceva all'inizio, la «battaglia di Vittorio Veneto» è stata oggetto di vari giudizi, talvolta sprezzanti e non privi di errori, pure da storici britannici di chiara fama come John Keegan e A. J. P. Taylor. Un dissacratore come Indro Montanelli ha scritto che Vittorio Veneto non fu una vera battaglia, ma «una ritirata che abbiamo disordinato e confuso». Giuseppe Prezzolini a sua volta scrisse di «una battaglia ideale» alla quale «è mancato il nemico» e che l'Esercito austro-ungarico perse «per ragioni morali». Soprattutto gli inglesi esaltarono oltremodo la brillante azione di Lord Cavan, che invece le fonti ufficiali italiane ridussero alle sue giuste proporzioni. Erich Ludendorff, già quartiermastro generale dell'Esercito tedesco, che pure a fine settembre aveva consigliato al Kaiser di sollecitare un armistizio, anch'egli influenzato da un punto di vista nazionale, attribuì grandi conseguenze alla sconfitta austriaca, affermando, con poca credibilità, che senza di essa la Germania avrebbe potuto resistere fino alla primavera 1919, ottenendo così migliori condizioni.
La Grande guerra non conobbe brillanti strateghi e grandi vittorie; sia sul fronte italiano sia su quello italo-austriaco prevalse la guerra di trincea e di attrito. Diversa fu la situazione sul fronte orientale tra Russia e Imperi centrali. Si può senz'altro ammettere che il cedimento austriaco fu dovuto più a cause interne politiche, la crisi dello Stato multinazionale, ed economiche, la grave penuria di generi alimentari, che a una brillante strategia militare italiana. Tuttavia ciò non può portare a sminuire la vittoria; il Regno d'Italia dimostrò di saper risorgere da una grave sconfitta, resistere e passare al contrattacco fino alla vittoria.
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