Mussolini preannuncia a Napoli la marcia sii Roma ma i ministri se ne lavano
le mani dando le dimissioni.
Nello stesso giorno - siamo al 24
ottobre - ha luogo a Napoli, dove sono convenuti quarantamila aderenti da tutte
le parti d'Italia, il Congresso del Partito Fascista. Mussolini, acclamato,
espone ai congressisti la situazione del partito nelle trattative per la
formazione del nuovo ministero: «Abbiamo chiesto 5 portafogli, più il
Commissariato dell'Aviazione. Precisamente abbiamo chiesto il Ministero degli
Esteri, quello della Guerra, quello della Marina, quello del Lavoro, quello dei
Lavori Pubblici. E a completarvi il quadro aggiungerò che in questa soluzione legalitaria
era esclusa la mia diretta partecipazione al governo». Egli afferma che a
queste sue richieste non gli è stato risposto nulla: «peggio ancora, ci si è
risposto in un modo ridicolo». E pone il problema della forza, cioè la
conquista del potere, «con le nostre legioni fieramente disciplinate e
potentemente inquadrate », sicuro della vittoria.
Dopo aver detto che in Europa non
vi è un fenomeno più interessante, più mondiale, più potente del fascismo
italiano, movimento che è, a volta a volta, politico, sindacale, militare e
religioso e che assume in sé tutte le necessità, tutte le speranze, tutte le
passioni del nuovo animo italiano, Mussolini esclama: « Noi siamo al punto in
cui la freccia parte dall'arco o la corda troppo tesa si spezza. Nessun dubbio
che il regime unitario della vita italiana si appoggia saldamente alla
Monarchia di Savoia (Cinque minuti di applausi, tutti in piedi ovazione).
« Nessuno dubita anche che la
Monarchia italiana per le sue origini, per gli sviluppi della sua storia non
può opporsi a quelle che sono le tendenze delle nuove forze nazionali. Non si
oppose quando concesse lo Statuto, non si oppose nel 1915, quando il popolo italiano
chiese e impose la guerra. Non avrebbe ragione di opporsi oggi che il fascismo
non intende di attaccare il regime nelle sue manifestazioni immanenti, ma
piuttosto intende di liberarlo da tutte le soprastrutture che aduggiano la
funzione storica di questo istituto e nello stesso tempo comprimono tutte le
tendenze della nostra anima ».
Alla sera. in piazza Plebiscito
gremita di popolo, dato lo squillo di tromba dell'attenti, fra il religioso
silenzio della folla, Mussolini, sforzando la voce pronuncia ancora questo
breve discorso:
Principi. triari, camicie nere di
Napoli e di tutta Italia! Oggi. senza colpo ferire, abbiamo conquistato l'ardente,
vibrante anima di Napoli, l'anima ardente di tutto il Mezzogiorno d'Italia. La
dimostrazione è fine a sé stessa e non può tramutarsi in una battaglia; ma io
vi dico con tutta la solennità che il momento impone - si tratta oramai di
giorni e forse di ore - o ci danno il governo o lo prenderemo calando su Roma.
(Applausi fragorosi e generali. Si
grida- A Roma! A Roma! fra lo sventolio dei gagliardetti).
«E' necessario, per l'azione che
dovrà essere simultanea e che dovrà in ogni parte d'Italia prendere per la gola
la miserabile classe politica dominante, che voi riguadagniate sollecitamente
le vostre sedi. lo vi dico e vi assicuro e vi giuro che gli ordini, se sarà
necessario, verranno. (Applausi altissimi). « E ora, rompendo le righe, recatevi
sotto le finestre del Comando del Corpo d'Armata a fare una dimostrazione di
simpatia all'Esercito. Viva l'Esercito! Viva il fascismo! Viva l'Italia! ».
Mentre Mussolini parla apertamente
di marciare su Roma alla conquista dello Stato, l'on. De Nicola presidente
della Camera, che insieme a Benedetto Croce (in poltrona, prima fila) è
presente al Congresso, così gli telegrafa: « Desidero che giunga a lei e a
tutti i colleghi intervenuti a Napoli il mio personale, cordiale, affettuoso
saluto ». E' l'adesione ufficiale preventiva del Governo - ed è un paradosso -
all'assalto al potere.
La crisi è oramai aperta: i
ministri riconoscono che il Gabinetto non risponde più alla situazione di
fronte all'energico affermarsi delle forze fasciste nel paese ed il ministero è
diviso in due correnti e non può più orientarsi né prendere una deliberazione
pro o contro il fascismo. Ma la crisi è soprattutto nel paese: è il paese che
deve risolverla. Le trattative continuano, Orlando va a Cavour a conferire con
Giolitti, mentre la situazione precipita. I ministri per iniziativa dell'on.
Riccio mettono i portafogli a disposizione di Facta, dopo un esame in Consiglio
sulla situazione. E' il 26 ottobre. Praticamente l'Italia è senza governo e
Montecitorio vive nel più sconcertante disorientamento, quando l'on. De Vecchi,
portavoce di Mussolini afferma in una intervista: «Nessuno deve dimenticare che
noi - e noi soli siamo Vittorio Veneto. Tutto il resto, governi che si
succedono e forze antinazionali sono Adua e Caporetto. Oggi l'Italia è per noi
- e al dì là delle nostre anime irrompe imbaldanzita come un manipolo di arditi
sulle vie di Vittorio Veneto. Nessuno dei reticolati costruiti intorno a Roma,
scioccamente, o dei nuclei misti armati di lanciafiamme del governo fermerà
questa ondata di spiriti che hanno alla testa nove decimi delle medaglie al
valore d'Italia. Chi ha orecchie intenda ».
I fascisti vogliono via libera al
governo. Infatti arrivano alla capitale da ogni parte della penisola notizie
sulla mobilitazione delle camicie nere. Nella notte del 27 sul 28 si apprende
al Viminale che delle prefetture sono state occupate, che presidi militari
fraternizzano coi fascisti fornendoli di armi, che si sono requisiti dei treni
con la complicità del personale. A Napoli si chiude affrettatamente il
congresso fascista e Dino Grandi proclama: «I poteri sono passati al Comando generale,
per cui oggi non si discute ma si
obbedisce». Difficile è pertanto
valutare la situazione di questi giorni. data la drammaticità degli avvenimenti
e la rapidità con la quale si svolgono. Più arduo ancora afferrare bene il
fattore politico interno che ha determinato la deliberazione del Consiglio dei Ministri
i quali lasciano Facta arbitro della situazione, cioè di modificare la
composizione del Gabinetto o di rassegnare le dimissioni Crisi che differisce
da tutte le precedenti e per di più in una situazione somma-, niente tragica.
Soltanto alle ore 16.30 del 27 il
Consiglio dei ministri ha deliberato di presentare le dimissioni al Re e la
seduta si prolunga sino alle 19 per l'esame della situazione interna. Alle ore
20 il Re arriva in treno speciale e alla stazione si intrattiene con Facta per
alcuni minuti. All'uscita - narrano i cronisti - la folla applaude al Re che,
salito in auto prosegue per villa Savoia seguito dalle acclamazioni. Alle 21,30
Facta si reca al Quirinale e si intrattiene a lungo col Re. La pressione
minacciosa del fascismo obbligando il
Ministero Facta a dimettersi non permette al Sovrano di consultare la Camera la
cui autorità, del resto, era andata scomparendo nel Paese a causa degli
spettacoli di vergognosa decadenza, diventata arena di pugilati e di dispute
sconce e turbolente.
Si parla ancora con insistenza di
un Ministero Giolitti-Orlando con la partecipazione dei fascisti, poiché
Orlando è appena rientrato da Cavour. Ma il Giornale d'Italia, che è in stretti
rapporti con la destra liberale e coi fascisti scrive: «Quasi tutte le
combinazioni prospettate- dal Ministero Giolitti al Ministero Orlando e al
rimpasto Facta, si possono considerare inattuabili o inconsistenti o comunque
impossibili. La crisi non presenta che due soluzioni: o un ministero presieduto
dall'on. Salandra e formato con notevole rappresentanza di elementi fascisti, o
un ministero presieduto da Mussolini, composto tutto o in larghissima
preponderanza da fascisti».
Dall'atteggiamento del Giornale
d'Italia si deduce che la crisi è stata provocata dai liberali di destra per
impedire a Giolitti di riprendere il potere e sostituirlo con Salandra. Unanime
è il convincimento che i fascisti debbano partecipare al nuovo governo, esclusa
anche a Montecitorio la possibilità di comporre un ministero anti-fascista.
L'on. Cavazzoni, a nome dei popolari, dichiara che il suo partito non si
nasconde la delicatezza della situazione, ma la guarda con serenità. Occorre,
in ogni modo «un governo capace di ristabilire la pace nel Paese: ed i popolari
appoggeranno qualsiasi soluzione che eviti scosse violente».
E così l'on. Paolo Cappa, sempre a
nome dei popolari: «Una rivoluzione, un colpo di Stato, oltreché alla guerra
civile porterebbe la Nazione alla più terribile crisi economica, che
aggraverebbe la preoccupante situazione finanziaria di cui i cambi sono un
indice eloquente».
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