Questo è il testo della conferenza tenuta il 28 gennaio all'Accademia Musicale Romana, dal nostro Gian Luigi Chiaserotti.
Lo ringraziamo di cuore!
Signore e Signori,
è per me, storiografo ed
amante della Storia, indegnamente un onore essere qui, questa sera, per
celebrare con Voi il 20° anniversario dell’Accademia Musicale Romana, e di ciò
ringrazio l’artefice di questi momenti di cultura e di arte, il Professor Maestro
Giuseppe Martone.
Ma per me l’onore più grande
è essere qui, al “Colle de La Salle”, la scuola che frequenta mio figlio.
Scuola di un livello assai
raro ai giorni d’oggi.
Con il Professor Martone
abbiamo pensato che per codesto anniversario sia giusto ricordare, dal punto di
vista storico, il nostro Inno Nazionale, scritto da Goffredo Mameli, anche e
soprattutto nei 220 anni della nascita del Tricolore in quel di Reggio
dell’Emilia il 7 gennaio 1797.
Ma chi era costui?
Goffredo Mameli dei
Mannelli, meglio noto semplicemente come Goffredo Mameli (1827-1849), è stato
un poeta, patriota e scrittore italiano nato nel Regno di Sardegna.
Annoverato tra le figure più
famose del Risorgimento italiano, morì, a soli 21 anni, a seguito di una ferita
infetta che si procurò durante la difesa della Repubblica Romana.
Goffredo Mameli nacque di
nobile famiglia sarda (per la precisione di Lanusei, nella regione
dell'Ogliastra) nel 1827.
Il Suo trisavolo, Giommaria
Mameli, divenne notaio presso Tortolì; l'Imperatore Carlo VI d'Asburgo
(1685-1740) lo elevò poi al rango di nobile, lo creò suo console alla Corte
Sabauda di Torino, poi Ufficiale della Segreteria di Stato e di Guerra del
Regno di Sicilia a Palermo e poi suo segretario particolare onorario. Morì a
Cagliari dopo che, sposato con una nobile spagnola, divenne padre di sette
figli. Di questi Antonio Vincenzo fu Archivista del Viceré a Cagliari, Avvocato
Fiscale Patrimoniale Regio dell'Insinuazione del capo di Cagliari ed Intendente
economo delle miniere.
Egli ebbe a sua volta undici
figli, tra cui Raimondo Mameli, avo paterno di Goffredo.
Infatti il Nostro era figlio
di Giorgio Giovanni (1798-1871), anch'egli Cavaliere dell'Ordine dei Santi
Maurizio e Lazzaro, contrammiraglio della Regia Marina Sarda, per via della passione
del padre aveva percorso tutta la carriera nella marina stessa , distinguendosi
in spedizioni contro i pirati barbareschi e durante la Prima Guerra di
Indipendenza (1848-49), venendo poi messo a terra a causa del proprio carattere
indipendente e dell'impegno repubblicano del figlio, per essere poi eletto
parlamentare a Torino. La madre era Adelaide (Adele) Zoagli, della famiglia
aristocratica genovese degli Zoagli figlia a sua volta del Marchese Nicolò
Zoagli e di Angela dei Marchesi Lomellini.
Di questa famiglia, fecero
parte anche Cristoforo Mameli ed Eva Mameli Calvino.
Nato nell'allora Regno di
Sardegna, Goffredo Mameli, alunno nelle Scuole Pie di Genova, docente nel
collegio di Carcare in provincia di Savona, fu autore, all'età di quasi 20 anni,
delle parole del “Canto degl'Italiani” (1847), più noto in seguito come “Inno
di Mameli”.
Ma già ai tempi della scuola, Goffredo
dimostrò il suo talento letterario componendo versi d'ispirazione romantica,
intitolati “Il giovane crociato”, “L'ultimo canto” e “La vergine e l'amante” di
cui però non si conoscono recensioni come opere d'arte.
Mameli venne presto
conquistato dallo spirito patriottico e, durante i pochi anni della sua
giovinezza, riuscì a far parte attiva in alcune memorabili gesta che ancor oggi
vengono ricordate, come ad esempio l'esposizione del tricolore per festeggiare
la cacciata da Genova degli Austriaci del 1846.
Nel marzo 1848, il Nostro
organizzò una spedizione di trecento volontari per andare in aiuto a Nino Bixio
(1821-1873) nel corso dei moti di Milano e, in virtù di questa impresa coronata
da successo, venne arruolato nell'esercito di Giuseppe Garibaldi (1807-1882)
con il grado di capitano.
In questo periodo il Poeta
compose un secondo canto patriottico, intitolato l'”Inno militare”, poscia
musicato da Giuseppe Verdi (1813-1901).
Dopo l'armistizio, Mameli,
tornato a Genova, riuscì a dedicarsi alla composizione musicale diventando
contemporaneamente direttore del giornale “Diario del Popolo”, senza mai dimenticare di pubblicizzare le sue
idee irredentiste nei confronti dell'Austria.
La sua opera di patriota si
svolse anche a Roma, nell'aiuto a
Pellegrino Rossi (1787-1848), anch’esso ex alunno degli Scolopi e precursore
dell’Europa Unita, per la proclamazione del 9 febbraio 1849 della Repubblica
romana di Giuseppe Mazzini (1805-1872), Carlo Armellini (1777-1863) ed Aurelio
Saffi (1819-1890); ed anche in una
campagna, svolta a Firenze, per la fondazione di uno stato unitario tra Lazio e
Toscana.
Nel continuo vagabondaggio
il Nostro si trovò nuovamente a Genova, sempre al fianco di Nino Bixio nel
movimento irredentista fronteggiato dal generale Alberto Ferrero de La Marmora
(1789-1863), quindi, nuovamente a Roma, nella lotta contro le truppe francesi
venute in soccorso del Papa Pio IX [Giovanni Maria Mastai-Ferretti (nato nel
1792), 1846-1878], anch’esso ex alunno degli Scolopi, (che nel frattempo aveva
lasciato la città).
L'ultimo atto della breve
Repubblica romana del 1849 fu che Goffredo Mameli, tornato nuovamente capitano
nell'esercito di Garibaldi, combatté al suo fianco nella difesa della Villa del
Vascello sul colle del Gianicolo. Fu ferito alla gamba sinistra durante
l'ultimo assalto del 3 giugno alla Villa Corsini, occupata dai francesi.
Di questo episodio sono note
due versioni, una secondo la quale il Nostro sia stato ferito per sbaglio dalla
baionetta di un commilitone, l'altra, più diffusa e accreditata, sostiene
invece che sia stato raggiunto da una fucilata francese.
In ogni caso, fu trasportato
dai compagni all'ospizio della Trinità dei Pellegrini dove Goffredo venne
visitato e curato dal medico Pietro Maestri e dove tuttora una lapide ricorda
il fatto storico.
Le condizioni apparvero
immediatamente molto gravi, come si capisce dalle parole del Maestri ad
Agostino Bertani, che visitò Mameli alcuni giorni dopo.
Il padre, il contrammiraglio
Giorgio Giovanni, accorse da Genova al capezzale del figlio ma giunse troppo
tardi.
Nino Bixio in un suo diario
scrive:
«[…] Alle sette e mezzo
antimeridiane del 6 luglio 1849, spirava in Roma all'Ospedale della Trinità dei
Pellegrini la grande anima di Goffredo Mameli […] ».
Ma prima parlare dell’Inno
di Mameli, vorrei necessariamente accennare a Giuseppe Verdi in quanto ispiratore di musiche patriottiche
nonché al Romanticismo, di cui è figlio il Nostro.
Infatti Verdi partecipò anche attivamente alla vita
pubblica del suo tempo. Fu un patriota convinto, anche se nell’ultima parte
della sua vita traspare, dall’epistolario e dalle testimonianze dei suoi
contemporanei, una disillusione, un disincanto, nei confronti della nuova
Italia Unita, che forse non si era rivelata all’altezza delle proprie
aspettative.
In occasione delle
celebrazioni del CL Anniversario della proclamazione del Regno d’Italia,
nell’articolo “I motivi che portarono all’Unità d’Italia”, tra l’altro,
scrissi:
«[…] Ma la “Restaurazione”
fu l’inizio di una nuova stagione per la nostra Penisola, che, culminerà, come
più volte abbiamo detto, nell’Unità d’Italia.
Agli ideali illuministici,
razionali, che portarono alla Rivoluzione Francese, si comincia a contrapporre
quel nuovo movimento culturale che è il Romanticismo.
Fra tutti gli avversari della Restaurazione, gli ex-ufficiali
napoleonici, formati alla scuola ardimentosa dell’esercito imperiale ed
impazienti dell’inerzia cui son ridotti, costituiranno, non di rado l’elemento
più combattivo e pronto a passare all’azione rivoluzionaria contro i governi
restaurati. Ed accanto a loro un grosso
contingente di oppositori è dato dalla borghesia dei commerci e delle
industrie, danneggiata, nei propri interessi, ed esasperata dal risorto
predominio dell’aristocrazia, oppure da
nobili di idee progressiste, ma soprattutto dagli intellettuali, influenzati
dall’ormai irresistibile diffusione del Romanticismo dalla Germania verso il
resto dell’Europa.
Da principio puo’ apparire
che il Romanticismo, predicando il ritorno alla tradizione od esaltando il
sentimento, in netta antitesi al razionalismo illuministico, sia alleato alla
Restaurazione. Ma si vede che la rievocazione della storia, l’esaltazione delle
tradizioni nazionali, il richiamo alla coscienza popolare significano solo
l’alimento del patriottismo. Fare appello, come i romantici, al sentimento
individuale, alla libera espressione del cuore e della fantasia, in antitesi
alle regole del classicismo, significa alimentare la battaglia per la libertà
contro lo spirito autoritario della Restaurazione.
Romantico diviene sinonimo
ovunque di liberale e patriota.
Non dimentichiamoci che il
Romanticismo nasce in Germania da quel movimento (pre-romantico) denominato
“Sturm und Drang”, “impeto ed assalto”.
La cultura del Romanticismo,
infatti, non vive isolata in una sua “turris eburnea”, (la torre d’avorio), ma
partecipa caldamente alla battaglia politica che attorno a lei si svolge.
In ogni paese, le università
con i loro studenti e docenti costituiscono altrettanti focolai di agitazione
liberale e di cospirazioni. Il poeta, il dotto, il musicista [Vincenzo Bellini
(1801-1835), Giuseppe Verdi (1813-1901)] si sentono investiti di una specie di
missione morale e, come tali, non ascoltati dai loro contemporanei. […]».
Nel corso della vita di
Verdi, lunga quasi un secolo, l’Italia si trasforma appunto da paese soggiogato
al dominio straniero in uno stato unificato indipendente, desideroso di far
parte delle grandi Potenze Europee.
Il Risorgimento, le lotte
per l’unificazione d’Italia, non potevano lasciare indifferente l'animo del
compositore. “Nabucco” (con il famoso coro “Va’ pensiero, sull’ali dorate”), “I
Lombardi alla prima crociata” (famoso è “O Signore dal tetto natio”) e “Don Carlo” esprimono il sincero amore
patriottico di Verdi ed il suo dolore
per un popolo oppresso.
A Milano frequentò i salotti
intellettuali della città, primo tra tutti quello dell'amica Chiarina
Maffei, dove fervevano sentimenti ed
iniziative anti-austriache.
I moti del 1848 lo portarono
sicuramente ed apertamente a manifestare i di lui ideali patriottici.
Il nome del Maestro rimarrà
per sempre legato agli ideali del Risorgimento, trasformandosi in un acrostico
rivoluzionario, “Viva Verdi!”, da leggersi "Viva Vittorio Emanuele re
d’Italia!", scritto per la prima volta sulle mura di Roma all’epoca di “Un
ballo in maschera”. Il graffito alludeva ad un’aspirazione che con gli anni
stava diventando sempre più popolare e condivisa.
Lo stesso Verdi finisce per
credere in questo progetto quando soprattutto comprende che l’unità del paese
si potè concretizzare non tanto attraverso l’insurrezione popolare e l’inutile
e fuori luogo utopia repubblicana di Giuseppe Mazzini, ma esclusivamente con un
paziente lavoro diplomatico.
Il Secolo XIX, nell’aspetto
musicale italiano, è stato quindi dominato, come abbiamo visto, dall’opera
verdiana e dal repertorio lirico nazionale.
Tutte le canzoni, gli inni,
le marce composte nella stagione risorgimentale riflettono lo stile allora in
voga, che avrebbe continuato a difendere la propria identità stilistica per
ancora mezzo secolo.
“Fratelli d’Italia” non fa
assolutamente eccezione, perché tecnicamente
è sostanzialmente assimilabile alla “cabaletta” (nel melodramma il
momento dell’azione, della presa di coscienza, dell’incitamento) caratterizzata
da una facile orecchiabilità, da un testo semplice e diretto, da una costante
ripetizione della formula ritmica.
Il nostro inno, quindi, non
è ne una marcia né un brano da concerto, ma è un pezzo d’opera.
E poiché l’opera costituiva
uno dei rari momenti di compartecipazione di una società divisa in classi, il
suo linguaggio doveva raggiungere allo stesso modo gli eleganti palchetti, ma
anche le dure panche della platea dei teatri.
Modellati sullo stile del
melodramma, i canti patriottici hanno avuto grande merito di propagandare le
nuove idee, di raccontare fatti e personaggi, di chiamare all’impegno ed alla
lotta.
Sotto codesta luce, i luoghi
comuni di cui essi erano infarciti, la semplicità di testi e partiture,
talvolta la mancanza di un’ispirazione
veramente sincera devono essere letti in chiave di indici di ascolto.
Quel genere di composizioni
aveva la capacità di passare velocemente di bocca in bocca, di uscire dai
teatri e dilagare nelle piazze, di essere appresi senza sforzo e magari di
sparire in poche settimane, superati da nuovi avvenimenti e nuove canzoni.
Goffredo Mameli compose
“Fratelli d’Italia” tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno 1847, quindi
molto probabilmente nei primi giorni di settembre.
L’occasione fu data da una
delle tante manifestazioni patriottiche organizzate in quei mesi a Genova in
favore delle auspicate riforme civili.
La prima stesura autografa
presso l’Istituto Mazziniano non è datata, mentre l’altro manoscritto di
Mameli, conservato nel Museo Nazionale del Risorgimento di Torino, riporta
“Genova 10 9bre” [novembre].
Si tratta però di una
redazione più tarda – forse destinata alla pubblicazione – in cui un’altra mano
aggiunse la strofa dell’aquila austriaca, all’epoca proibita dalla censura
piemontese.
Sulla composizione
dell’inno, da ex alunno dei Padri Scolopi, non posso non ricordare un grande Educatore ligure, il padre Atanasio
Canata (1811-1867), nato nella bella e ridente città di Lerici.
Di lui fu scritto che aveva
l’animo ricco di tre grandi ideali ed amori: “Dio – Patria – i Giovani”.
Egli ebbe come alunno
sicuramente Goffredo Mameli i cui versi del nostro inno “Fratelli d’Italia”
sorsero tra i banchi del collegio scolopico di Genova, e quindi nella casa
torinese dell’amico, del filantropo, del giornalista, dell’organizzatore della
cultura liberale in Torino, Lorenzo Valerio (1810-1865), futuro senatore del
Regno d’Italia, e musicato dal maestro Michele Novaro (1822-1885).
Ma sicuramente, senza alcuna
ombra di dubbio, gli attuali versi dell’inno furono rivisti ed ampliati dal
padre Canata medesimo.
“Il Canto degli Italiani” è
uno fra gli inni del secolo XIX più
originali e più interessanti, l’unico a mettere in scena due protagonisti ed ad
avere un andamento, oserei dire, quasi cinematografico, come limpidamente
scrisse nel 1961 su “Il Tempo” il grande critico Gian Luigi Rondi (1921-2016).
C’è dialogo, c’è tensione,
ci sono i fermenti e le speranze della stagione di vigilia, che porterà alla
proclamazione del Regno d’Italia nella suggestiva cornice dell’Aula del
Parlamento Subalpino di Palazzo Carignano in Torino il 17 marzo 1861.
C’è l’atmosfera carica di
sospensione che precede la battaglia.
C’è, soprattutto, la
“risoluzione” di una massa indistinta, «calpesta e derisa», che diviene
finalmente popolo.
Se la partitura autografa
del Novaro tornasse ad essere la sola fonte autentica, il nostro inno
apparirebbe diverso, certamente più nobile, e le sedici battute del primo tema
– normalmente eseguite nelle cerimonie – riacquisterebbero maestosità inedita.
Non abbiamo necessità di un
nuovo inno, piuttosto di un inno nuovo nel carattere e nell’espressione:
basterebbe suonarlo come lo immaginò il suo Autore.
Gianluigi Chiaserotti
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