Raffinato nello stile, per lungo tempo ha curato sul
«Giornale» di Montanelli la rubrica «Cosa nostra» È tra i pochi a usare la penna in modo garbato. Nel 1976
Bettiza scrisse: «La sua lingua? Casalinga
e ardita»
Torelli con il Re durante l'intervista dell'Agosto del 1963 |
Emilio Del Bel Belluz
da La Verità di domenica 25 giugno 2017
«Sento improvviso e afferro con voluttà
il profumo fluttuante delle foglie di pioppo, quell’amorevole
che un rovescio di pioggia autunnale ha forse provocato e poi esaltato, le
foglie bagnate odorose, pervase dei giorni lontani della mia vita in provincia,
un’asprezza vegetale che può essere subito sollecitata alla memoria.
Sono gonfio di pioppi nel ricordo, sfrondati dalle nostre mani giovani, la
tenerezza dei rami recisi dal colpo di quelle roncole ripiegabili che portavamo
nelle tasche dei pantaloni corti e rammendati. In una tasca la roncola, in una
tasca la fionda (sfròmbla, da noi), i suoi gommini di elastico quadrato,
la forcella di faggio tornita a mano libera, il tassello di pelle ricavato da
un guanto» (Giorgio Torelli, Il Giornale, 21 ottobre 1980).
Ci sono scrittori che hanno l’animo
buono: sono nati con la missione di donare alle persone una parola che possa
rischiarare le ombre della vita. Quando penso a costoro, il primo che mi viene
in mente è lo scrittore Giorgio Torelli, nato a Parma nel 1928. Leggevo
puntualmente ogni domenica la sua rubrica («Il diario di sette giorni») che
veniva pubblicata sul Giornale di Indro Montanelli, e come tanti suoi
ammiratori sapevo che avrebbe portato un piccolo raggio di sole. Grande
giornalista, collaborò ai maggiori quotidiani e curò per molti anni la rubrica
«Cosa nostra». La raffinatezza del suo scrivere era notevole. Sapeva usare la
penna in modo garbato e mai offensivo, come testimoniano alcune opere da lui
pubblicate: Gli Arcinoti, Pagine di un passaporto, I provocatori, Il buco
della Giacoma, Cosa nostra appunto, I giorni della merla, La magnolia
padronale e La Parma voladora. Torelli è per me come un amico, a cui mi
sento legato per le sue descrizioni e i suoi articoli semplici e penetranti. Da
anni li conservo con cura, rileggendoli spesso e riassaporando ogni volta la
sua lingua «inventiva, piccante, casalinga e ardita insieme», come scrisse nel
1976 Enzo Bettiza presentando il volume Avanti adagio, quasi indietro. Cosa
nostra 2.
Quello che ho sempre apprezzato di
Torelli, al di là del suo palese talento giornalistico, è sempre stata la sua
radice autenticamente cattolica, la sua concezione cristiana della vita e la
continua apertura su orizzonti familiari e quotidiani. Il lettore vero è quello
che si innamora di uno scrittore, lo segue, e si affeziona così tanto da
considerarlo un punto di riferimento nella vita. Le sue parole sembrano
cesellate come quelle di un filosofo. Anche la vita di Torelli è un esempio da
imitare. Dopo la pubblicazione di un suo libro autobiografico, fu intervistato
da Stefano Rotta, il 23 gennaio 2016, e alla domanda su cosa fosse il
giornalismo per lui, rispose: «Ho detto a me stesso: caro Giorgio, sei stato
testimone dei testimoni. La mia occasione è stata questa... Suscitare speranza
con la mia stessa persona non solo raccontando la storia di chi fa il bene
comune, che tanto faceva felici i direttori che mi hanno ospitato, Montanelli
in particolare. Lo devo essere io stesso, un testimone di speranza... Ciascuno
di noi evangelicamente è un servo inutile. A ognuno è dato un carisma, una
dote, una qualità, per il bene comune. La mia è portare speranza con le
parole».
Un vecchio professore di lettere amava
Torelli: nella sua biblioteca c’era uno spazio dedicato ai suoi libri. Lo
avvicinava al grande Giovannino Guareschi (che aveva conosciuto durante la
prigionia) per il modo semplice e garbato che avevano nell’affrontare
la vita nell’intendere la professione di scrittore. Li amava, come si ama
un maestro diventato la stella polare da seguire.
Tra i tanti libri che ha scritto Giorgio
Torelli, uno può legare il lettore per sempre: La Parma voladora, edito
da Camunia. Può essere considerato un viaggio storico e letterario nel
periodo tra le due guerre mondiali. Inizia con la storia di una famiglia
padana: s’intrecciano le vicende del nonno granatiere, dei suoi undici
figli, dei nipoti, delle sorelle e degli amici. Un viaggio in cui il lettore si
incolla ai personaggi, e che si avvicina alle pagine storiche di Bacchelli nel Mulino
del Po. Lasciatevi trasportare da un libro di Torelli: non vi
deluderà.
In uno ho rinvenuto un suo articolo, datato 6 marzo 1983. Racchiude quanto di meglio sia stato scritto sulla figura di Umberto II, ultimo re d’Italia, morto qualche giorno dopo la pubblicazione del pezzo: «Ora io voglio fare un augurio al re, che conosco e di cui ho avuto modo di apprezzare lo stile discreto e colmo di tatto. Che la vigilia gli sia lieve e la sua salute rifiorisca proprio in virtù di questa medicina; la terra promessa lo riaccoglie e la gente lo aspetta e vuole rivedere. Al di là di ogni cronaca dalla Svizzera, misurata o enfatica, i miei frequenti pensieri vanno a Umberto smagrito sul cuscino di sofferenza e a questa sua battaglia di re contro il tempo, perché non gli sia negata la più legittima delle glorie: tornare a casa dopo tanto sonare di Atlantico, incontrare le mani tese e rivedere tutto ciò che appartenga al suo sentire, il cielo, gli alberi, le acque, la città, la lingua, i giovani che lo rispetteranno e i vecchi carichi di memorie anche difficili». Nel leggere parole come queste, sale spontaneo alle labbra un grazie.
Il sogno di un Re in esilio,
pubblicato su Grazia, agosto 1963
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