NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

martedì 14 febbraio 2017

Il Canto degli Italiani

Questo è il testo della conferenza tenuta il 28 gennaio all'Accademia Musicale Romana,  dal nostro Gian Luigi Chiaserotti.
Lo ringraziamo di cuore!


Signore e Signori,
è per me, storiografo ed amante della Storia, indegnamente un onore essere qui, questa sera, per celebrare con Voi il 20° anniversario dell’Accademia Musicale Romana, e di ciò ringrazio l’artefice di questi momenti di cultura e di arte, il Professor Maestro Giuseppe Martone.
Ma per me l’onore più grande è essere qui, al “Colle de La Salle”, la scuola che frequenta mio figlio.
Scuola di un livello assai raro ai giorni d’oggi.
Con il Professor Martone abbiamo pensato che per codesto anniversario sia giusto ricordare, dal punto di vista storico, il nostro Inno Nazionale, scritto da Goffredo Mameli, anche e soprattutto nei 220 anni della nascita del Tricolore in quel di Reggio dell’Emilia il 7 gennaio 1797.
Ma chi era costui?
Goffredo Mameli dei Mannelli, meglio noto semplicemente come Goffredo Mameli (1827-1849), è stato un poeta, patriota e scrittore italiano nato nel Regno di Sardegna.
Annoverato tra le figure più famose del Risorgimento italiano, morì, a soli 21 anni, a seguito di una ferita infetta che si procurò durante la difesa della Repubblica Romana.
Goffredo Mameli nacque di nobile famiglia sarda (per la precisione di Lanusei, nella regione dell'Ogliastra) nel 1827.
Il Suo trisavolo, Giommaria Mameli, divenne notaio presso Tortolì; l'Imperatore Carlo VI d'Asburgo (1685-1740) lo elevò poi al rango di nobile, lo creò suo console alla Corte Sabauda di Torino, poi Ufficiale della Segreteria di Stato e di Guerra del Regno di Sicilia a Palermo e poi suo segretario particolare onorario. Morì a Cagliari dopo che, sposato con una nobile spagnola, divenne padre di sette figli. Di questi Antonio Vincenzo fu Archivista del Viceré a Cagliari, Avvocato Fiscale Patrimoniale Regio dell'Insinuazione del capo di Cagliari ed Intendente economo delle miniere.
Egli ebbe a sua volta undici figli, tra cui Raimondo Mameli, avo paterno di Goffredo.  
Infatti il Nostro era figlio di Giorgio Giovanni (1798-1871), anch'egli Cavaliere dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, contrammiraglio della Regia Marina Sarda, per via della passione del padre aveva percorso tutta la carriera nella marina stessa , distinguendosi in spedizioni contro i pirati barbareschi e durante la Prima Guerra di Indipendenza (1848-49), venendo poi messo a terra a causa del proprio carattere indipendente e dell'impegno repubblicano del figlio, per essere poi eletto parlamentare a Torino. La madre era Adelaide (Adele) Zoagli, della famiglia aristocratica genovese degli Zoagli figlia a sua volta del Marchese Nicolò Zoagli e di Angela dei Marchesi Lomellini.
Di questa famiglia, fecero parte anche Cristoforo Mameli ed Eva Mameli Calvino.
Nato nell'allora Regno di Sardegna, Goffredo Mameli, alunno nelle Scuole Pie di Genova, docente nel collegio di Carcare in provincia di Savona, fu autore, all'età di quasi 20 anni, delle parole del “Canto degl'Italiani” (1847), più noto in seguito come “Inno di Mameli”.
 Ma già ai tempi della scuola, Goffredo dimostrò il suo talento letterario componendo versi d'ispirazione romantica, intitolati “Il giovane crociato”, “L'ultimo canto” e “La vergine e l'amante” di cui però non si conoscono recensioni come opere d'arte.
Mameli venne presto conquistato dallo spirito patriottico e, durante i pochi anni della sua giovinezza, riuscì a far parte attiva in alcune memorabili gesta che ancor oggi vengono ricordate, come ad esempio l'esposizione del tricolore per festeggiare la cacciata da Genova degli Austriaci del 1846.
Nel marzo 1848, il Nostro organizzò una spedizione di trecento volontari per andare in aiuto a Nino Bixio (1821-1873) nel corso dei moti di Milano e, in virtù di questa impresa coronata da successo, venne arruolato nell'esercito di Giuseppe Garibaldi (1807-1882) con il grado di capitano.
In questo periodo il Poeta compose un secondo canto patriottico, intitolato l'”Inno militare”, poscia musicato da Giuseppe Verdi (1813-1901).
Dopo l'armistizio, Mameli, tornato a Genova, riuscì a dedicarsi alla composizione musicale diventando contemporaneamente direttore del giornale “Diario del Popolo”,  senza mai dimenticare di pubblicizzare le sue idee irredentiste nei confronti dell'Austria.
La sua opera di patriota si svolse anche  a Roma, nell'aiuto a Pellegrino Rossi (1787-1848), anch’esso ex alunno degli Scolopi e precursore dell’Europa Unita, per la proclamazione del 9 febbraio 1849 della Repubblica romana di Giuseppe Mazzini (1805-1872), Carlo Armellini (1777-1863) ed Aurelio Saffi (1819-1890); ed   anche in una campagna, svolta a Firenze, per la fondazione di uno stato unitario tra Lazio e Toscana.
Nel continuo vagabondaggio il Nostro si trovò nuovamente a Genova, sempre al fianco di Nino Bixio nel movimento irredentista fronteggiato dal generale Alberto Ferrero de La Marmora (1789-1863), quindi, nuovamente a Roma, nella lotta contro le truppe francesi venute in soccorso del Papa Pio IX [Giovanni Maria Mastai-Ferretti (nato nel 1792), 1846-1878], anch’esso ex alunno degli Scolopi, (che nel frattempo aveva lasciato la città).
L'ultimo atto della breve Repubblica romana del 1849 fu che Goffredo Mameli, tornato nuovamente capitano nell'esercito di Garibaldi, combatté al suo fianco nella difesa della Villa del Vascello sul colle del Gianicolo. Fu ferito alla gamba sinistra durante l'ultimo assalto del 3 giugno alla Villa Corsini, occupata dai francesi.
Di questo episodio sono note due versioni, una secondo la quale il Nostro sia stato ferito per sbaglio dalla baionetta di un commilitone, l'altra, più diffusa e accreditata, sostiene invece che sia stato raggiunto da una fucilata francese.
In ogni caso, fu trasportato dai compagni all'ospizio della Trinità dei Pellegrini dove Goffredo venne visitato e curato dal medico Pietro Maestri e dove tuttora una lapide ricorda il fatto storico.
Le condizioni apparvero immediatamente molto gravi, come si capisce dalle parole del Maestri ad Agostino Bertani, che visitò Mameli alcuni giorni dopo.
Il padre, il contrammiraglio Giorgio Giovanni, accorse da Genova al capezzale del figlio ma giunse troppo tardi.
Nino Bixio in un suo diario scrive:
«[…] Alle sette e mezzo antimeridiane del 6 luglio 1849, spirava in Roma all'Ospedale della Trinità dei Pellegrini la grande anima di Goffredo Mameli […] ».
Ma prima parlare dell’Inno di Mameli, vorrei necessariamente accennare a Giuseppe Verdi  in quanto ispiratore di musiche patriottiche nonché al Romanticismo, di cui è figlio il Nostro.
Infatti  Verdi partecipò anche attivamente alla vita pubblica del suo tempo. Fu un patriota convinto, anche se nell’ultima parte della sua vita traspare, dall’epistolario e dalle testimonianze dei suoi contemporanei, una disillusione, un disincanto, nei confronti della nuova Italia Unita, che forse non si era rivelata all’altezza delle proprie aspettative.
In occasione delle celebrazioni del CL Anniversario della proclamazione del Regno d’Italia, nell’articolo “I motivi che portarono all’Unità d’Italia”, tra l’altro, scrissi:
«[…] Ma la “Restaurazione” fu l’inizio di una nuova stagione per la nostra Penisola, che, culminerà, come più volte abbiamo detto, nell’Unità d’Italia.
Agli ideali illuministici, razionali, che portarono alla Rivoluzione Francese, si comincia a contrapporre quel nuovo movimento culturale che è il Romanticismo.
Fra tutti gli avversari  della Restaurazione, gli ex-ufficiali napoleonici, formati alla scuola ardimentosa dell’esercito imperiale ed impazienti dell’inerzia cui son ridotti, costituiranno, non di rado l’elemento più combattivo e pronto a passare all’azione rivoluzionaria contro i governi restaurati. Ed accanto a loro  un grosso contingente di oppositori è dato dalla borghesia dei commerci e delle industrie, danneggiata, nei propri interessi, ed esasperata dal risorto predominio dell’aristocrazia, oppure  da nobili di idee progressiste, ma soprattutto dagli intellettuali, influenzati dall’ormai irresistibile diffusione del Romanticismo dalla Germania verso il resto dell’Europa.
Da principio puo’ apparire che il Romanticismo, predicando il ritorno alla tradizione od esaltando il sentimento, in netta antitesi al razionalismo illuministico, sia alleato alla Restaurazione. Ma si vede che la rievocazione della storia, l’esaltazione delle tradizioni nazionali, il richiamo alla coscienza popolare significano solo l’alimento del patriottismo. Fare appello, come i romantici, al sentimento individuale, alla libera espressione del cuore e della fantasia, in antitesi alle regole del classicismo, significa alimentare la battaglia per la libertà contro lo spirito autoritario della Restaurazione.
Romantico diviene sinonimo ovunque di liberale e patriota.
Non dimentichiamoci che il Romanticismo nasce in Germania da quel movimento (pre-romantico) denominato “Sturm und Drang”, “impeto ed assalto”.
La cultura del Romanticismo, infatti, non vive isolata in una sua “turris eburnea”, (la torre d’avorio), ma partecipa caldamente alla battaglia politica che attorno a lei si svolge.
In ogni paese, le università con i loro studenti e docenti costituiscono altrettanti focolai di agitazione liberale e di cospirazioni. Il poeta, il dotto, il musicista [Vincenzo Bellini (1801-1835), Giuseppe Verdi (1813-1901)] si sentono investiti di una specie di missione morale e, come tali, non ascoltati dai loro contemporanei. […]».   
Nel corso della vita di Verdi, lunga quasi un secolo, l’Italia si trasforma appunto da paese soggiogato al dominio straniero in uno stato unificato indipendente, desideroso di far parte delle grandi Potenze Europee.
Il Risorgimento, le lotte per l’unificazione d’Italia, non potevano lasciare indifferente l'animo del compositore. “Nabucco” (con il famoso coro “Va’ pensiero, sull’ali dorate”), “I Lombardi alla prima crociata” (famoso è “O Signore dal tetto natio”) e  “Don Carlo” esprimono il sincero amore patriottico di Verdi  ed il suo dolore per un popolo oppresso.
A Milano frequentò i salotti intellettuali della città, primo tra tutti quello dell'amica Chiarina Maffei,  dove fervevano sentimenti ed iniziative anti-austriache.
I moti del 1848 lo portarono sicuramente ed apertamente a manifestare i di lui ideali patriottici.
Il nome del Maestro rimarrà per sempre legato agli ideali del Risorgimento, trasformandosi in un acrostico rivoluzionario, “Viva Verdi!”, da leggersi "Viva Vittorio Emanuele re d’Italia!", scritto per la prima volta sulle mura di Roma all’epoca di “Un ballo in maschera”. Il graffito alludeva ad un’aspirazione che con gli anni stava diventando sempre più popolare e condivisa.
Lo stesso Verdi finisce per credere in questo progetto quando soprattutto comprende che l’unità del paese si potè concretizzare non tanto attraverso l’insurrezione popolare e l’inutile e fuori luogo utopia repubblicana di Giuseppe Mazzini, ma esclusivamente con un paziente lavoro diplomatico.
Il Secolo XIX, nell’aspetto musicale italiano, è stato quindi dominato, come abbiamo visto, dall’opera verdiana e dal repertorio lirico nazionale.
Tutte le canzoni, gli inni, le marce composte nella stagione risorgimentale riflettono lo stile allora in voga, che avrebbe continuato a difendere la propria identità stilistica per ancora mezzo secolo.
“Fratelli d’Italia” non fa assolutamente eccezione, perché tecnicamente  è sostanzialmente assimilabile alla “cabaletta” (nel melodramma il momento dell’azione, della presa di coscienza, dell’incitamento) caratterizzata da una facile orecchiabilità, da un testo semplice e diretto, da una costante ripetizione della formula ritmica.
Il nostro inno, quindi, non è ne una marcia né un brano da concerto, ma è un pezzo d’opera.
E poiché l’opera costituiva uno dei rari momenti di compartecipazione di una società divisa in classi, il suo linguaggio doveva raggiungere allo stesso modo gli eleganti palchetti, ma anche le dure panche della platea dei teatri.
Modellati sullo stile del melodramma, i canti patriottici hanno avuto grande merito di propagandare le nuove idee, di raccontare fatti e personaggi, di chiamare all’impegno ed alla lotta.
Sotto codesta luce, i luoghi comuni di cui essi erano infarciti, la semplicità di testi e partiture, talvolta la mancanza  di un’ispirazione veramente sincera devono essere letti in chiave di indici di ascolto.
Quel genere di composizioni aveva la capacità di passare velocemente di bocca in bocca, di uscire dai teatri e dilagare nelle piazze, di essere appresi senza sforzo e magari di sparire in poche settimane, superati da nuovi avvenimenti e nuove canzoni.
Goffredo Mameli compose “Fratelli d’Italia” tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno 1847, quindi molto probabilmente nei primi giorni di settembre.
L’occasione fu data da una delle tante manifestazioni patriottiche organizzate in quei mesi a Genova in favore delle auspicate riforme civili.
La prima stesura autografa presso l’Istituto Mazziniano non è datata, mentre l’altro manoscritto di Mameli, conservato nel Museo Nazionale del Risorgimento di Torino, riporta “Genova 10 9bre” [novembre].
Si tratta però di una redazione più tarda – forse destinata alla pubblicazione – in cui un’altra mano aggiunse la strofa dell’aquila austriaca, all’epoca proibita dalla censura piemontese.
Sulla composizione dell’inno, da ex alunno dei Padri Scolopi, non posso non ricordare un  grande Educatore ligure, il padre Atanasio Canata (1811-1867), nato nella bella e ridente città di Lerici.
Di lui fu scritto che aveva l’animo ricco di tre grandi ideali ed amori: “Dio – Patria – i Giovani”.
Egli ebbe come alunno sicuramente Goffredo Mameli i cui versi del nostro inno “Fratelli d’Italia” sorsero tra i banchi del collegio scolopico di Genova, e quindi nella casa torinese dell’amico, del filantropo, del giornalista, dell’organizzatore della cultura liberale in Torino, Lorenzo Valerio (1810-1865), futuro senatore del Regno d’Italia, e musicato dal maestro Michele Novaro (1822-1885).
Ma sicuramente, senza alcuna ombra di dubbio, gli attuali versi dell’inno furono rivisti ed ampliati dal padre Canata medesimo.
“Il Canto degli Italiani” è uno fra gli  inni del secolo XIX più originali e più interessanti, l’unico a mettere in scena due protagonisti ed ad avere un andamento, oserei dire, quasi cinematografico, come limpidamente scrisse nel 1961 su “Il Tempo” il grande critico Gian Luigi Rondi (1921-2016).
C’è dialogo, c’è tensione, ci sono i fermenti e le speranze della stagione di vigilia, che porterà alla proclamazione del Regno d’Italia nella suggestiva cornice dell’Aula del Parlamento Subalpino di Palazzo Carignano in Torino il 17 marzo 1861.
C’è l’atmosfera carica di sospensione che precede la battaglia.
C’è, soprattutto, la “risoluzione” di una massa indistinta, «calpesta e derisa», che diviene finalmente popolo.
Se la partitura autografa del Novaro tornasse ad essere la sola fonte autentica, il nostro inno apparirebbe diverso, certamente più nobile, e le sedici battute del primo tema – normalmente eseguite nelle cerimonie – riacquisterebbero maestosità inedita.
Non abbiamo necessità di un nuovo inno, piuttosto di un inno nuovo nel carattere e nell’espressione: basterebbe suonarlo come lo immaginò il suo Autore.


Gianluigi Chiaserotti

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