150°
di Luigi Einaudi
(il Presidente che votò Monarchia)
di
Aldo A. Mola
Taluno vorrebbe giustapporre i poteri del
presidente del Consiglio dei ministri a quelli che la Costituzione conferisce
al Capo dello Stato. Nel 150° della nascita di Luigi Einaudi (Carrù, 24 marzo
1874 - Roma, 30 ottobre 1961) ricordiamo il suo esempio di primo Presidente
effettivo della Repubblica italiana: monarchico, liberale ed europeista.
Il 12
maggio 2018 il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, rievocò Luigi Einaudi nel
70° del suo insediamento alla Presidenza della Repubblica italiana. Guidato dal
nipote Roberto, architetto, ne visitò la tomba nel cimitero di Carrù (Cuneo) e
la villa in Dogliani, dalla celebre biblioteca. Nella sala del consiglio
municipale ricordò che a lui, liberale, e al democristiano Alcide De Gasperi
toccò «il compito di definire la grammatica della democrazia italiana appena
nata».
Accolta
in spirito di servizio la proposta di elezione alla suprema carica dello Stato,
recatagli da Giulio Andreotti su incarico di De Gasperi (in alternativa al
divisivo Carlo Sforza e in contrapposizione a Vittorio Emanuele Orlando,
sostenuto dalle sinistre), pur privilegiando l'esercizio della “moral suasion”
anche con lettere private, Einaudi unì discrezione e fermezza nella
rivendicazione delle prerogative di Presidente, «a partire dall'esercizio del
potere previsto dall'art.87 della Costituzione, che regola la presentazione alle
Camere dei disegni di legge di iniziativa governativa». Rinviò al Parlamento
due leggi «perché comportavano aumenti di spesa senza copertura finanziaria, in
violazione dell'art. 81 della Costituzione». Erano somme modeste, ma contava il
principio.
Dopo
le elezioni del 1953, Einaudi rifiutò il successore di De Gasperi indicatogli
dalla Democrazia Cristiana, all'epoca partito di maggioranza, e nominò Giuseppe
Pella, già apprezzato ministro del Tesoro, che guidò un governo tripartito (DC,
repubblicani e socialdemocratici), con Mario Scelba all'Interno. A futura
memoria, il 12 gennaio 1954 Einaudi lesse ad Aldo Moro e a Stanislao Ceschi,
presidenti dei gruppi parlamentari democristiani, la “nota verbale” sulla
corretta interpretazione dell'art. 92 della Carta («Il Presidente della
Repubblica nomina il Presidente del Consiglio»), motivata dal «dovere del
Presidente della Repubblica di evitare si pongano precedenti grazie ai quali
accada o sembri accadere che egli non trasmetta al suo successore, immuni da ogni
incrinatura, le facoltà che la Costituzione gli attribuisce». È un dovere anche
oggi incombente.
Strenuo
avversario dell'“assemblearismo” («il governo di assemblea vuol dire tirannia
del gruppo di maggioranza») e del “mandato imperativo” (escluso dall'art. 67
della Costituzione), da senatore del Regno osteggiò la legislazione
liberticida: come nel 1928, quando fu conferita al Gran consiglio del fascismo
la compilazione della lista dei deputati alla Camera, e nel 1938, quando
respinse le leggi razziali. Fu «un patriota – disse Mattarella – consapevole di
contribuire, con la sua testimonianza, lui, di orientamento monarchico, al
consolidamento della Repubblica democratica».
Un passo dell'intervento presidenziale
rimarrà memorabile perché, attraverso le parole di Einaudi Sergio Mattarella ha
fatto intendere la propria missione. Riferendosi all'azione di Vittorio
Emanuele III per portare l'Italia al di fuori della catastrofe nell'estate
1943, Einaudi osservò che la prerogativa sovrana «può e deve rimanere dormiente
per lunghi decenni e risvegliarsi nei rarissimi momenti nei quali la voce
unanime, anche se tacita, del popolo gli chiede di farsi innanzi a risolvere
una situazione che gli eletti del popolo da sé non sono capaci di affrontare o
per stabilire l'osservanza della legge fondamentale, violata nella sostanza
anche se ossequiata nell’apparenza». Nell'ora decisiva, il 25 luglio 1943, il
Re esercitò i poteri statutari revocando Benito Mussolini da capo del governo.
Fu l'inizio del nuovo corso storico.
Un profilo dello Statista
Luigi
Einaudi fu eletto presidente effettivo della Repubblica italiana al quarto
scrutinio l'11 maggio 1948, con 518 suffragi su 871 votanti. Liberale,
monarchico e piemontese, prevalse sul siciliano Vittorio Emanuele Orlando,
parimenti liberale, monarchico, “presidente della Vittoria”.
Einaudi
non aveva studiato da capo dello Stato. Aveva studiato. Perso a dodici anni il
padre, crebbe in casa dello zio, Francesco Fracchia, notaio a Dogliani. Allievo
dei Padri Scolopi a Savona, fu cattolico praticante, ma senza ostentazione e
rispettoso di altre confessioni. Per capirne le radici bisogna visitarne le
terre d’origine, le stesse di Giovanni Giolitti e di Marcello Soleri. Il suo
mondo era ispirato dai principi all’epoca comuni non solo alla classe dirigente
ma a tutte le persone perbene, anche umili genere natae. I loro
motti erano “aiuta te stesso” e “volere è potere”,
divulgati dal naturalista Michele
Lessona.
Laureato
in giurisprudenza a Torino appena ventenne, dopo un impiego alla Cassa di
Risparmio di Torino dal 1896 Einaudi collaborò al quotidiano “La Stampa”.
Professore all’Istituto Tecnico “Franco Andrea Bonelli” di Cuneo e al “Germano
Sommeiller” di Torino, divenne il maggiore economista liberale del Novecento.
Autore di opere prestigiose (Un principe mercante. Studi sull'espansione
coloniale italiana e saggi sulla finanza nello Stato sabaudo e sulle
imposte), scrisse nella “Critica sociale” di Filippo Turati e di Claudio Treves
e nella “Riforma sociale” diretta a Torino da Salvatore Cognetti de' Martiis.
Collaboratore dal 1903 del quotidiano“Corriere della Sera” diretto da Luigi
Albertini e dal 1922 dell'“Economist”, Einaudi polemizzò aspramente contro i
“trivellatori dello Stato” e rimproverò a Giolitti di utilizzare il potere per
mediare tra le parti sociali e garantire una costosa “stabilità di governo” a
vantaggio di troppi “clienti” e di opportunisti. Docente di scienza delle
finanze a Pisa nel 1902, lo stesso anno fu chiamato dall'Università di Torino,
ove poi ebbe cattedra ad vitam.
Credeva
nella “bellezza della lotta”, cui intitolò un saggio nel 1923. Interventista
nel 1914-1915, il 6 ottobre 1919 fu nominato senatore da Vittorio Emanuele III
su proposta del presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti. Rievocò le
sue esperienze alla Camera Alta in un saggio del 1956 pubblicato nella “Nuova
Antologia”. Nel 1922 appoggiò il governo di coalizione nazionale presieduto da
Benito Mussolini, che ventilò il proposito di averlo ministro delle Finanze
affinché potesse attuare i suoi insegnamenti: ridurre drasticamente la spesa
pubblica “clientelare”, ripristinare il prestigio dello Stato, assicurare i
servizi, azzerare mafie, camorre e tagliare le unghie agli opposti
corporativismi (imprenditori “pescicani” e sindacati parassitari). Al fervore
scientifico unì la passione civile per le libertà. Già direttore delI'Istituto
di Economia “Ettore Bocconi” di Milano, pubblicò una raccolta di saggi per il
giovane editore torinese Piero Gobetti, vittima del regime. All'indomani della
morte del deputato socialista Giacomo Matteotti (10 giugno 1924), aggredito da
una squadraccia fascista, Einaudi deplorò pubblicamente “il silenzio degli
industriali”.
Le sue
opere erano note ormai anche oltre Atlantico. Come Giovanni Agnelli e Attilio
Cabiati, nel 1918 egli aveva giustapposto al sogno della Società delle Nazioni
la più realistica e urgente Federazione europea per scongiurare che dal
collasso degli imperi nascessero devastanti nazionalismi. Da altro versante ne
scrisse in Dei diversi significati del concetto di liberismo economico e dei
suoi rapporti con quello di liberalismo, in controcanto con Benedetto
Croce. Sarebbe però errato ritenere che Einaudi fosse un “liberista assoluto”.
Tra le sue massime spicca «l’uomo libero vuole che lo Stato intervenga». Il suo
era “liberalismo senza aggettivi”. Come ha ricordato Tito Lucrezio Rizzo nel
suo profilo biografico, Einaudi ammonì: «la scienza economica è subordinata
alla legge morale».
Di
vasto respiro e profondità documentaria e critica spiccano due sue opere degli
Anni Trenta: La condotta economica e gli effetti sociali della guerra (1933)
e Teoria della moneta immaginaria nel tempo da Carlomagno alla rivoluzione
francese (1936). Dopo l'arresto e la breve detenzione dei figli
Giulio e Roberto (il terzo, Mario, era migrato negli Stati Uniti d'America)
e la forzata chiusura della “Riforma sociale”, Einaudi fondò la dotta “Rivista
di storia economica”, pubblicata dalla casa editrice di suo figlio Giulio e
protratta sino al 1943. Nel 1938 fu tra i dieci senatori che votarono contro la
legge “per la difesa della razza italiana”. Avversò l'antisemitismo e
l'incipiente vassallaggio ideologico-diplomatico-militare di Mussolini nei
confronti della Germania di Adolf Hitler. Tenuto, come tutti i pubblici
dipendenti, a dichiarare la propria “stirpe” rispose che la sua gente era da
sempre “ligure”, con apporti di altre genti nel corso del tempo.
Dopo
molte edizioni dei fondamentali Principii di scienza della finanza,
condensò decenni di studi in Miti e paradossi della giustizia tributaria (1938).
Come ha scritto Ruggiero Romano, fu «il più grande demitizzatore» italiano del
Novecento, non solo su teorie e pregiudizi economicistici, ma anche nella vita
sociale: abolizione di maiuscole, titoli vanesi e formalismi pomposi ostentati
per celare il vuoto.
La Ricostruzione
Al crollo del regime mussoliniano (25 luglio
1943) Einaudi fu nominato rettore dell'Università di Torino,
mentre Filippo Burzio assunse la direzione della “Stampa”. Con la proclamazione
della resa senza condizioni (8 settembre 1943), quando l'Italia rimase “divisa
in due” (formula di Croce), appreso di essere ricercato riparò in Svizzera. Vi
collaborò a “L'Italia e il Secondo Risorgimento” (Lugano) e pubblicò, tra
altro, I problemi economici della Federazione europea. Chiamato a Roma
dagli Alleati e dal governo presieduto da Ivanoe Bonomi, d'intesa con il
ministro del Tesoro Marcello Soleri, il 4 gennaio 1945 fu nominato governatore
della Banca d'Italia in successione a Vincenzo Azzolini, arrestato per presunta
collusione con gli occupanti germanici in danno della Banca stessa. Quale
direttore generale volle Donato Menichella, che non conosceva di persona ma la
cui formidabile competenza sulle relazioni tra banca e industria molto apprezzava.
Lo attese un compito immane. Aveva pubblicato Lineamenti di una politica
economica liberale. Il governo era sotto tutela della Commissione Alleata
di Controllo. L'amministrazione locale era a sua volta subordinata ai
governatori militari. L'Italia meridionale era inondata dalle “Am-Lire”. La
moneta circolante era quasi venti volte superiore a quella d'anteguerra.
L'inflazione galoppava. Il prodotto interno in molte regioni era dimezzato. In
tante plaghe la popolazione era alla fame. I sei partiti rappresentati nel
Comitato Centrale di Liberazione Nazionale e nel consiglio dei ministri erano
divisi, nell'immediato e nelle prospettive ultime. Il capo del governo, Pietro
Badoglio, aveva sciolto la Camera dei fasci e delle corporazioni, paralizzando
il Parlamento, bicamerale; l'alto commissario per l'epurazione aveva privato
quasi tutti i senatori del rango e dei diritti politici e civili. Il
governatore della Banca d'Italia dovette quindi valersi di cariche e di poteri
ulteriori per risalire la china.
Nominato
membro della Consulta Nazionale che preparò la Costituente, Einaudi fu eletto
alla Assemblea Costituente (2-3 giugno 1946) tra i deputati del Partito
liberale italiano. Nel 1947, dopo il viaggio negli Stati Uniti d'America, De
Gasperi lo volle vicepresidente del Consiglio e ministro del Bilancio. Con
apposito decreto fu confermato governatore della Banca d'Italia e poté tessere
la tela quotidiana della Ricostruzione. Consapevole delle drammatiche
difficoltà nelle quali versava il Paese, anziché vagheggiare progetti tanto
vasti quanto inattuabili, puntò realisticamente a interventi “a pezzi e
bocconi”, come narrato da Antonio d'Aroma, suo fido segretario particolare.
Doveva ristrutturare un edificio occupato da persone che non potevano esserne allontanate:
la burocrazia. Per attuare il risanamento monetario a suo avviso non esistevano
“mezzi taumaturgici”. Lasciò che il tempo facesse tramontare propositi
irrealistici, quali il “cambio della lira”, che avrebbe provocato la fuga dei
pochi capitali disponibili e scoraggiato investimenti dall'estero. In un paio
d'anni le speculazioni si esaurirono e l'inflazione si ridusse a indici
accettabili, con la ripresa della produzione e del mercato, favorita dai
giganteschi prestiti americani senza oneri (Piano Marshall).
Contrario
a imposte straordinarie e contrarissimo a tasse patrimoniali che avrebbero
colpito media e piccola proprietà, mirò alla riesumazione della classe media,
della scuola (pubblica o privata, purché seria) e alla valorizzazione di quanti
servivano lo Stato con dedizione . Monarchico libero da feticismi, poté presto
salutare il plebiscito del “quarto partito”: i risparmiatori, spina dorsale
della Nuova Italia.
Alla
Costituente pronunciò discorsi appassionati e taglienti. Componente della Commissione
dei Settantacinque che, presieduta da Meuccio Ruini, redasse la bozza della
Carta, ottenne l'approvazione dell'articolo 81, che recita: «Con la legge di
approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese.
Ogni altra legge che importi nuove e maggiori spese deve indicare i mezzi per
farvi fronte.»
L'eredità di un Capo dello Stato europeista
Nominato membro di diritto del Senato della
Repubblica (22 aprile), all'indomani delle elezioni, prese parte
all'inaugurazione della prima legislatura, chiamata a eleggere il Capo dello
Stato. Alle 6 del mattino dell’11 maggio 1948 Giulio Andreotti, sottosegretario
alla presidenza del Consiglio, andò a informarlo che al quarto scrutinio De
Gasperi lo avrebbe fatto votare presidente della Repubblica per superare lo
stallo sul nome di Carlo Sforza, già tre volte invano sostenuto dalla
Democrazia cristiana. Il settantaduenne statista non gli ricordò di aver votato
monarchia; lo aveva fatto anche Andreotti. Osservò invece che, claudicante e minuto
qual era, avrebbe dovuto sfilare dinnanzi ai corazzieri. Fu eletto e nessuno
trovò alcunché da obiettare. I corazzieri non avevano dimenticato Vittorio
Emanuele III: poco marziale, ma “Re Soldato”.
Capo
dello Stato, Einaudi lasciò memoria del suo operoso settennato in Lo scrittoio
del Presidente e in Prediche inutili. Improntò
l'esercizio del ruolo a discrezione e continuità. Istituì il Segretariato
Generale, nel solco del Ministero della Real Casa e all'insegna dell’austerità.
All'inizio del 1945 aveva tracciato le linee del liberalismo: «Quando al figlio
del povero saranno offerte le medesime opportunità di studio e di educazione
che sono possedute dal figlio del ricco; quando i figli del ricco saranno
costretti dall'imposta a lavorare, se vorranno conservare la fortuna ereditata;
quando siano soppressi i guadagni privilegiati derivanti da monopolio, e siano
serbati e onorati i redditi ottenuti in libera concorrenza con la gente nuova,
e la gente nuova sia tratta anche dalle file degli operai e dei contadini,
oltre che dal medio ceto; quando il medio ceto comprenda la più parte degli
uomini viventi, noi non avremo una società di uguali, no, che sarebbe una
società di morti, ma avremo una società di uomini liberi.»
Qual è l'eredità di
Einaudi? Quando sentiva (talora da persone “vicine”) vagheggiare di ideologie
“sovietiche” neppure rispondeva: batteva il bastone per terra per dire che era
impossibile dialogare. Anch'egli auspicò riforme mai attuate ma sempre attuali,
a cominciare dall'abolizione del valore legale dei titoli di studio.
Cultore
profondo del “senso dello stato” che, spiegò Benedetto Croce, ministro
dell’Istruzione nel V governo presieduto da Giolitti (1920-1921), non è solo “liberismo”,
è “liberalismo”, Einaudi ne indicò i fondamenti nella
tradizione civile sorta dalla cultura classica e dall'illuminismo, alla cui
riscoperta critica si dedicarono egli stesso, bibliofilo appassionato, e Franco
Venturi. Da presidente dell’Associazione dei piemontesi a Roma nel 1961
promosse i due poderosi volumi della Storia del Piemonte (ed.
Casanova). Alla rievocazione del passato quale alimento irrinunciabile per la
costruzione della Nuova Europa dedicò saggi memorabili, quali Andiamo in
Piemonte! (pubblicato nel 1949 da “Il Ponte”, diretto da Piero
Calamandrei) e Piccolo mondo antico, affidato a “Nuova
Antologia”, la rivista che lo ebbe collaboratore sin dal 1900 e nella quale
raccolse le finissime riflessioni Di alcune usanze non protocollari
attinenti alla Presidenza della Repubblica (agosto 1956).
Quali
pionieri e numi tutelari del federalismo europeo vengono solitamente citati
Alcide De Gasperi, Konrad Adenauer e Robert Schuman, autore del piano che dette
vita alla Comunità europea del carbone dell'acciaio. Tra i profeti e artefici
della Nuova Europa, ancora lontanissima da una vera unità d'intenti, va però
posto e ricordato in primo luogo proprio Luigi Einaudi, capace di conciliare
concretezza e profezia, sulla base dello studio storico, della scienza della
finanze e dell'economia politica, senza la quale la politica economica è
vaniloquio.
DIDASCALIA: Luigi Einaudi.
Su di lui si vedano Riccardo Faucci, Einaudi,
Torino, Utet, 1986; Francesco Forte-Paolo Silvestri, “Einaudi”, in Dizionario
del Liberalismo Italiano, Soveria Mannelli, Rubbettino,
2015 e Tito Lucrezio Rizzo, Il Capo dello Stato dalla Monarchia alla
Repubblica, Roma, Herald, 2024 (1^ ed. 2022).
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