NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

martedì 5 marzo 2024

ATTUALITÀ DI LUIGI EINAUDI

 


150° di Luigi Einaudi

(il Presidente che votò Monarchia)

 

di Aldo A. Mola

 

Taluno vorrebbe giustapporre i poteri del presidente del Consiglio dei ministri a quelli che la Costituzione conferisce al Capo dello Stato. Nel 150° della nascita di Luigi Einaudi (Carrù, 24 marzo 1874 - Roma, 30 ottobre 1961) ricordiamo il suo esempio di primo Presidente effettivo della Repubblica italiana: monarchico, liberale ed europeista.

 

   Il 12 maggio 2018 il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, rievocò Luigi Einaudi nel 70° del suo insediamento alla Presidenza della Repubblica italiana. Guidato dal nipote Roberto, architetto, ne visitò la tomba nel cimitero di Carrù (Cuneo) e la villa in Dogliani, dalla celebre biblioteca. Nella sala del consiglio municipale ricordò che a lui, liberale, e al democristiano Alcide De Gasperi toccò «il compito di definire la grammatica della democrazia italiana appena nata».

   Accolta in spirito di servizio la proposta di elezione alla suprema carica dello Stato, recatagli da Giulio Andreotti su incarico di De Gasperi (in alternativa al divisivo Carlo Sforza e in contrapposizione a Vittorio Emanuele Orlando, sostenuto dalle sinistre), pur privilegiando l'esercizio della “moral suasion” anche con lettere private, Einaudi unì discrezione e fermezza nella rivendicazione delle prerogative di Presidente, «a partire dall'esercizio del potere previsto dall'art.87 della Costituzione, che regola la presentazione alle Camere dei disegni di legge di iniziativa governativa». Rinviò al Parlamento due leggi «perché comportavano aumenti di spesa senza copertura finanziaria, in violazione dell'art. 81 della Costituzione». Erano somme modeste, ma contava il principio.

   Dopo le elezioni del 1953, Einaudi rifiutò il successore di De Gasperi indicatogli dalla Democrazia Cristiana, all'epoca partito di maggioranza, e nominò Giuseppe Pella, già apprezzato ministro del Tesoro, che guidò un governo tripartito (DC, repubblicani e socialdemocratici), con Mario Scelba all'Interno. A futura memoria, il 12 gennaio 1954 Einaudi lesse ad Aldo Moro e a Stanislao Ceschi, presidenti dei gruppi parlamentari democristiani, la “nota verbale” sulla corretta interpretazione dell'art. 92 della Carta («Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio»), motivata dal «dovere del Presidente della Repubblica di evitare si pongano precedenti grazie ai quali accada o sembri accadere che egli non trasmetta al suo successore, immuni da ogni incrinatura, le facoltà che la Costituzione gli attribuisce». È un dovere anche oggi incombente.

   Strenuo avversario dell'“assemblearismo” («il governo di assemblea vuol dire tirannia del gruppo di maggioranza») e del “mandato imperativo” (escluso dall'art. 67 della Costituzione), da senatore del Regno osteggiò la legislazione liberticida: come nel 1928, quando fu conferita al Gran consiglio del fascismo la compilazione della lista dei deputati alla Camera, e nel 1938, quando respinse le leggi razziali. Fu «un patriota – disse Mattarella – consapevole di contribuire, con la sua testimonianza, lui, di orientamento monarchico, al consolidamento della Repubblica democratica».

   Un passo dell'intervento presidenziale rimarrà memorabile perché, attraverso le parole di Einaudi Sergio Mattarella ha fatto intendere la propria missione. Riferendosi all'azione di Vittorio Emanuele III per portare l'Italia al di fuori della catastrofe nell'estate 1943, Einaudi osservò che la prerogativa sovrana «può e deve rimanere dormiente per lunghi decenni e risvegliarsi nei rarissimi momenti nei quali la voce unanime, anche se tacita, del popolo gli chiede di farsi innanzi a risolvere una situazione che gli eletti del popolo da sé non sono capaci di affrontare o per stabilire l'osservanza della legge fondamentale, violata nella sostanza anche se ossequiata nell’apparenza». Nell'ora decisiva, il 25 luglio 1943, il Re esercitò i poteri statutari revocando Benito Mussolini da capo del governo. Fu l'inizio del nuovo corso storico.

 

Un profilo dello Statista

Luigi Einaudi fu eletto presidente effettivo della Repubblica italiana al quarto scrutinio l'11 maggio 1948, con 518 suffragi su 871 votanti. Liberale, monarchico e piemontese, prevalse sul siciliano Vittorio Emanuele Orlando, parimenti liberale, monarchico, “presidente della Vittoria”.

   Einaudi non aveva studiato da capo dello Stato. Aveva studiato. Perso a dodici anni il padre, crebbe in casa dello zio, Francesco Fracchia, notaio a Dogliani. Allievo dei Padri Scolopi a Savona, fu cattolico praticante, ma senza ostentazione e rispettoso di altre confessioni. Per capirne le radici bisogna visitarne le terre d’origine, le stesse di Giovanni Giolitti e di Marcello Soleri. Il suo mondo era ispirato dai principi all’epoca comuni non solo alla classe dirigente ma a tutte le persone perbene, anche umili genere natae. I loro motti eranoaiuta te stesso” e “volere è potere”, divulgati  dal naturalista Michele Lessona.

   Laureato in giurisprudenza a Torino appena ventenne, dopo un impiego alla Cassa di Risparmio di Torino dal 1896 Einaudi collaborò al quotidiano “La Stampa”. Professore all’Istituto Tecnico “Franco Andrea Bonelli” di Cuneo e al “Germano Sommeiller” di Torino, divenne il maggiore economista liberale del Novecento. Autore di opere prestigiose (Un principe mercante. Studi sull'espansione coloniale italiana e saggi sulla finanza nello Stato sabaudo e sulle imposte), scrisse nella “Critica sociale” di Filippo Turati e di Claudio Treves e nella “Riforma sociale” diretta a Torino da Salvatore Cognetti de' Martiis. Collaboratore dal 1903 del quotidiano“Corriere della Sera” diretto da Luigi Albertini e dal 1922 dell'“Economist”, Einaudi polemizzò aspramente contro i “trivellatori dello Stato” e rimproverò a Giolitti di utilizzare il potere per mediare tra le parti sociali e garantire una costosa “stabilità di governo” a vantaggio di troppi “clienti” e di opportunisti. Docente di scienza delle finanze a Pisa nel 1902, lo stesso anno fu chiamato dall'Università di Torino, ove poi ebbe cattedra ad vitam.

   Credeva nella “bellezza della lotta”, cui intitolò un saggio nel 1923. Interventista nel 1914-1915, il 6 ottobre 1919 fu nominato senatore da Vittorio Emanuele III su proposta del presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti. Rievocò le sue esperienze alla Camera Alta in un saggio del 1956 pubblicato nella “Nuova Antologia”. Nel 1922 appoggiò il governo di coalizione nazionale presieduto da Benito Mussolini, che ventilò il proposito di averlo ministro delle Finanze affinché potesse attuare i suoi insegnamenti: ridurre drasticamente la spesa pubblica “clientelare”, ripristinare il prestigio dello Stato, assicurare i servizi, azzerare mafie, camorre e tagliare le unghie agli opposti corporativismi (imprenditori “pescicani” e sindacati parassitari). Al fervore scientifico unì la passione civile per le libertà. Già direttore delI'Istituto di Economia “Ettore Bocconi” di Milano, pubblicò una raccolta di saggi per il giovane editore torinese Piero Gobetti, vittima del regime. All'indomani della morte del deputato socialista Giacomo Matteotti (10 giugno 1924), aggredito da una squadraccia fascista, Einaudi deplorò pubblicamente “il silenzio degli industriali”.

   Le sue opere erano note ormai anche oltre Atlantico. Come Giovanni Agnelli e Attilio Cabiati, nel 1918 egli aveva giustapposto al sogno della Società delle Nazioni la più realistica e urgente Federazione europea per scongiurare che dal collasso degli imperi nascessero devastanti nazionalismi. Da altro versante ne scrisse in Dei diversi significati del concetto di liberismo economico e dei suoi rapporti con quello di liberalismo, in controcanto con Benedetto Croce. Sarebbe però errato ritenere che Einaudi fosse un “liberista assoluto”. Tra le sue massime spicca «l’uomo libero vuole che lo Stato intervenga». Il suo era “liberalismo senza aggettivi”. Come ha ricordato Tito Lucrezio Rizzo nel suo profilo biografico, Einaudi ammonì: «la scienza economica è subordinata alla legge morale».

   Di vasto respiro e profondità documentaria e critica spiccano due sue opere degli Anni Trenta: La condotta economica e gli effetti sociali della guerra (1933) e Teoria della moneta immaginaria nel tempo da Carlomagno alla rivoluzione francese (1936). Dopo l'arresto e la breve detenzione dei figli Giulio e Roberto (il terzo, Mario, era migrato negli Stati Uniti d'America) e la forzata chiusura della “Riforma sociale”, Einaudi fondò la dotta “Rivista di storia economica”, pubblicata dalla casa editrice di suo figlio Giulio e protratta sino al 1943. Nel 1938 fu tra i dieci senatori che votarono contro la legge “per la difesa della razza italiana”. Avversò l'antisemitismo e l'incipiente vassallaggio ideologico-diplomatico-militare di Mussolini nei confronti della Germania di Adolf Hitler. Tenuto, come tutti i pubblici dipendenti, a dichiarare la propria “stirpe” rispose che la sua gente era da sempre “ligure”, con apporti di altre genti nel corso del tempo.

   Dopo molte edizioni dei fondamentali Principii di scienza della finanza, condensò decenni di studi in Miti e paradossi della giustizia tributaria (1938). Come ha scritto Ruggiero Romano, fu «il più grande demitizzatore» italiano del Novecento, non solo su teorie e pregiudizi economicistici, ma anche nella vita sociale: abolizione di maiuscole, titoli vanesi e formalismi pomposi ostentati per celare il vuoto.

 

La Ricostruzione

Al crollo del regime mussoliniano (25 luglio 1943) Einaudi fu nominato rettore dell'Università di Torino, mentre Filippo Burzio assunse la direzione della “Stampa”. Con la proclamazione della resa senza condizioni (8 settembre 1943), quando l'Italia rimase “divisa in due” (formula di Croce), appreso di essere ricercato riparò in Svizzera. Vi collaborò a “L'Italia e il Secondo Risorgimento” (Lugano) e pubblicò, tra altro, I problemi economici della Federazione europea. Chiamato a Roma dagli Alleati e dal governo presieduto da Ivanoe Bonomi, d'intesa con il ministro del Tesoro Marcello Soleri, il 4 gennaio 1945 fu nominato governatore della Banca d'Italia in successione a Vincenzo Azzolini, arrestato per presunta collusione con gli occupanti germanici in danno della Banca stessa. Quale direttore generale volle Donato Menichella, che non conosceva di persona ma la cui formidabile competenza sulle relazioni tra banca e industria molto apprezzava. Lo attese un compito immane. Aveva pubblicato Lineamenti di una politica economica liberale. Il governo era sotto tutela della Commissione Alleata di Controllo. L'amministrazione locale era a sua volta subordinata ai governatori militari. L'Italia meridionale era inondata dalle “Am-Lire”. La moneta circolante era quasi venti volte superiore a quella d'anteguerra. L'inflazione galoppava. Il prodotto interno in molte regioni era dimezzato. In tante plaghe la popolazione era alla fame. I sei partiti rappresentati nel Comitato Centrale di Liberazione Nazionale e nel consiglio dei ministri erano divisi, nell'immediato e nelle prospettive ultime. Il capo del governo, Pietro Badoglio, aveva sciolto la Camera dei fasci e delle corporazioni, paralizzando il Parlamento, bicamerale; l'alto commissario per l'epurazione aveva privato quasi tutti i senatori del rango e dei diritti politici e civili. Il governatore della Banca d'Italia dovette quindi valersi di cariche e di poteri ulteriori per risalire la china.

   Nominato membro della Consulta Nazionale che preparò la Costituente, Einaudi fu eletto alla Assemblea Costituente (2-3 giugno 1946) tra i deputati del Partito liberale italiano. Nel 1947, dopo il viaggio negli Stati Uniti d'America, De Gasperi lo volle vicepresidente del Consiglio e ministro del Bilancio. Con apposito decreto fu confermato governatore della Banca d'Italia e poté tessere la tela quotidiana della Ricostruzione. Consapevole delle drammatiche difficoltà nelle quali versava il Paese, anziché vagheggiare progetti tanto vasti quanto inattuabili, puntò realisticamente a interventi “a pezzi e bocconi”, come narrato da Antonio d'Aroma, suo fido segretario particolare. Doveva ristrutturare un edificio occupato da persone che non potevano esserne allontanate: la burocrazia. Per attuare il risanamento monetario a suo avviso non esistevano “mezzi taumaturgici”. Lasciò che il tempo facesse tramontare propositi irrealistici, quali il “cambio della lira”, che avrebbe provocato la fuga dei pochi capitali disponibili e scoraggiato investimenti dall'estero. In un paio d'anni le speculazioni si esaurirono e l'inflazione si ridusse a indici accettabili, con la ripresa della produzione e del mercato, favorita dai giganteschi prestiti americani senza oneri (Piano Marshall).

   Contrario a imposte straordinarie e contrarissimo a tasse patrimoniali che avrebbero colpito media e piccola proprietà, mirò alla riesumazione della classe media, della scuola (pubblica o privata, purché seria) e alla valorizzazione di quanti servivano lo Stato con dedizione . Monarchico libero da feticismi, poté presto salutare il plebiscito del “quarto partito”: i risparmiatori, spina dorsale della Nuova Italia.

   Alla Costituente pronunciò discorsi appassionati e taglienti. Componente della Commissione dei Settantacinque che, presieduta da Meuccio Ruini, redasse la bozza della Carta, ottenne l'approvazione dell'articolo 81, che recita: «Con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese. Ogni altra legge che importi nuove e maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte.»

 

L'eredità di un Capo dello Stato europeista

Nominato membro di diritto del Senato della Repubblica (22 aprile), all'indomani delle elezioni, prese parte all'inaugurazione della prima legislatura, chiamata a eleggere il Capo dello Stato. Alle 6 del mattino dell’11 maggio 1948 Giulio Andreotti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, andò a informarlo che al quarto scrutinio De Gasperi lo avrebbe fatto votare presidente della Repubblica per superare lo stallo sul nome di Carlo Sforza, già tre volte invano sostenuto dalla Democrazia cristiana. Il settantaduenne statista non gli ricordò di aver votato monarchia; lo aveva fatto anche Andreotti. Osservò invece che, claudicante e minuto qual era, avrebbe dovuto sfilare dinnanzi ai corazzieri. Fu eletto e nessuno trovò alcunché da obiettare. I corazzieri non avevano dimenticato Vittorio Emanuele III: poco marziale, ma “Re Soldato”.

   Capo dello Stato, Einaudi lasciò memoria del suo operoso settennato in Lo scrittoio del Presidente e in Prediche inutili. Improntò l'esercizio del ruolo a discrezione e continuità. Istituì il Segretariato Generale, nel solco del Ministero della Real Casa e all'insegna dell’austerità. All'inizio del 1945 aveva tracciato le linee del liberalismo: «Quando al figlio del povero saranno offerte le medesime opportunità di studio e di educazione che sono possedute dal figlio del ricco; quando i figli del ricco saranno costretti dall'imposta a lavorare, se vorranno conservare la fortuna ereditata; quando siano soppressi i guadagni privilegiati derivanti da monopolio, e siano serbati e onorati i redditi ottenuti in libera concorrenza con la gente nuova, e la gente nuova sia tratta anche dalle file degli operai e dei contadini, oltre che dal medio ceto; quando il medio ceto comprenda la più parte degli uomini viventi, noi non avremo una società di uguali, no, che sarebbe una società di morti, ma avremo una società di uomini liberi.»

   Qual è l'eredità di Einaudi? Quando sentiva (talora da persone “vicine”) vagheggiare di ideologie “sovietiche” neppure rispondeva: batteva il bastone per terra per dire che era impossibile dialogare. Anch'egli auspicò riforme mai attuate ma sempre attuali, a cominciare dall'abolizione del valore legale dei titoli di studio.

    Cultore profondo del “senso dello stato” che, spiegò Benedetto Croce, ministro dell’Istruzione nel V governo presieduto da Giolitti (1920-1921), non è solo “liberismo”, è “liberalismo”, Einaudi ne indicò i fondamenti nella tradizione civile sorta dalla cultura classica e dall'illuminismo, alla cui riscoperta critica si dedicarono egli stesso, bibliofilo appassionato, e Franco Venturi. Da presidente dell’Associazione dei piemontesi a Roma nel 1961 promosse i due poderosi volumi della Storia del Piemonte (ed. Casanova). Alla rievocazione del passato quale alimento irrinunciabile per la costruzione della Nuova Europa dedicò saggi memorabili, quali Andiamo in Piemonte! (pubblicato nel 1949 da “Il Ponte”, diretto da Piero Calamandrei) e Piccolo mondo antico, affidato a “Nuova Antologia”, la rivista che lo ebbe collaboratore sin dal 1900 e nella quale raccolse le finissime riflessioni Di alcune usanze non protocollari attinenti alla Presidenza della Repubblica (agosto 1956).

   Quali pionieri e numi tutelari del federalismo europeo vengono solitamente citati Alcide De Gasperi, Konrad Adenauer e Robert Schuman, autore del piano che dette vita alla Comunità europea del carbone dell'acciaio. Tra i profeti e artefici della Nuova Europa, ancora lontanissima da una vera unità d'intenti, va però posto e ricordato in primo luogo proprio Luigi Einaudi, capace di conciliare concretezza e profezia, sulla base dello studio storico, della scienza della finanze e dell'economia politica, senza la quale la politica economica è vaniloquio.

 

DIDASCALIA: Luigi Einaudi.

Su di lui si vedano Riccardo Faucci, Einaudi, Torino, Utet, 1986; Francesco Forte-Paolo Silvestri, “Einaudi”, in Dizionario del Liberalismo Italiano, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2015 e Tito Lucrezio Rizzo, Il Capo dello Stato dalla Monarchia alla Repubblica, Roma, Herald, 2024 (1^ ed. 2022).

 

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