di Ivanoe Bonomi
E resero possibile la marcia su Roma
Rivelazioni di Bonomi sul tentativo di Turati nel 1922
Intorno alla marcia dei fascisti su Roma compiuta Il 28 ottobre 1922 molto
si è scritto e molto si è documentato. Ma poco invece si sa circa Il contegno
del mondo parlamentare e circa la sua inopinata inerzia prima e dopo
l'avvenimento. Si tenga presente che nel 1922 la Camera dei Deputati
comprendeva, di fronte a una trentina di deputati fascisti, oltre un centinaio
di deputati popolari (gli attuali democristiani), altrettanti socialisti di
tendenza democratica e parecchie decine di democratici di tutte le tinte, dal
cosiddetti democratici sociali al democratici liberali. Dunque nella Camera dei
Deputati (e altrettanto deve dirsi per il Senato) una forte maggioranza avrebbe
potuto opporsi ai metodi violenti adottati dal fascisti e costituire
tempestivamente un argine contro il loro dilagare e contro i loro piani
insurrezionali. Perché non si è tentata una difesa sul terreno parlamentare?
Perché la Corona non ha trovato nel Parlamento lo strumento atto a reprimere un
movimento che apertamente confessava dì volersi impadronire con la forza dello
Stato?
A queste domande occorre dare qualche risposta.
E' risaputo che nel dopoguerra 1919-1922 l'instabilità del governo era
diventata un pericolo mortale per il regime parlamentare. In brevi anni
l'Italia aveva visto succedersi al ministero Orlando i ministeri Nitti,
Giolitti, Bonomi e Facta e aveva assistito a crisi lunghe ed estenuanti dove il
prestigio dello Stato veniva compromesso e abbassato nelle più meschine
diatribe e nelle più miserevoli gare. La radice del male era nel rifiuto a
collaborare di una grossa frazione della Camera: il gruppo socialista, che già
costituito da quasi un terzo dell'assemblea prima delle elezioni del 1921, era
pur sempre rimasto, per il suo numero e per la sua combattività oppositrice,
l'elemento determinante della situazione. La presenza di questo gruppo sempre
schierato per la sua intransigenza dottrinale all'opposizione, permetteva a
tutti i gruppi e i gruppetti della Camera di giuocare a cuor leggero al
rovesciamento del Gabinetto, con uno di quelli assalti alla diligenza dove chi
attaccava sapeva d'aver sempre alleate le formidabili forze dell'estrema
sinistra. Da ciò non solo nasceva il discredito del regime parlamentare con il
pullulare di invocazioni alla dittatura (considerata come un rimedio alla crisi
perpetua dello Stato), ma derivava anche una irrimediabile debolezza di tutti i
Governi che, nati provvisori e vissuti nella precarietà della situazione, non
potevano fare alcun atto di forza e neppure infondere energia e risolutezza
alle loro burocrazie sfiduciate e disorientate.
Nel luglio del 1922 questa situazione parve doversi chiarire. Una
discussione sulla politica interna del Gabinetto Facta aveva avuto per
argomento il pericolo fascista, la necessità conclamata di ristabilire il
rispetto della legge, la deplorazione delle violenze antiche e recenti di cui
il fascismo era apertamente dichiarato responsabile. I 253 voti contrari,
contro 89 favorevoli, con cui la Camera votava contro il Governo nella seduta
del 19 luglio 1922, significavano che coloro che si erano decisi a condannare
il Governo per la sua politica interna erano anche decisi a volere una politica
contraria, cioè una politica di difesa energica delle libertà fondamentali
dello Stato. E poiché in quei 253 voti di maggioranza avevano confluito
popolari (democristiani) e socialisti insieme ad alcune frazioni liberali e
democratiche, era logico che il nuovo Governo dovesse essere fondato su queste
forze e dovesse essere l'espressione genuina della nuova maggioranza.
Ma la realtà fu purtroppo diversa.
Il primo uomo politico a cui la Corona, sulla designazione dei capi gruppi
politici, confidò l'incarico di formare il nuovo Governo fu l'on. Orlando. Egli
naturalmente lavorò nel solco tracciato dal voto del 19 luglio. Ma avendo
opinato di tentare un ministero di conciliazione nel quale fossero
rappresentati a destra i fascisti e a sinistra i socialisti Orlando incontrò le
nette ripulse dell'una e dell'altra parte. Effetto di queste ripulse fu la sua
decisione di declinare l'incarico nel pomeriggio del 24 luglio.
Io ero in quel momento a casa ad attendere dai giornali del pomeriggio le
notizie della crisi, quando inaspettatamente venne a trovarmi I' amico Filippo
Turati. Le varie vicende della vita socialista italiana avevano allentati i
legami che un tempo ci avevano strettamente avvinti; ma rimaneva fra noi una
amicizia profonda maturata in lunghi anni di collaborazione cordiale ed
assidua. Egli aveva per me l'affetto d'un fratello maggiore e giudicava con
imparziale serenità la mia opera nel Governo e nel Parlamento. Della mia opera
sulla fine del 1921, in difesa delle organizzazioni proletarie contro la
violenza fascista, egli dava un giudizio favorevole. Aveva approvato
l'organizzazione difensiva affidata per la bassa valle padana da me, allora
Presidente del Consiglio, ad un prefetto di polso, il Mori (che fu poi inviato
in Sicilia a combattervi la mafia), e di quella difesa vigile e pronta (con una
specie di «Celere» avanti lettera) aveva riconosciuta l'efficacia. Così egli
sempre levato contro le malevoli voci, provenienti da qualche settore deteriore
della Camera, che accusavano me e Giolitti di aver armato i fascisti con le
armi dell'esercito: sciocche storielle che uscivano dalla malignità per finire
nel ridicolo.
Ma l'improvvisa visita dei Turati aveva un ben determinato fine. Egli mi
avvertì subito che ormai alla Camera si dava per certo che, dopo il ritiro
dell'on. OrIando la Corona si sarebbe rivolta a me per affidarmi l'incarico di
costituire il nuovo ministero e pertanto occorreva intendersi circa la
soluzione da darsi alla crisi. Per suo conto, e precorrendo le deliberazioni
del suo gruppo parlamentare egli riteneva doversi costituire un Gabinetto
poggiato sulle forze espresse nel voto del 19 luglio, dove, tranne i voti
fascisti dati per motivi di opportunità tattica, si erano raccolti in blocco
popolari, socialisti, e democratici.
Io risposi subito al Turati che condividevo interamente la sua valutazione
della situazione parlamentare, e che avrei ritenuto inutile anzi dannoso
costituire un Gabinetto non rispecchiante tutta la nuova maggioranza. Infatti
un Gabinetto che fosse sorto su basi malferme e con la continua sistematica
opposizione dei socialisti non avrebbe avuto la forza di resistere
all'impetuosa ondata fascista e si sarebbe, come i ministeri precedenti,
logorato in una debolezza congenita distruttrice dell'ultima residua autorità
dello Stato. Ma che avrebbero fatto i socialisti nella presente situazione?
Filippo Turati non lasciò finire la domanda senza rispondere immediatamente
e con estrema chiarezza. Egli mi disse che i più autorevoli socialisti
ritenevano ormai che un'opposizione perpetua diretta a combattere tutti i
ministeri avrebbe finito per fare il giuoco dei fascisti; che occorreva pertanto
uscire dalla sterile intransigenza che il rivoluzionarismo massimalista aveva
fatto prevalere, e che, con una chiara aperta decisione di appoggiare un
Governo dì difesa, si sarebbe potuto entrare nella maggioranza per sostenervi
l'opera del Gabinetto.
Naturalmente io chiesi se questo appoggio, che Turati mi assicurava potersi
concretare in un impegno scritto di quasi cento deputati socialisti, potesse
arrivare fino alla partecipazione di qualche autorevole socialista al
Gabinetto. Tale partecipazione, non solo avrebbe legato di più il gruppo al
Governo, ma avrebbe dato la sensazione precisa al Paese che i socialisti, già
sospettati d'essere elementi di disordine e di sovversione, accettavano le
responsabilità del potere disposti a far rispettare da tutti, anche da loro
stessi, le leggi dello Stato.
Qui Turati fu preciso e esplicito. Personalmente egli era del mio avviso
che il passo dovesse farsi e che la fobia del potere non dovesse durare. Un
grande partito con un fortissimo gruppo parlamentare non può a lungo, per
ideologie rivoluzionarie inconcludenti, escludersi dal Governo. Ma tale era la
resistenza delle vecchie formule, l'ossequio alle antiche tradizioni, che un
mutamento così radicale non avrebbe avuto fortuna. Bisognava pertanto
accontentarsi di un preciso, chiaro, irrevocabile impegno di sostenere il
Governo votando per lui nei voti politici del Parlamento.
Io mi arresi alle esortazioni del Turati. Avrei fatto un governo di
sinistra con l'appoggio dei socialisti ma senza la presenza dei socialisti.
Programma: la difesa contro l'ondata di illegalità e di violenza che abbatteva
le organizzazioni politiche ed economiche degli avversari del fascismo e
minacciava lo Stato di un colpo di mano rivoluzionario.
Intanto, durante la conversazione, il telefono squillava. Era il generale
Cittadini che mi convocava al Quirinale per invito del Re. Indubbiamente si
trattava dell'incarico ufficioso preannunziatomi dal Turati.
Andai dal Re con l'impressione vivissima del mio colloquio col «leader»
socialista. Sebbene fosse nelle consuetudini che, all'invito del Re,
l'incaricato si riservasse di dare una, risposta dopo il necessario sondaggio
parlamentare, io, bruciando le tappe, gli riferii subito la mia conversazione
col Turati dichiarandogli che, pur di fare un Governo con una salda
maggioranza, avrei accettato l'adesione socialista benché diminuita della loro
non partecipazione al Governo. Di ciò il Re si mostrò contentissimo. Era da
tempo che egli deplorava l'instabilità delle maggioranze parlamentari, il loro
rapido farsi e disfarsi la loro isterica mutabilità che contribuiva alla
debolezza del Governo e alla sua perpetua perplessità. La nuova soluzione, pur
non essendo ancora l'ingresso dei socialisti al potere, ne era il preludio.
Forse un preludio breve che avrebbe terminato col trionfo della logica. Ad ogni
modo il Re incoraggiava il mio tentativo e, uscendo dal consueto riserbo, mi
augurava calorosamente di riuscire.
Non posi indugi alla difficile opera. Rividi subito il Turati, che
aspettava, nel mio studiolo, il mio ritorno. Conferii con alcuni eminenti
popolari. Anche il loro gruppo (il gruppo democristiano come si direbbe ora)
era favorevole al tentativo pur non dissimulandosi le gravi difficoltà. L'on.
Meda, che ne era il «leader», mi dava pubblicamente il suo incoraggiamento. Né
insuperabili ostacoli opponevano i gruppi democratici sebbene le loro rivalità
personali rendessero difficili, le intese.
Sennonché nel giorno successivo tutto quell'edificio crollò dalle
fondamenta. Il gruppo socialista, sulla cui avvedutezza aveva contato il
Turati, non volle arrendersi alla dura realtà. I massimalisti, ipnotizzati dal
grande sogno di una vicina palingenesi, per la quale occorreva mantenersi
immuni da contatti impuri, avevano silurate le intese e rese impossibili le più
ragionevoli soluzioni. Quando, il mattino successivo, Turati, ormai scoraggiato
per l'esito della sua vana battaglia, mi condusse a casa gli interpreti autorizzati
del gruppo socialista, capii subito che la partita era perduta. L'on.
Modigliani, incaricato egli non massimalista, di spiegare e attenuare le
intransigenze dei suoi amici di sinistra cercò di medicare la ripulsa con
questo surrogato il Governo avrebbe contato, volta a volta sul benevolo
atteggiamento dei socialisti senza però che questi prendessero un preciso
impegno di appoggiarlo in tutta in sua opera nella continuità della sua azione.
Era una proposta inaccettabile. Nell'ora tragica che si attraversava,
mentre Mussolini minacciava alla Camera la guerra civile qualora si volesse
arrestare il suo movimento, fondare un Governo sulla eventuale benevola
accoglienza di un grosso gruppo parlamentare diventava una avventura da
disperati.
Invano io dimostrai che l'ora non consentiva mezze misure che il pericolo
era mortale e che per evitarlo occorreva superare le formule antiche del
l'intransigenza rivoluzionaria. Alle mie esortazioni e a quelle accorate di
Filippo Turati, che fu, per suo destino, un veggente inascoltato, si rispose
che i socialisti avevano diritto, per la Carta costituzionale, d'esser difesi
nelle loro persone e nelle loro cose, senza che per tale difesa essi dovessero
deflettere dalla intransigente custodia della loro verginità politica che non
ammetteva né connubi, né stabili accostamenti.
Nella serata del 26 luglio io riferii al Re le difficoltà incontrate e la
mia inclinazione a deporre l'incarico. II Re ne fu sinceramente rammaricato,
contava molto sul nuovo e sperato atteggiamento dei socialisti e aveva fiducia
nella loro resipiscenza. Perciò mi esortò a tenere il mandato per fare nuove
insistenze e nuovi tentativi. «Chiami», mi disse, «questa notte i suoi amici
socialisti e veda di persuaderli ».
L'attesa non ebbe successo. Le mie nuove insistenze non ebbero risultato.
La corrente massimalista teneva in soggezione il gruppo socialista e anche
nobili spiriti (che di li a poco dovevano far parte da sé) non sapevano ancora
ribellarsi alla sua tirannia.
Nel giorno di mercoledì 26 io andai dal Re per declinare definitivamente il
mandato.
Il Re interpellò alcuni parlamentari di primo piano, come Luigi Meda e
Giuseppe De Nava, poi nell'impossibilità di creare una situazione nuova,
richiamò Luigi Facta che rifece un Gabinetto destinato a brevissima vita.
Così, a poco più di tre mesi dalla marcia fascista su Roma, nasceva si
svolgeva e finiva l'estremo tentativo di opporre dal di dentro (dal Parlamento
e dallo Stato) un argine solido al dilagare della violenza fascista.
Mancato quell'argine per l'incomprensione di quelli stessi che dovevano per
primi esserne sommersi, l'ondata fascista non trovò alcuna barriera e quando il
28 Ottobre 1922 essa inviò le cosiddette legioni su Roma trovò la strada aperta
e tutti i poteri dello Stato o inefficienti o travolti.
Ivanoe Bonomi
da Europeo 7 novembre 1948, pag 5
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