domenica 26 febbraio 2017
Nuova intervista sul sito dedicato al Re
Un'intervista del 1948, rilasciata a "La Stampa" sui monarchici in politica e sui rapporti della Corona con il Fascismo.
www.reumberto.it
sabato 25 febbraio 2017
venerdì 24 febbraio 2017
Il libro del nostro Chiaserotti
Per anni si è annidato nella mente
dell’autore il desiderio di raccogliere i ricordi del periodo che vanno dal
1960 al 1986, momento in cui ha raggiunto uno dei primi traguardi della vita.
Ma solo nel 2013, approfittando della quiete di Alfedena, borgo di montagna in
provincia de L’Aquila, l’idea si è concretizzata nel volume che adesso
stringete tra le mani.
Ricordi
vari è un
testo autobiografico dal sapore narrativo. Gianluigi Chiaserotti qui mette in
scena le sue memorie utilizzando la penna e l’inchiostro come fossero burattini
cui dar vita sul foglio, offrendoci un racconto piacevole alla lettura e dal
gusto originale. Un libro che guarda con affetto al passato e che riconosce
alla storia la possibilità di definire il destino degli uomini semplicemente
col suo lento procedere.
Gianluigi
Chiaserotti nasce
a Roma nel 1960.
Laureato
in Giurisprudenza con una tesi in Storia del Diritto Italiano, oggi collabora
anche con docenti universitari.
Oltre
all’attività di consulente legale e notarile pubblica studi storiografici e
ricerche intorno a personaggi o epoche storiche.
giovedì 23 febbraio 2017
5 giugno 1944 – 9 maggio 1946: due anni difficili – La Luogotenenza del Principe Umberto - seconda parte
DA BONOMI A DE GASPERI
ED IN MEZZO PARRI
Se questi eventi militari e
diplomatici attestavano la
crescita del prestigio del Luogotenente, non altrettanto
avveniva, come già detto, in sede governativa
dove venivano proposte
provvedimenti e leggi anche
con effetti retroattivi, quali quelle
sulla “epurazione”, che colpiva
fra gli altri
quasi tutti i
Senatori del Regno, sui
“profitti di regime”, sull’Alta Corte
di Giustizia e
successivamente la creazione
di Corti d’assise
straordinarie, che il Luogotenente, pur non
condividendole, non poteva
non sanzionare. Vi era poi
una continua conflittualità anche
all’interno del governo
tra azionisti e
socialisti da una
parte e liberali
e democristiani dall’altra
per cui Bonomi
dovette presentare, il 26
novembre 1944, le dimissioni
al Principe, che così
iniziò le consultazioni
ripristinando la prassi
del Regno del
Padre. Questa prima crisi
di governo ed
il suo svolgimento
è significativo perché
da un lato
rompeva il monopolio
e la monoliticità
del CLN e
dall’altro ridava alla
Corona il suo ruolo
di mediazione. Bonomi ebbe
il reincarico di
formare il governo
al quale, incredibile a
dirsi, non parteciparono azionisti
e socialisti, per cui vi
sarebbe stata una svolta al
centrodestra, se i comunisti, con l’ormai
conosciuta abilità manovriera, non avessero
invece rinnovato la
loro partecipazione governativa, raggiungendo con
Togliatti, ministro senza portafoglio, la Vice
Presidenza del Consiglio. Così il
12 dicembre 1944
iniziava il secondo governo
Bonomi, con la cerimonia
del giuramento al
Quirinale di fronte al
Principe, in divisa, mente i
ministri erano correttamente
vestiti di scuro. Il
testo del giuramento, era ormai
quello modificato, che riportiamo: “Giuro sul mio onore
di esercitare la mia funzione
nell’interesse supremo della
nazione e di
non compiere fino
alla convocazione dell’Assemblea Costituente
atti che comunque
pregiudichino la soluzione
della questione istituzionale.” Testo che
i ministri sottoscrissero, senza però
prima leggerlo, il che
non piacque al
ministro Lucifero ed
anche al Luogotenente che nel
suo intimo era
amareggiato di questi
sgarbi minori, rispetto a
quelli maggiori che
doveva egualmente accettare, con il
suo perfetto autocontrollo. Per cui
in tutto il
diario tenuto da
Lucifero, solo una volta, nel
maggio successivo, si legge
uno sfogo del
Principe: “non è
divertente quello che
faccio se non
fosse per compiere
un dovere per
il paese”, parole
che confermano l’altissimo
senso del “servizio”
che ha contraddistinto tutta
la sua vita, ma
anche quella amarezza che
si rivelava nel
suo aspetto fisico,
precocemente invecchiato,
malgrado avesse appena quarant'anni.
In queste trattative
per un nuovo
governo, da parte di
Lucifero e dello
stesso Luogotenente,
circostanza che si ripeté anche
nelle successive crisi governative, ci fu
il tentativo di inserire nella
compagine ministeriali alcuni
“grandi vecchi” del periodo
prefascista, ma su questo punto
la volontà monopolistica
del CLN fu
intransigente, come pure lo fu nei
confronti delle altre
formazioni politiche al
di fuori del
sei partiti e
di questa attitudine prevaricatrice fu
successivamente prova la
composizione della Consulta
Nazionale di cui
parleremo più avanti. E’
invece da sottolineare che
in questo secondo
ministero Bonomi appare
in un ruolo
importante, di Ministro degli
Esteri, il leader della
Democrazia Cristiana, Alcide De
Gasperi, che nel precedente
governo era stato
uno dei ministri
senza portafoglio, il che
lo porta a
frequente contatto con il
Ministro della Real
Casa e con
il Principe per
la firma dei
decreti e per la
scelta dei nostri
ambasciatori nelle principali
capitali estere. E di
questa collaborazione sono
significativi diversi episodi
come la firma
di alcuni decreti
il giorno di Pasqua, 1°
aprile 1945, dimostrazione del
reciproco alto senso
del dovere che
vedeva Principe e
Ministro al lavoro
in un giorno festivo, e quando, sempre nell’aprile
del ’45, De Gasperi preoccupato
per la sorte
di Trieste, prega il
Luogotenente di aiutarlo
intervenendo sul Maresciallo
Alexander, a conferma del
prestigio che il
Principe Umberto aveva
acquisito presso i
comandanti angloamericani,
per cui il Principe
si recò infatti
a Caserta, il 22
maggio, a parlare con
Alexander, che lo trattenne
anche a colazione, e
sempre De Gasperi, dopo
un lungo colloquio
parla di averlo
trovato talmente preparato
su tutti gli
argomenti trattati da esserne
rimasto colpito, mentre la
stessa impressione non
aveva avuto in
un primo colloquio, mesi prima
a Napoli. E di questa
competenza e capacità
del Principe sono
ulteriori testimonianze le
dichiarazioni di Benedetto
Croce, quale questa: “Avendo avuto
occasione di vedere
più volte il Principe
per consultazioni politiche
nel 1945 e nei
primi mesi del
1946, notai la sempre
più progredente sua
formazione politica, l’ascoltare
attento, il domandare serio, la
correttezza costituzionale, il sentimento
di responsabilità personale.”, e , incredibile a
dirsi, del conte Sforza, che
pur divenuto repubblicano, si avvicinava
al Principe, che, bontà sua, : ”mi
pare proprio a
posto. Molto meglio di
quanto pensassi”, chiedendo ed
ottenendo colloqui riservati o
partecipando il 9
maggio del 1945, nella
Cappella Paolina, al Quirinale, alla cerimonia
in suffragio della
povera Principessa Mafalda, la
comunicazione ufficiale della cui tragica
morte nel lager
di Buchenwald era
pervenuta il primo
maggio, ed il Principe
si era recato
immediatamente a Napoli, il
2 maggio, a recare
la triste notizia
ai Genitori.
Nella ripresa della
normale vita governativa
e del completamento
della liberazione della
penisola vi erano
anche occasioni ufficiali
in cui il
Luogotenente intervenne come
il 4 novembre
1944, all’Altare della Patria, senza
però poter deporre
una corona, ma solo un
fascio d’alloro con un
nastro azzurro, o il 24 marzo
1945 a Santa
Maria degli Angeli, alla
cerimonia in memoria
dei martiri delle
Fosse Ardeatine, dove alcune
donne cominciarono ad
urlare contro la sua
presenza senza che
nessuno intervenisse ed
il successivo 13
maggio 1945 sempre a
Santa Maria degli
Angeli, per il Te
Deum di ringraziamento per
la fine della
guerra, officiato da Monsignore
Ferrero di Cavallerleone, quando non
gli venne portato
da baciare il
Vangelo ed impartita
la benedizione usuale, consuetudini alle
quali il Principe, cattolico praticante, era legato
particolarmente.
Ritornando alla situazione
politica, la liberazione di tutta l’ Italia del
Nord, dove da tempo
si era costituito
il CLNAI, il comitato
di liberazione dell’alta
Italia, di soli cinque
partiti, perché la Democrazia
del Lavoro, era al
Nord praticamente inesistente,
il predetto comitato
riteneva non essere
più possibile il
mantenimento del governo
Bonomi, almeno nella composizione
di allora e pretendeva
un totale cambiamento,
il cosiddetto “vento
del Nord”, per cui
dopo diversi infruttuosi
incontri di Bonomi
con i rappresentanti del
CLNAI, il 12
giugno 1945, lo stesso
presentava la lettera
di dimissioni al
Luogotenente. Il successivo 13
giugno si apriva
così un nuovo
ciclo di consultazioni, cominciando dai Presidenti “formali” del
Senato e della
Camera, poi in ordine
alfabetico rappresentanti dei
partiti del CLN, che
accettano tutti di
salire al Quirinale, tranne il
rappresentante del Partito
d’Azione, ed anche successivamente Selvaggi
per il Partito
Democratico ed il
senatore Bergamini per la Concentrazione Democratico-liberale. Seguivano i
Collari dell’Annunziata, il grande
ammiraglio Thaon di
Revel, e l’ineffabile “conte” Sforza, nonché
il Maresciallo Badoglio, quale ex
presidente del consiglio. Poi ancora
gli Alti Commissari
per la Sicilia, Aldisio, e per
la Sardegna, Pinna, ed i Commissari
per le Associazione Reduci, Gasparotto, e la
Medaglia d’Oro Cabruna per
l’A.N.M.I.G. (Associazione
Nazionale Mutilati e invalidi di
guerra). In realtà
l’unica realtà politica
che, purtroppo, contava era il CLN, ma
questa larghezza di
interpellati dava anche
all’opinione pubblica la
sensazione che il Quirinale
non fosse una
mera facciata, dietro la
quale esistesse il
nulla. Anche Parri viene invitato, quale esponente
della Resistenza, ma declina
temporaneamente l’invito fino
alla domenica 17
giugno quando sale
al Quirinale per
ricevere l’incarico di
formare il nuovo governo, essendo stato
indicato il suo
nome dai partiti del CLN. Ci
siamo soffermati su
queste consultazioni e
su questo incarico
perché con il
governo Parri avveniva
una svolta a
sinistra ed una accentuazione
repubblicana, proprio a cominciare
dallo stesso presidente
del consiglio, esponente del
partito d’azione. Effettivamente la
Democrazia Cristiana, pur mantenendo
gli Esteri, con De Gasperi, arretrava come
qualità di ministeri
perdendo il ministero
della giustizia che
andava al PCI, nella
persona di Togliatti. Questa assegnazione
rompeva una sia
pure breve tradizione
dei governi Badoglio
e Bonomi in
cui il Ministero
di Grazia e Giustizia
era stato retto
da liberali (Arangio
Ruiz ), e poi dai democristiani (Tupini). Nel governo
Parri faceva anche il
suo debutto ai
LL.PP., un ingegnere socialista, Romita. Il Ministero degli
Interni era assunto
dallo stesso Parri, come
era avvenuto in
precedenza con Bonomi. Per
questo fondamentale ministero, vi
erano state anche
nelle precedenti trattative
pressanti richieste socialiste, ma i
liberali avevano replicato
che non avrebbero
mai accettato un socialista agli
interni e lo
stesso aveva risposto
la democrazia cristiana, il
che rende ancora
più strano quanto
avvenne successivamente,
alla caduta del
governo Parri, che sarebbe
durato dal 21 giugno, data
del giuramento, al 10
dicembre 1945.
Cerimonia del giuramento
analoga alla precedente, ma questa
volta i ministri
prima di firmare
leggono il testo, sia
pure a bassa
voce, per poi non
tenerne conto, come i
loro predecessori nei
loro discorsi di
parte chiaramente repubblicana! Parri, modesto di
persona, si rivelò altrettanto
modesto come presidente
del consiglio, dando così
campo libero a
Nenni, Ministro per la
Costituente, ed allo stesso
Togliatti, che iniziava a
conoscere e penetrare nell’ambiente della
Magistratura, sapendo già il
ruolo che avrebbe
dovuto svolgere in
occasione delle elezioni
per la Costituente, alle quali
si aggiunse poi
anche il referendum
istituzionale. Nel frattempo si
era Inoltre messa
in cantiere, con il Decreto del
30 aprile 1945, una
assemblea “non elettiva” ,
da chiamarsi Consulta, inizialmente di
304 componenti, di cui 60 ex
parlamentari, ante 1925, in grande
maggioranza di sinistra, 156
rappresentanti dei partiti
del CLN, in quote
paritarie, e, bontà loro, un numero
nettamente minore, di 20 rappresentanti dei
partiti e movimenti fuori
dal Comitato, tra i
quali il Partito
Democratico Italiano, e 46
esponenti sindacali, più 12 per combattenti
e reduci ed
infine 10 per associazioni
culturali.
martedì 21 febbraio 2017
Alla riscoperta dei dissidenti dell'Action Française
di Francesco Perfetti
Un saggio di Paul Sérant racconta un percorso intellettuale che va da Maurras a Claude Roy
Quando all'inizio degli anni '60 apparve la traduzione del suo Romanticismo fascista, Paul Sérant divenne popolare negli ambienti della destra italiana, in particolare del neofascismo: il libro era un affresco di quella che, in prima approssimazione, poteva essere chiamata la «cultura fascista francese» attraverso i ritratti letterari di sei scrittori «maledetti» o comunque scomodi: Drieu La Rochelle, Brasillach, Rebatet, Alphonse de Chateaubriant, Abel Bonnard e Céline.
I loro nomi evocavano una cultura «catacombale». Tuttavia, per quanto il «fascismo» francese così fatalista, crepuscolare e intriso di pessimismo apparisse ben diverso da quello italiano, quelle figure tragiche emanavano un fascino indiscutibile sui giovani del neofascismo e alcune loro opere erano divenute oggetto di culto.
Altri libri di Sérant furono tradotti in seguito come il saggio su Salazar e il suo tempo o l'inchiesta su I vinti della Liberazione dedicato all'epurazione postbellica nei vari Paesi europei. Quello che, invece, non è mai apparso in italiano è un bellissimo lavoro del 1978 dal titolo Les dissidents de l'Action Française ripubblicato ora in una nuova edizione (Pierre-Guillaume de Roux, pagg. 420, euro 29) accresciuta e arricchita da una puntuale prefazione di Olivier Dard, autorevole studioso della Sorbona e profondo conoscitore della storia della destra intellettuale francese. È un'opera che sotto certi profili e, in particolare, da un punto di vista strutturale si riallaccia a Romanticismo fascista, ma è, a mio parere, ben più importante perché chiarisce bene sia il peso che il pensiero di Charles Maurras ebbe nella cultura e nella vita politica francese del '900 sia i motivi dell'allontanamento di alcune personalità di rilevo dall'Action Française e dal suo fondatore sia ancora le differenze, piuttosto che le affinità, tra il nazionalismo e il fascismo.
[...]
Ma hanno ancora senso le monarchie?
IL BUONO E IL CATTIVO - Un tema di attualità e due punti di vista a confronto. Paolo Conti giornalista del Corriere della Sera e Tommaso Labate giornalista e conduttore tv. Voi da che parte state? Ditecelo su Facebook
[...] Sono simboli trans-generazionali e rigorosamente non maschilisti, ovvero due vantaggi. Significano che la monarchia, sottratta ai duelli politici quotidiani sempre più angosciosi (e anche pericolosi), resta una certezza non solo simbolica nel tempestoso oceano della contemporaneità. In nessuno di questi Paesi ferve un forte movimento anti-monarchico. Il che significa che la formula funziona ancora. [...]
venerdì 17 febbraio 2017
Circolo REX . Conferenza del 19 Febbraio
Circolo
di Cultura ed Educazione Politica
REX
***
Domenica
19 febbraio 2017 ore 10.30
Sala
Uno, Roma Via Marsala 42
Il professore
Giuseppe Parlato
Illustrerà
gli importanti ricordi
contenuti nel :
“Vanni Teodorani : quaderno 1945-1946“
***
sarà possibile
acquistare la ristampa del volume del Circolo REX dedicato alla Grande Guerra, gia’
pubblicato nel 1968 in occasione del Cinquantenario ed ora nuovamente
pubblicato nei “ Libri del Borghese”, stampato dalla Casa Editrice “ Pagine” di
Roma
***
La S.V. è
invitata
5 giugno 1944 – 9 maggio 1946: due anni difficili – La Luogotenenza del Principe Umberto - prima parte
La conferenza del 29 gennaio 2017 è la prosecuzione della precedente conferenza, tenuta sempre al Circolo REX dal suo Presidente, Ingegnere Giglio, dal titolo "Il Regno d'Italia da Brindisi a Salerno", che si trova nel nostro blog.
L’INIZIO
Se il Maresciallo Badoglio,
giunto a Brindisi, disse di aver
ricominciato la sua
azione di governo” con
una matita ed
un pezzo di
carta”, non è che
la situazione in
cui si trovò
il Principe Umberto, l’8
giugno 1944, arrivato a Roma, al
Quirinale, fosse molto diversa. Gli
angloamericani arrivati a
Roma il 5
giugno, avevano dato il
consenso al ritorno nella
capitale del Principe, nominato nella
stessa data, Luogotenente
Generale del Re, (la
cui formula fu modificata
senza provvedimenti di
legge in “Regno”), con un Regio Decreto, nel
quale il Padre, lo
nominava a tale
carica, ritirandosi
definitivamente a vita
privata. Ed il Principe, arrivò praticamente
solo, in un Quirinale
vuoto, dovendo iniziare
subito il difficile
ruolo di Capo
dello Stato. Come da
prassi, il Maresciallo Badoglio, aveva infatti
presentato le dimissioni
del suo governo
ed era venuto
anche lui a
Roma per incontrare
gli esponenti romani
e nazionali del C.L.N. (Comitato Liberazione
Nazionale), usciti dai conventi
e monasteri dove
avevano vissuto nascosti
e protetti, nei nove
mesi dell’occupazione tedesca, per
trattare un allargamento
del governo. Invece si
sentì dare il
benservito, in quanto il
CLN, voleva tutto il
potere e presentava
la candidatura a
Presidente del Consiglio, di
un vecchio uomo
politico prefascista, Ivanoe Bonomi, che
aveva già ricoperto
tale carica nel 1921. Ed
il Luogotenente dovette
accettare questa indicazione, che era
una imposizione, in quanto, in
fondo, Bonomi, rappresentava
pur sempre un
uomo di stato, cresciuto ed
affermatosi, nello stato monarchico,
sotto il regno
di Suo Padre, dove
partendo da posizioni
socialiste, era approdato al
riformismo ed era stato
uno dei tre
parlamentari socialisti recatisi
al Quirinale nel
1912, per esprimere al
Re Vittorio Emanuele
III, le proprie
felicitazioni, per essere
scampato all’attentato dell’anarchico D’Alba,
e, per tale
colpa erano stati
espulsi dal partito
socialista. Così, con
decorrenza dal 18
giugno, veniva formato
un nuovo governo, composto dagli
esponenti dei sei partiti
componenti il CLN, e
precisamente il Partito d’Azione, il Partito
Comunista, il Partito Socialista, il Partito
Liberale, il Partito della
Democrazia Cristiana ed
il Partito della
Democrazia del Lavoro, al
quale apparteneva Bonomi. Conoscete le
vicende iniziali di
questo governo, non molto
gradito dagli angloamericani e
particolarmente da Churchill
che avrebbe preferito
una conferma di
Badoglio, per cui per
più di un
mese il governo
dovette riunirsi a
Salerno e poté
ritornare a Roma, come
il Luogotenente, a metà
di luglio. Abbiamo detto
della solitudine del
Principe, in quanto il
personale della sua
casa militare, non aveva
logicamente esperienza e
conoscenza politica, per cui era necessaria
una persona che
avesse queste caratteristiche, già
individuata nella persona
dell’avvocato Falcone Lucifero, ma
che, per un insieme
di motivi e
di ritardi poté
assumere la carica
di Ministro della
Real Casa, solo alla
fine di agosto, iniziando quella
collaborazione che durò per
tutta la vita
del Principe, poi Re . Né a Roma in
quei tre mesi, giugno, luglio, agosto, vi era
stato anche un
solo politico del
periodo prefascista che si fosse
avvicinato al Luogotenente, per consigliarlo
nella nuova veste
di Capo dello
Stato, così il Principe dovette
iniziare, senza alcun supporto, una
“corsa di ritorno”, e
dimostrare la sua
capacità di sostenere
con alta competenza
ed equilibrio il
suo ufficio, doti che
successivamente gli vennero
riconosciute anche da
avversari della Monarchia.
Senza scendere
in troppi dettagli
sulla vita di
Falcone Lucifero, la cui
figura meriterebbe una
analisi approfondita,
dobbiamo ricordare i
dati essenziali: nato nel
1898 da nobile
famiglia calabrese, che aveva
avuto diversi suoi
esponenti deputati al
Parlamento nel periodo
pre -fascista, volontario di guerra
in artiglieria da
montagna, laureato in legge, simpatizzante del
socialismo riformista,
consigliere comunale socialista
di Crotone, logicamente antifascista,
durante il ventennio
si era dedicato
con successo alla
professione forense e
nel settembre 1943, trovatosi nella
natia Calabria, per il suo
nome prestigioso era
stato nominato Prefetto
di Catanzaro, ad opera
degli “alleati”, con risultati
positivi, per cui il suo nome
era cominciato a
circolare, così che nel
Ministero Badoglio,
ricostituitosi nel febbraio
1944, dovette accettare la
carica di Ministro
dell’Agricoltura e Foreste tenuto
dall’11 febbraio al 22 aprile. Terminata questa
esperienza governativa dove
si distinse per energia, dimostrando notevoli doti
organizzative, entrato nella vita
politica ed amministrativa dello
Stato, fedele alle sue
istituzioni, veniva nominato Prefetto
di Bari, ed
al tempo stesso, proprio per
le qualità dimostrate
nei diversi compiti
svolti e per
il suo passato, si
pensò al suo
inserimento a fianco del
Luogotenente, come Ministro della
Real Casa, carica che
assunse, come già detto, alla
fine dell’agosto 1944. E
di questa sua
attività tenne un
importantissimo diario, che relativamente
al periodo dal 12 febbraio
1944 all’11 agosto
1946, è stato pubblicato, nel 2002, da
Mondadori, con il titolo
“ L’ ultimo Re”, con
una importante introduzione
dello storico Francesco Perfetti. Diario che è fondamentale
per seguire giornalmente l’opera del
Ministro, ma anche,
logicamente quella del
Principe Umberto, che,
finalmente aveva al suo
fianco persona esperta
di politica e
di diritto, e non
un cortigiano.
L’ assenza di
un autorevole ed esperto
consigliere ebbe infatti
la sua importanza
quando il governo
Bonomi, sottopose alla firma
del Luogotenente, il 25
giugno 1944, il Decreto
n.151, che modificava la
formula del giuramento
dei Ministri e prevedeva la
convocazione di una
“Assemblea Costituente”, da eleggersi, terminata la
guerra, alla quale affidare
la redazione di una nuova
costituzione e la
forma istituzionale dello stato, ed
abrogava il decreto
legge del governo
Badoglio, dell’agosto 1943,
logicamente firmato dal Re Vittorio
Emanuele III, dove invece
era stabilito che, dopo
quattro mesi dalla
fine della guerra, si
sarebbe proceduto alla
elezione della nuova
Camera dei Deputati
del Regno, decreto importantissimo e
fondamentale perché sanciva
il ritorno alle
istituzioni della democrazia
rappresentativa, riprendendo
la tradizione risalente
allo Statuto del
1848. Perché sottolineiamo questo
decreto Bonomi? Perché in
pratica, come sottolineato dai
costituzionalisti, Giuseppe Menotti
De Francesco, Magnifico Rettore
dell’Università di Milano, e
dal professore Emilio
Crosa, questo Decreto, con riferimenti
a leggi del
1939 (art. 18 legge 19/01/1939 n. 129) e 1943( R.D.L.
03/10/!943 n.2B) suscitava
notevoli perplessità sulla
sua stessa legittimità
e comportava difficoltà
di interpretazione per
le sue intrinseche
incongruenze, sì che da
molti commentatori si
disse, con troppa faciloneria
che in pratica
si era abolito
lo Statuto e
l’Italia, da quel momento, non
era più una
Monarchia anche se
non era ancora
repubblica.
D’altra parte il
Principe Umberto stava
faticosamente riprendendo le
sue funzioni costituzionali e non
aveva l’autorità necessaria
per opporsi al
governo ciellenista, né in
fondo l’aveva lo
stesso Bonomi, che non
aveva brillato per
energia nel lontano
1921 e certo
non l’aveva acquistata
negli anni successivi, anche se
tutti gli riconoscevano
oltre all’onestà, doti di
competenza , di equilibrio e
di moderazione, dote questa
che cozzava con
l’intransigenza e
l’estremismo specie degli
“azionisti”, presenti nel governo
con tre ministri. Oltre tutto
il Principe per la sua
nuova carica, non poteva
essere vicino più
frequentemente ai soldati che
risalivano combattendo l’Italia, come aveva
fatto, regnando ancora il
Padre, fino al 5 giugno, e
come avrebbe preferito
fare, perché nel suo
intimo era e
rimaneva sopra tutto
un “soldato”, come tutti
i Savoia, ed ai
militari aveva indirizzato
un messaggio all’atto
di assumere la
Luogotenenza del Regno.
A
questo proposito è
bene precisare, una volta
per tutte, che la
minore presenza tra
le truppe del Regio Esercito, dopo la
nomina a Luogotenente, del Principe
Umberto, era dovuta alle
nuove incombenze statutarie
che richiedevano la sua presenza
a Roma, anche se
non mancarono le
visite di cui
accenneremo in seguito. Egualmente dicasi
per chi accusa
il Principe di non
aver assunto il
comando effettivo delle
nostre unità, nomina “ bloccata”
dagli angloamericani, ai quali
stava bene il nostro
contributo di “cobelligeranti”, ma al
tempo stesso tendevano a
minimizzarlo, come quando chiamarono
“gruppi di combattimento”, quelle che
erano per numero
di soldati delle
vere “divisioni”, il cui insieme
avrebbe costituito non
solo un “Corpo
d’Armata”, ma una
vera “Armata Italiana
di Liberazione”! Ma
di questa costante
presenza del Principe
tra i soldati
la migliore testimonianza
è la lettera
che il Ministro
della Guerra , il democristiano
Stefano Jacini inviò, il
14 settembre 1945, accompagnando il
distintivo della vittoriosa
campagna di liberazione
1943-1945, “….alla quale
Vostra Altezza Reale ha
partecipato direttamente,
insieme al primo Raggruppamento Motorizzato, al Corpo
Italiano di Liberazione
e coi gruppi
di combattimento. Le
truppe che hanno
visto Vostra Altezza , sulla linea
di combattimento dal
Volturno a Bologna, saranno fiere
di vederLa fregiarsi
di questo umile
segno che ricorda
l’opera svolta per
la rinascita della
Patria“. Dobbiamo però
dare atto al
generale statunitense Mark
W. Clark, comandante della Quinta
Armata, di aver proposto
la concessione al
Principe della “Legion
of Merit”, bloccata
per motivi politici,
di aver accettato
con orgoglio di
ricevere dalle mani del Luogotenente la
Gran Croce dell’Ordine
dei Santi Maurizio
e Lazzaro e
di aver fatto
passare in rassegna
dal Principe reparti
statunitensi, il che, se pensiamo
alla realtà italiana
dell’epoca, a pochi mesi
dall’armistizio, costituiva il migliore e
maggiore riconoscimento al
contributo del Regio
Esercito e della
Monarchia alla liberazione
del territorio nazionale
e del prestigio
personale che aveva
saputo conquistarsi il
Principe. Eventi tutti che
furono volutamente ignorati
dalla stampa ciellenista
perché avrebbero risollevato
il nome della
Casa Savoia ed
avrebbero successivamente giovato
alla causa dell’Italia
in sede di trattato
di pace, dove invece
non fu fatto
alcuno “sconto” alla
neonata repubblica italiana, che
non valorizzò questi
argomenti, perché favorevoli alla
memoria della Monarchia, che, invece si
cercava in ogni
modo di cancellare, costante questa
cancellazione anche nel
periodo successivo, fino ai
nostri giorni.
Uno storico, non
certamente monarchico,
Gianni Oliva, giudica che
negli anni della luogotenenza, malgrado l’atteggiamento aprioristicamente repubblicano
dei partiti politici, esclusi liberali
ed in parte
i democristiani, “….Umberto rivela
una maturità inattesa.
Egli regna …lavora con
impegno e restituisce
al Quirinale dignità
di reggia, ostenta in ogni occasione il
suo lealismo costituzionale… Accoglie ministri
con animo tranquillo
ed imparziale, firma leggi
che certamente non
condivide…”, ed anche in
cose ben più
semplici, come sedersi in
automobile vicino all’autista,
dimostra la sua
maturità umana perché
capisce che arrivare
in città o località
quasi distrutte o
presso reparti militari, con
una macchina lussuosa
e con sussiego
sarebbe stata un’offesa
a chi forse
aveva perduto ogni
sua cosa. Così pure
dando la mano
a tutti, con una
sensibilità da vero
Signore, oggi diremmo democratica, che spesso
non avevano suoi
accompagnatori, come aveva fatto
il Re, suo Padre
nelle visite al
fronte durante la grande guerra
1915-1918. Ed all’ Oliva si
deve anche un
importante riconoscimento sull’ entità
dello sforzo bellico
del Regio Esercito, durante la
cobelligeranza, con oltre ben
350.000 uomini mobilitati
tra gruppi di
combattimento e divisioni
“ausiliarie”, che operavano
non solo nelle retrovie, ma
a ridosso del fronte, ed anche
Incisa di Camerana, nel
suo libro sulla
Luogotenenza, dedica al Regio
Esercito delle pagine bellissime di
riconoscimento del loro operato,
ricordando anche l’opera svolta dall’esercito per
stroncare il separatismo
siciliano nel 1945, che
si era reso minaccioso, anche con un suo
esercito, l’EVIS, e contro il
quale non potevano
bastare i pur
valorosi carabinieri.
LA VITA
QUOTIDIANA
Con la
presenza a fianco
di Lucifero il
Principe imposta una
giornata di lavoro
che parte dalle
prime ore del
mattina e termina
nelle tardissime ore
della sera per
potere ricevere quante
più persone ne
facessero richiesta, oltre agli
incontri ufficiali ed
istituzionali, e per potere
recarsi al fronte, a
visitare le nostre
truppe e le
città ed i
paesi liberati. Questo partendo
prestissimo in aereo, viaggi spesso
pericolosi , e tornando
in tempo per le
altre attività sopra
indicate, e per quello
che riguarda la
sua presenza tra
i militari vi è una
notevole testimonianza fotografica
venuta alla luce
dopo il referendum, in quanto
prima era rimasta
volutamente occultata,
sempre allo scopo
di far ignorare
agli italiani, fatti che
potevano giovare alla
causa monarchica.
Anticipando i tempi
ricorderemo ad esempio
il silenzio assoluto
della stampa sulla
presenza del Luogotenente, nel febbraio
1946, ad una
udienza papale in
occasione del Concistoro
nel quale Pio
XII aveva nominato
nuovi Cardinali ed
il successivo ricevimento
che, in loro onore, il
Principe con la
Principessa avevano dato
al Quirinale, presenti anche
tutti gli altri
Principi di Casa
Savoia dal Duca
d’ Aosta, Aimone, ai Duchi di
Genova, Bergamo e Pistoia,
ricevimento di cui
parlò brevemente, in una
pagina interna, solamente “L’Osservatore Romano“.
Ed a proposito
dei Principi di
Casa Savoia, alcuni di
questi, oltre tutto già
anziani, poterono tornare
a Roma solo
nel 1945, dopo la
Liberazione, per cui nel
1944 il Luogotenente
avrebbe potuto contare
solo sul quasi coetaneo, Aimone, Duca
d’Aosta, che aveva assunto
tale titolo a
seguito della morte
del fratello Amedeo, avvenuta il 3
marzo 1942, che però ai primi
dell’aprile 1945, avendo in
una cena privata
a Taranto, espresso una
battuta sui giudici
dell’Alta Corte, che stavano
processando il generale
Roatta, presente alla cena
la giornalista inglese
Silvia Sprigge, la suddetta
battuta fu dalla stessa, scorrettamente, inviata e
pubblicata sui giornali, come fosse
stata una vera
e propria dichiarazione
politica, con grande ipocrita scandalo della
stampa e del
governo ciellenista, il che mise
fuori giuoco il
Principe, che dovette lasciare
Taranto e ritirarsi
a Napoli, per alcuni mesi, dove viveva
la Duchessa d’Aosta
Madre.
In questo
periodo cominciano ad
organizzarsi dei movimenti
monarchici, con i quali
i rapporti sono
tenuti dal Ministro
Lucifero, per cui appare
un partito, il Partito
Democratico Italiano, di Enzo
Selvaggi e di
Roberto Lucifero, cugino del
Ministro, si presenta un
giovane professore Alfredo
Covelli, per una Concentrazione Democratica
Liberale, dove era pure
l’anziano senatore Bergamini,
e ad ottobre
del ’44 appare
un manifesto dell’Unione
Monarchica Italiana, sorta da
pochi mesi, che dà
spunto al ministro
di precisare quella
che era e
sarebbe stata la
linea tenuta, (ed anche
criticata), dal Luogotenente:
“Che la
Corona ed il
Ministero (della Real Casa) sono
estranei a ogni
iniziativa del genere,
giacché sono al di sopra
e al di
fuori di ogni
partito, ma non possiamo
che ben vedere
tutte le iniziative
che tendono alla
ricostruzione del paese, della
democrazia e della
libertà”.
Per le
visite del Principe, solo a
titolo indicativo e
non certo esaustivo, ricordiamo a
luglio del 1944
la visita a
Firenze, quando erano ancora
in corso dei combattimenti, poi ad
ottobre 1944 la
visita alle truppe
che si apprestavano
ad entrare in
linea, poi a novembre
la visita a Rimini liberata,
ed a Grosseto
colpita da un’alluvione, dopo essere
stato ad Avellino
per rassegna truppe. Nel
1945 a gennaio
è a Pisa, dove
erano truppe brasiliane, alle quali
si rivolge in
portoghese, con meraviglia del
loro comandante e
dei suoi accompagnatori ed a
Lucca ed Arezzo, per
recarsi il 25
febbraio ad Ascoli
Piceno dove era
la divisione “Nembo”, con
entusiasmo della popolazione, entusiasmo che
si rinnovò giorni
dopo a Taranto, dove
era andato a
ricevere la divisione
“Garibaldi”, che tornava dal
Montenegro. Ad aprile
del ’45 intensifica
la sua presenza
nelle zone appena
liberate, accolto dalle popolazioni
con lacrime ed
abbracci e in
località minori come
Santo Alberto, nel Comacchio, a
Cesena, dove pernottò su
una brandina, a Peratello
vicino Imola, e poi
a Ravenna e
Ferrara, con un atterraggio
fortunoso ed il
28 aprile, come già
a Montelungo, nel dicembre
1943, effettua un volo
di guerra, con reazione
della controaerea tedesca
che ancora combatteva, ed infine
si reca a
Bologna dove erano
entrate le nostre
truppe, accolto molto bene
dalla popolazione. Cito queste
località perché anche
i comunisti che
già vi spadroneggiavano ebbero
nei confronti del
Principe un atteggiamento
di rispetto ed
anche ammirazione. Lo stesse
accoglienze positive in
altre località del Nord, compreso Veneto
e Friuli, dove si
era recato a maggio, con
eccezione di Milano
dove né il
prefetto, il sindaco ed
il CLN locale
si erano recati
a salutarlo.
Di fronte
a questi avvenimenti
riguardanti la guerra
di liberazione, come sempre
taciuti o quasi
dai giornali, eccettuata la
battagliera “Italia Nuova”, organo del
Partito Democratico Italiano,
di cui
ricorderemo uno dei
più importanti collaboratori, Alberto Consiglio ,”Babeuf”, ed anche
in parte il
“Risorgimento Liberale“,
espressione del P.L.I., vi
era invece a
Roma nel governo
e negli ambienti ciellenisti,
con i
loro numerosi giornali, dalla “azionista”
Italia Libera, a l’Avanti”!, all’
Unità, al settimanale “Cantachiaro”, il
consueto atteggiamento critico, pronto ad
afferrare ogni occasione
per mettere in
cattiva luce l’operato
del Luogotenente, come ad esempio
protestando nel caso di una sua
intervista del 31 ottobre 1944
al “New York
Times” in cui aveva
parlato di un
“referendum”, e non della
sola Costituente per risolvere
il problema istituzionale, soluzione per il momento
rigettata, mentre poi fu
successivamente accolta, ed opponendosi
alla pubblicazione di
un suo messaggio agli italiani
dopo la liberazione. Invece i
giornalisti angloamericani modificavano
in senso favorevole al
Principe le loro
opinioni, come il Matthews
che scrisse : “Il Principe
Umberto ha come meta
una monarchia liberale
e democratica come
in Inghilterra, Svezia, Norvegia e
Danimarca.” e lo
Schiff del “Daily
Erald” che lo
giudicò “pieno di
tatto ed imparziale”. Giudizi questi
che si uniscono
a quello ben
noto di Churchill
che lo incontrò
a lungo nel
corso della sua
visita in Italia e
che in ogni
caso ripetiamo: “ La sua (del Principe Umberto)
potente ed attraente
personalità, la sua padronanza
dell’intera situazione militare
e politica erano
davvero motivo di
conforto ed io ne
trassi un senso
di fiducia più
vivo di quello
che avevo provato
durante i colloqui
con gli uomini
politici. Certo speravo che
avrebbe contribuito a
consolidare la Monarchia
in una Italia
libera, forte e unita.”
ed a quello, molto
meno conosciuto
dell’incaricato d’affari USA, David
Key che dice: “(Il
Principe Umberto) mi ha parlato
con acutezza dei
problemi italiani. Si ha che
fare con un uomo che
ha un elevato
senso della dignità
verso il quale
non esistono le
riserve che aveva
avanzato Roosevelt. Una monarchia
con Lui a
capo potrebbe costituire
un elemento stabilizzatore e d’ordine.”
Parlando di
uomini di stato
stranieri e di
diplomatici giova ricordare
che dopo il
riconoscimento da parte
dell’URSS del Governo
Badoglio, nel marzo 1944,
anche Gran Bretagna
ed USA, e altri
numerosi paesi avevano
compiuto lo stesso
passo per cui
via via i
loro ambasciatori venivano accreditati presso
il governo italiano, presentando le credenziali al
Luogotenente, in cerimonie formalmente
impeccabili che non
facevano pensare che l’Italia
era nazione sconfitta. Ad
esempio l’8 gennaio
1945, in occasione della
presentazione
dell‘Ambasciatore USA, Kirk ,
lo stesso dopo
la cerimonia si
intrattenne con il
Principe per una
mezzora, presentandogli poi tutti
i suoi collaboratori, o come
il successivo 4 giugno
in un ricevimento
al Grand Hotel, organizzato da
Myron Taylor, rappresentante USA presso il
Vaticano, l’ambasciatore Kirk, dopo un
brindisi al nuovo
presidente americano Truman, succeduto a
Roosevelt, mancato il 12 aprile,
ne propose un altro
per il Principe
Umberto, che aveva inviato a
Truman un messaggio
di saluto. Sempre Kirk, in
occasione di una
visita a Roma del
generalissimo americano, Eisenhover, il
13 settembre, organizzò una
colazione, alla quale invitò il
Luogotenente, consentendogli
un cordiale scambio
di idee con
quello che sarebbe
divenuto nel 1952, Presidente degli
Stati Uniti, incontro di
cui fu data
notizia sulla stampa. E
così pure in
altri ricevimenti e cerimonie dove
al posto d’onore è
quasi sempre Falcone
Lucifero, proprio in qualità
di Ministro della
Real Casa, e quindi rappresentante del Luogotenente, come, molto significativa, la presenza, il 19 dicembre 1945, alla Sinagoga di
Roma, per l’insediamento del nuovo Rabbino
Capo, il Prof. Grande Ufficiale
David Prato.
martedì 14 febbraio 2017
Il Canto degli Italiani
Questo è il testo della conferenza tenuta il 28 gennaio all'Accademia Musicale Romana, dal nostro Gian Luigi Chiaserotti.
Lo ringraziamo di cuore!
Signore e Signori,
è per me, storiografo ed
amante della Storia, indegnamente un onore essere qui, questa sera, per
celebrare con Voi il 20° anniversario dell’Accademia Musicale Romana, e di ciò
ringrazio l’artefice di questi momenti di cultura e di arte, il Professor Maestro
Giuseppe Martone.
Ma per me l’onore più grande
è essere qui, al “Colle de La Salle”, la scuola che frequenta mio figlio.
Scuola di un livello assai
raro ai giorni d’oggi.
Con il Professor Martone
abbiamo pensato che per codesto anniversario sia giusto ricordare, dal punto di
vista storico, il nostro Inno Nazionale, scritto da Goffredo Mameli, anche e
soprattutto nei 220 anni della nascita del Tricolore in quel di Reggio
dell’Emilia il 7 gennaio 1797.
Ma chi era costui?
Goffredo Mameli dei
Mannelli, meglio noto semplicemente come Goffredo Mameli (1827-1849), è stato
un poeta, patriota e scrittore italiano nato nel Regno di Sardegna.
Annoverato tra le figure più
famose del Risorgimento italiano, morì, a soli 21 anni, a seguito di una ferita
infetta che si procurò durante la difesa della Repubblica Romana.
Goffredo Mameli nacque di
nobile famiglia sarda (per la precisione di Lanusei, nella regione
dell'Ogliastra) nel 1827.
Il Suo trisavolo, Giommaria
Mameli, divenne notaio presso Tortolì; l'Imperatore Carlo VI d'Asburgo
(1685-1740) lo elevò poi al rango di nobile, lo creò suo console alla Corte
Sabauda di Torino, poi Ufficiale della Segreteria di Stato e di Guerra del
Regno di Sicilia a Palermo e poi suo segretario particolare onorario. Morì a
Cagliari dopo che, sposato con una nobile spagnola, divenne padre di sette
figli. Di questi Antonio Vincenzo fu Archivista del Viceré a Cagliari, Avvocato
Fiscale Patrimoniale Regio dell'Insinuazione del capo di Cagliari ed Intendente
economo delle miniere.
Egli ebbe a sua volta undici
figli, tra cui Raimondo Mameli, avo paterno di Goffredo.
Infatti il Nostro era figlio
di Giorgio Giovanni (1798-1871), anch'egli Cavaliere dell'Ordine dei Santi
Maurizio e Lazzaro, contrammiraglio della Regia Marina Sarda, per via della passione
del padre aveva percorso tutta la carriera nella marina stessa , distinguendosi
in spedizioni contro i pirati barbareschi e durante la Prima Guerra di
Indipendenza (1848-49), venendo poi messo a terra a causa del proprio carattere
indipendente e dell'impegno repubblicano del figlio, per essere poi eletto
parlamentare a Torino. La madre era Adelaide (Adele) Zoagli, della famiglia
aristocratica genovese degli Zoagli figlia a sua volta del Marchese Nicolò
Zoagli e di Angela dei Marchesi Lomellini.
Di questa famiglia, fecero
parte anche Cristoforo Mameli ed Eva Mameli Calvino.
Nato nell'allora Regno di
Sardegna, Goffredo Mameli, alunno nelle Scuole Pie di Genova, docente nel
collegio di Carcare in provincia di Savona, fu autore, all'età di quasi 20 anni,
delle parole del “Canto degl'Italiani” (1847), più noto in seguito come “Inno
di Mameli”.
Ma già ai tempi della scuola, Goffredo
dimostrò il suo talento letterario componendo versi d'ispirazione romantica,
intitolati “Il giovane crociato”, “L'ultimo canto” e “La vergine e l'amante” di
cui però non si conoscono recensioni come opere d'arte.
Mameli venne presto
conquistato dallo spirito patriottico e, durante i pochi anni della sua
giovinezza, riuscì a far parte attiva in alcune memorabili gesta che ancor oggi
vengono ricordate, come ad esempio l'esposizione del tricolore per festeggiare
la cacciata da Genova degli Austriaci del 1846.
Nel marzo 1848, il Nostro
organizzò una spedizione di trecento volontari per andare in aiuto a Nino Bixio
(1821-1873) nel corso dei moti di Milano e, in virtù di questa impresa coronata
da successo, venne arruolato nell'esercito di Giuseppe Garibaldi (1807-1882)
con il grado di capitano.
In questo periodo il Poeta
compose un secondo canto patriottico, intitolato l'”Inno militare”, poscia
musicato da Giuseppe Verdi (1813-1901).
Dopo l'armistizio, Mameli,
tornato a Genova, riuscì a dedicarsi alla composizione musicale diventando
contemporaneamente direttore del giornale “Diario del Popolo”, senza mai dimenticare di pubblicizzare le sue
idee irredentiste nei confronti dell'Austria.
La sua opera di patriota si
svolse anche a Roma, nell'aiuto a
Pellegrino Rossi (1787-1848), anch’esso ex alunno degli Scolopi e precursore
dell’Europa Unita, per la proclamazione del 9 febbraio 1849 della Repubblica
romana di Giuseppe Mazzini (1805-1872), Carlo Armellini (1777-1863) ed Aurelio
Saffi (1819-1890); ed anche in una
campagna, svolta a Firenze, per la fondazione di uno stato unitario tra Lazio e
Toscana.
Nel continuo vagabondaggio
il Nostro si trovò nuovamente a Genova, sempre al fianco di Nino Bixio nel
movimento irredentista fronteggiato dal generale Alberto Ferrero de La Marmora
(1789-1863), quindi, nuovamente a Roma, nella lotta contro le truppe francesi
venute in soccorso del Papa Pio IX [Giovanni Maria Mastai-Ferretti (nato nel
1792), 1846-1878], anch’esso ex alunno degli Scolopi, (che nel frattempo aveva
lasciato la città).
L'ultimo atto della breve
Repubblica romana del 1849 fu che Goffredo Mameli, tornato nuovamente capitano
nell'esercito di Garibaldi, combatté al suo fianco nella difesa della Villa del
Vascello sul colle del Gianicolo. Fu ferito alla gamba sinistra durante
l'ultimo assalto del 3 giugno alla Villa Corsini, occupata dai francesi.
Di questo episodio sono note
due versioni, una secondo la quale il Nostro sia stato ferito per sbaglio dalla
baionetta di un commilitone, l'altra, più diffusa e accreditata, sostiene
invece che sia stato raggiunto da una fucilata francese.
In ogni caso, fu trasportato
dai compagni all'ospizio della Trinità dei Pellegrini dove Goffredo venne
visitato e curato dal medico Pietro Maestri e dove tuttora una lapide ricorda
il fatto storico.
Le condizioni apparvero
immediatamente molto gravi, come si capisce dalle parole del Maestri ad
Agostino Bertani, che visitò Mameli alcuni giorni dopo.
Il padre, il contrammiraglio
Giorgio Giovanni, accorse da Genova al capezzale del figlio ma giunse troppo
tardi.
Nino Bixio in un suo diario
scrive:
«[…] Alle sette e mezzo
antimeridiane del 6 luglio 1849, spirava in Roma all'Ospedale della Trinità dei
Pellegrini la grande anima di Goffredo Mameli […] ».
Ma prima parlare dell’Inno
di Mameli, vorrei necessariamente accennare a Giuseppe Verdi in quanto ispiratore di musiche patriottiche
nonché al Romanticismo, di cui è figlio il Nostro.
Infatti Verdi partecipò anche attivamente alla vita
pubblica del suo tempo. Fu un patriota convinto, anche se nell’ultima parte
della sua vita traspare, dall’epistolario e dalle testimonianze dei suoi
contemporanei, una disillusione, un disincanto, nei confronti della nuova
Italia Unita, che forse non si era rivelata all’altezza delle proprie
aspettative.
In occasione delle
celebrazioni del CL Anniversario della proclamazione del Regno d’Italia,
nell’articolo “I motivi che portarono all’Unità d’Italia”, tra l’altro,
scrissi:
«[…] Ma la “Restaurazione”
fu l’inizio di una nuova stagione per la nostra Penisola, che, culminerà, come
più volte abbiamo detto, nell’Unità d’Italia.
Agli ideali illuministici,
razionali, che portarono alla Rivoluzione Francese, si comincia a contrapporre
quel nuovo movimento culturale che è il Romanticismo.
Fra tutti gli avversari della Restaurazione, gli ex-ufficiali
napoleonici, formati alla scuola ardimentosa dell’esercito imperiale ed
impazienti dell’inerzia cui son ridotti, costituiranno, non di rado l’elemento
più combattivo e pronto a passare all’azione rivoluzionaria contro i governi
restaurati. Ed accanto a loro un grosso
contingente di oppositori è dato dalla borghesia dei commerci e delle
industrie, danneggiata, nei propri interessi, ed esasperata dal risorto
predominio dell’aristocrazia, oppure da
nobili di idee progressiste, ma soprattutto dagli intellettuali, influenzati
dall’ormai irresistibile diffusione del Romanticismo dalla Germania verso il
resto dell’Europa.
Da principio puo’ apparire
che il Romanticismo, predicando il ritorno alla tradizione od esaltando il
sentimento, in netta antitesi al razionalismo illuministico, sia alleato alla
Restaurazione. Ma si vede che la rievocazione della storia, l’esaltazione delle
tradizioni nazionali, il richiamo alla coscienza popolare significano solo
l’alimento del patriottismo. Fare appello, come i romantici, al sentimento
individuale, alla libera espressione del cuore e della fantasia, in antitesi
alle regole del classicismo, significa alimentare la battaglia per la libertà
contro lo spirito autoritario della Restaurazione.
Romantico diviene sinonimo
ovunque di liberale e patriota.
Non dimentichiamoci che il
Romanticismo nasce in Germania da quel movimento (pre-romantico) denominato
“Sturm und Drang”, “impeto ed assalto”.
La cultura del Romanticismo,
infatti, non vive isolata in una sua “turris eburnea”, (la torre d’avorio), ma
partecipa caldamente alla battaglia politica che attorno a lei si svolge.
In ogni paese, le università
con i loro studenti e docenti costituiscono altrettanti focolai di agitazione
liberale e di cospirazioni. Il poeta, il dotto, il musicista [Vincenzo Bellini
(1801-1835), Giuseppe Verdi (1813-1901)] si sentono investiti di una specie di
missione morale e, come tali, non ascoltati dai loro contemporanei. […]».
Nel corso della vita di
Verdi, lunga quasi un secolo, l’Italia si trasforma appunto da paese soggiogato
al dominio straniero in uno stato unificato indipendente, desideroso di far
parte delle grandi Potenze Europee.
Il Risorgimento, le lotte
per l’unificazione d’Italia, non potevano lasciare indifferente l'animo del
compositore. “Nabucco” (con il famoso coro “Va’ pensiero, sull’ali dorate”), “I
Lombardi alla prima crociata” (famoso è “O Signore dal tetto natio”) e “Don Carlo” esprimono il sincero amore
patriottico di Verdi ed il suo dolore
per un popolo oppresso.
A Milano frequentò i salotti
intellettuali della città, primo tra tutti quello dell'amica Chiarina
Maffei, dove fervevano sentimenti ed
iniziative anti-austriache.
I moti del 1848 lo portarono
sicuramente ed apertamente a manifestare i di lui ideali patriottici.
Il nome del Maestro rimarrà
per sempre legato agli ideali del Risorgimento, trasformandosi in un acrostico
rivoluzionario, “Viva Verdi!”, da leggersi "Viva Vittorio Emanuele re
d’Italia!", scritto per la prima volta sulle mura di Roma all’epoca di “Un
ballo in maschera”. Il graffito alludeva ad un’aspirazione che con gli anni
stava diventando sempre più popolare e condivisa.
Lo stesso Verdi finisce per
credere in questo progetto quando soprattutto comprende che l’unità del paese
si potè concretizzare non tanto attraverso l’insurrezione popolare e l’inutile
e fuori luogo utopia repubblicana di Giuseppe Mazzini, ma esclusivamente con un
paziente lavoro diplomatico.
Il Secolo XIX, nell’aspetto
musicale italiano, è stato quindi dominato, come abbiamo visto, dall’opera
verdiana e dal repertorio lirico nazionale.
Tutte le canzoni, gli inni,
le marce composte nella stagione risorgimentale riflettono lo stile allora in
voga, che avrebbe continuato a difendere la propria identità stilistica per
ancora mezzo secolo.
“Fratelli d’Italia” non fa
assolutamente eccezione, perché tecnicamente
è sostanzialmente assimilabile alla “cabaletta” (nel melodramma il
momento dell’azione, della presa di coscienza, dell’incitamento) caratterizzata
da una facile orecchiabilità, da un testo semplice e diretto, da una costante
ripetizione della formula ritmica.
Il nostro inno, quindi, non
è ne una marcia né un brano da concerto, ma è un pezzo d’opera.
E poiché l’opera costituiva
uno dei rari momenti di compartecipazione di una società divisa in classi, il
suo linguaggio doveva raggiungere allo stesso modo gli eleganti palchetti, ma
anche le dure panche della platea dei teatri.
Modellati sullo stile del
melodramma, i canti patriottici hanno avuto grande merito di propagandare le
nuove idee, di raccontare fatti e personaggi, di chiamare all’impegno ed alla
lotta.
Sotto codesta luce, i luoghi
comuni di cui essi erano infarciti, la semplicità di testi e partiture,
talvolta la mancanza di un’ispirazione
veramente sincera devono essere letti in chiave di indici di ascolto.
Quel genere di composizioni
aveva la capacità di passare velocemente di bocca in bocca, di uscire dai
teatri e dilagare nelle piazze, di essere appresi senza sforzo e magari di
sparire in poche settimane, superati da nuovi avvenimenti e nuove canzoni.
Goffredo Mameli compose
“Fratelli d’Italia” tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno 1847, quindi
molto probabilmente nei primi giorni di settembre.
L’occasione fu data da una
delle tante manifestazioni patriottiche organizzate in quei mesi a Genova in
favore delle auspicate riforme civili.
La prima stesura autografa
presso l’Istituto Mazziniano non è datata, mentre l’altro manoscritto di
Mameli, conservato nel Museo Nazionale del Risorgimento di Torino, riporta
“Genova 10 9bre” [novembre].
Si tratta però di una
redazione più tarda – forse destinata alla pubblicazione – in cui un’altra mano
aggiunse la strofa dell’aquila austriaca, all’epoca proibita dalla censura
piemontese.
Sulla composizione
dell’inno, da ex alunno dei Padri Scolopi, non posso non ricordare un grande Educatore ligure, il padre Atanasio
Canata (1811-1867), nato nella bella e ridente città di Lerici.
Di lui fu scritto che aveva
l’animo ricco di tre grandi ideali ed amori: “Dio – Patria – i Giovani”.
Egli ebbe come alunno
sicuramente Goffredo Mameli i cui versi del nostro inno “Fratelli d’Italia”
sorsero tra i banchi del collegio scolopico di Genova, e quindi nella casa
torinese dell’amico, del filantropo, del giornalista, dell’organizzatore della
cultura liberale in Torino, Lorenzo Valerio (1810-1865), futuro senatore del
Regno d’Italia, e musicato dal maestro Michele Novaro (1822-1885).
Ma sicuramente, senza alcuna
ombra di dubbio, gli attuali versi dell’inno furono rivisti ed ampliati dal
padre Canata medesimo.
“Il Canto degli Italiani” è
uno fra gli inni del secolo XIX più
originali e più interessanti, l’unico a mettere in scena due protagonisti ed ad
avere un andamento, oserei dire, quasi cinematografico, come limpidamente
scrisse nel 1961 su “Il Tempo” il grande critico Gian Luigi Rondi (1921-2016).
C’è dialogo, c’è tensione,
ci sono i fermenti e le speranze della stagione di vigilia, che porterà alla
proclamazione del Regno d’Italia nella suggestiva cornice dell’Aula del
Parlamento Subalpino di Palazzo Carignano in Torino il 17 marzo 1861.
C’è l’atmosfera carica di
sospensione che precede la battaglia.
C’è, soprattutto, la
“risoluzione” di una massa indistinta, «calpesta e derisa», che diviene
finalmente popolo.
Se la partitura autografa
del Novaro tornasse ad essere la sola fonte autentica, il nostro inno
apparirebbe diverso, certamente più nobile, e le sedici battute del primo tema
– normalmente eseguite nelle cerimonie – riacquisterebbero maestosità inedita.
Non abbiamo necessità di un
nuovo inno, piuttosto di un inno nuovo nel carattere e nell’espressione:
basterebbe suonarlo come lo immaginò il suo Autore.
Gianluigi Chiaserotti
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