di Aldo A. Mola
Ansia da prestazione
In lista di attesa. È il quadro politico-istituzionale italiano a tre
mesi dalle elezioni dei deputati al parlamento europeo, passando per il rinnovo
di un paio di consigli regionali dopo quelli, contrastati e contrastanti, della
Sardegna e dell'Abruzzo. L'Italia “politica” sospende il fiato, come attendesse
una verifica del suo stato di salute. Un referto che apre alla speranza o un
verdetto nefasto? Incombono sull'orizzonte le percentuali di consensi per i
singoli partiti, che si presenteranno nell'ordine sparso dettato dal metodo
proporzionale con sbarramento per le liste che non raggiungeranno il 4% dei
voti validi: una tagliola, questa. che, forse, entro pochi giorni ridurrà il
loro numero ai blocchi di partenza. La loro contrazione costringerà “obtorto
collo” ad accorpamenti e (forse) semplificherà il panorama futuro, mettendo
alle corde vanità e supponenze individuali.
Da tempo in allarme, alcuni partiti di maggior peso hanno già fatto
sapere che l'esito delle imminenti “europee” non inciderà sugli equilibri di
governo, quasi riguardassero un altro Paese. È l'ennesima prova dell’auto-referenzialità
della classe politica e della sua spocchiosa indifferenza verso il
pronunciamento dei cittadini.
Un dato che nessuna delle liste in campo (ma nemmeno le “forze” che per
i più disparati motivi rinunciassero alla corsa) dovrebbe sottovalutare è la
percentuale dei votanti rispetto all'insieme degli elettori. Se essa si
attestasse intorno o persino sotto il 50% degli aventi diritto (com’è avvenuto
alle recenti regionali, in molti comuni e nei collegi parlamentari vacanti) non
potrebbe più essere eluso l'“esame di coscienza” dell'attuale rapporto tra
partiti e cittadini, cioè tra elettori e Istituzioni. Lo ha fatto capire più
volte il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.
Qualcuno tenterà di spacciare il declino dell'affluenza alle urne come
dimostrazione di favore verso la maggioranza di governo e/o di chi la guida.
Secondo questa bizzarra e auto-consolatoria lettura dell'astensionismo, chi non
vota lo fa perché è appagato dallo “status quo”. Si riserverà qualche mugugno,
ma di fatto si astrae dai “ludi cartacei”, considerati superflui. Per lui tutto
continuerà com'è. Questa interpretazione, che sentiremo ripetere con convinto
calore, è la più condivisa da chi governa, perché lo illude di avere mani
libere per perpetuarsi al controllo del potere. In aggiunta a questa lettura
minimalistica della diserzione dalle urne vi sarà il rinvio della verifica dei
consensi a successivi appuntamenti elettorali. Il più vicino sono le elezioni
politiche del 2027: anni luce dall'Italia che dal giugno di quest'anno, se non
prima, dovrà fare i conti con gli esiti di altre votazioni di qua e di là
dell'Atlantico, con le tensioni, sempre meno controllabili, dei tre principali
conflitti in corso (Ucraina, Vicino Oriente, Mar Rosso) e, per stare alle cose
di casa, con il macigno del debito pubblico galoppante, la futura legge di
bilancio e la possibile nuova impennata dell’inflazione: variabile dipendente
da fattori esterni incontrollabili da un singolo Paese, per quanto a vocazione
sovranista o populista, in un'Europa che sta smarrendo la bussola, come
dimostrano le sortite bellicistiche del presidente francese Emmanuel Macron.
Dopo il voto probabilmente si prospetterà la tentazione dei partiti di
moltiplicare l'iscrizione a sempre nuove “liste di attesa”, nella speranza di
chissà quale medicina per una “cura da cavallo” del regime parlamentare
agonizzante. O di un nuovo “miracolo”. In fondo siamo tra i Paesi più inclini
ad “apparizioni” salvifiche. Molti si candidano a commentare a tempo
indeterminato la sfera di cristallo della “politica” e dei suoi riti (comizi
elettorali, spoglio delle schede, assegnazione dei seggi, pubblici scambi di
fatue cortesie tra i contendenti...) slittando di votazione in votazione. Di
regione in regione. Di stagione in stagione. Con gli animi sempre più sospesi,
eludendo la risposta al quesito incombente: l'anoressia per le urne è
passeggera o patologica?
1848-1849. Due costituzioni,
una certezza: le elezioni.
Per una risposta non evasiva, giova un rapido panorama storico
dell'affluenza elettorale da quando con lo Statuto promulgato da Carlo Alberto
di Savoia nel regno di Sardegna (4 marzo 1848) e con la Costituzione della
repubblica romana ( 3 luglio 1849) fu introdotta l'elezione della Camera dei
deputati o dell'Assemblea dei rappresentanti. Le due costituzioni erano quanto
di più diverso si possa immaginare. Però il “re per grazia di Dio” varò la
“monarchia rappresentativa”, mentre Giuseppe Mazzini (un anno dopo il
“Manifesto” di Marx ed Engels, febbraio 1848) volle, a sua volta, che la
repubblica si fondasse sul binomio “Dio e popolo”. Lo Statuto rimise al
Parlamento la formulazione della legge elettorale; Mazzini proclamò in
costituzione il voto universale (maschile). Entrambe quelle Carte ebbero in
comune l'elettività dei rappresentanti dei cittadini. La Repubblica Romana
crollò per l’intervento militare straniero, francesi in testa. Nel “Piemonte”
sconfitto dall'impero d'Austria lo Statuto invece resse. E nulla fu più come
prima.
Vedersi riconoscere il diritto di voto costituì motivo di orgoglio, di
vanto e di impegno civico e morale a rappresentare anche gli astenuti e quanti
erano esclusi dalle urne perché analfabeti o non abbienti. Chi non
compartecipava a sostenere lo Stato con la contribuzione diretta non aveva
titolo di concorrere a deciderne le sorti con l'elezione dei deputati. A tale
riguardo l'Italia non stava peggio dei Paesi dell'Europa centro-occidentale e
degli Stati Uniti d'America (l'impero russo e il turco-ottomano erano ancora
mondi a parte).
1848-1939. Un secolo di
affluenza alle urne
Ma quale fu l'affluenza dei cittadini alle urne nella Nuova Italia?
Tante primavere fa, i manuali di storia (quasi tutti ideologicamente
schierati) ripetevano in coro che dalla nascita l'Italia fu perennemente in
crisi adolescenziale per la modesta affluenza degli elettori, tanto più perché
questi erano un’esigua minoranza della popolazione. Nel 1861, all'elezione
della VIII Legislatura del regno di Sardegna, che si tramutò in I Legislatura
di quello d'Italia ma conservo l'ordinale vigente – così come Vittorio Emanuele
rimase “II”, benché fosse il primo sovrano del nuovo regno – la percentuale dei
votanti si fermò al 57,2%. Poi via via scese sino al 45,5% registrato nelle
elezioni del novembre 1870, convocate per festeggiare l'annessione di Roma e
del Lazio e la debellatio del papa-re. Molti cattolici, classificati
come incorreggibili clericali, non andavano alle urne perché sconsigliati dalla
Sacra Penitenzieria: “Non oportet”. Non conveniva né candidarsi né votare. Lo
Stato d'Italia era “scomunicato” da Pio IX. I cattolici fedeli alla Chiesa
dovevano essere “né eletti, né elettori”. Ma già nel 1874 la partecipazione al
voto salì al 55%. Nel 1880 raggiunse il 59,4%. Nel 1882, quando gli elettori
crebbero da 620.000 a 2.018.000 e i collegi uninominali, croce e delizia
dell'Italia liberale, vennero sostituiti da quelli plurinominali con scrutinio
di lista, i votanti risultarono il 60,75%: un record sfiorato nuovamente nel
1895 quando alle urne andò il 59% degli aventi diritto. Ma questi erano stati
drasticamente ridotti di numero perché il presidente del Consiglio, Francesco Crispi,
riformatore illuminato ma insofferente di opposizioni e pessimo amministratore
di se stesso, fece dimagrire il corpo elettorale cancellando democratici,
protosocialisti e liberali progressisti, a vantaggio dei suoi seguaci.
Solo a inizio Novecento, con l'ascesa al trono del trentunenne Vittorio
Emanuele III, la percentuale dei votanti salì costantemente sino al 65 netto
del 1909. Nel 1913, con la riforma voluta da Giovanni Giolitti, presidente del
Consiglio di lunga esperienza, gli elettori balzarono da 2.930.000 a 8.443.000.
Il conferimento del diritto di voto a tutti i maschi maggiorenni alfabeti, e
anche agli analfabeti se avessero prestato servizio militare o avessero
compiuto trent'anni (che per l'epoca era già una bella età, raggiunta a stento
dalla metà dei nati), fu bollato come “un pranzo alle otto di mattina” da un
giolittofago prevenuto come Gaetano Salvemini. Invece Giolitti vinse la
scommessa. Alle urne andò il 60,4% degli aventi diritto, a conferma che la riforma
era attesa e i cittadini se ne valsero per scegliere i propri rappresentanti.
Lo prevedeva lo Statuto. L'Italia era una “monarchia rappresentativa”.
Il re era il capo supremo dello Stato; ma il potere legislativo apparteneva a
lui e alle Camere, una delle quali elettiva, con il sistema più collaudato e
costruttivo, il collegio uninominale con ballottaggio: l'unico in grado di
propiziare l'avvento di una classe dirigente preparata e lungimirante. I
deputati potevano essere rieletti senza alcuna limitazione. Più rimanevano in
esercizio, più risultavano capaci e meritevoli. Nel primo quindicennio del
Novecento i presidenti del Consiglio dei ministri furono tutti deputati letti e
rieletti da decenni. Il democratico e massone bresciano Giuseppe Zanardelli
sedette alla Camera dalla VII Legislatura alla morte (1903) in rappresentanza
dei collegi di Gardone, Iseo e Brescia; il suo confratello Sandrino Fortis fu
deputato di Forlì e Mirteto dalla XIV alla XXIII Legislatura; il barone Sidney
Sonnino, due volte presidente del Consiglio, rappresentò San Casciano e il IV
collegio di Firenze dalla XIV alla XXIV Legislatura. Giolitti fu eletto la
prima volta nel 1882 e rimase deputato 46 anni, sino alla morte. Il decano
della Camera risultò Luigi Luzzatti, presidente del governo dal 1910 al 1911,
deputato di Oderzo dall'XI Legislatura, poi di Padova, Treviso, Abano Bagni e
nuovamente Treviso sino alla XXV. Israelita, promotore delle banche popolari,
esperto di finanza, presidente della lega bancaria latina, fautore della moneta
unica europea e uomo di vastissima cultura fu uno dei padri della Patria.
Quel Parlamento, salutato all'avvento del regno come il migliore
possibile e al tempo stesso bersagliato da critiche impietose da nazionalisti
come Luigi Federzoni, socialisti quali Orazio Raimondo e sindacal-confusionari
come Arturo Labriola, quando venne l'ora si rivelò il meno capace di
rappresentare gli italiani e di dare voce in Aula alla maggioranza dei
cittadini, contrari all'ingresso dell'Italia nella fornace ardente della Grande
Guerra. Anche chi era avverso (fu il caso del socialista Filippo Turati) o
consigliava di intervenire solo quando si fosse certi di vincere senza
rischiare (era il pensiero di Giolitti) fu succubo del governo, a sua volta
prono alla sfida della piazza, finanziata da agenti stranieri: “Guerra o
rivoluzione”.
Nel dopoguerra ci volle del bello e del buono per recuperare la
percentuale di votanti del 1913. Nel novembre 1919, quando vinsero i partiti
“di massa” (socialisti e popolari, appena fondati da don Luigi Sturzo), votò
appena il 56,6% degli lettori. Nel maggio 1921 il diritto di voto fu esteso
alle “terre liberate” (Trentino e Alto Adige, Venezia Giulia e Istria) annesse
prudentemente senza plebiscito confermativo. La percentuale salì al 58,4%, come
nel 1886. Il conferimento del diritto di voto a tutti i cittadini maggiorenni
(e ancora più giovani se avessero prestato servizio militare) e l'introduzione
della “maledetta proporzionale” (formula di Giolitti) determinò l'“Occasione
perduta”, come Gianpaolo Romanato intitola i saggi raccolti nel 4° Quaderno della
Casa Museo “Giacomo Matteotti” di Fratta Polesine (ed. Cierre).
Le votazioni più partecipate furono poi quelle del 6 aprile 1924
(63,8%), dopo diciotto mesi di governo Mussolini, che le vinse con il 66% dei
voti validi a favore della sua Lista nazionale, infarcita di nazionalfascisti,
cattolici, liberali, democratici ed ex socialisti in trasferta: opportunisti o
convinti che il Paese avesse bisogno di requie? Subito dopo l'inaugurazione
della legislatura avvenne l'imprevisto. Giacomo Matteotti, pugnace e indomito
segretario del partito socialista, fu rapito dalla squadraccia capitanata da
Amerigo Dùmini e morì nell'agguato. Lo scandalo fu enorme. Travalicò i confini.
Mussolini vacillò. Ma invece di incalzarlo in Aula l'opposizione si arroccò su
un illusorio “Aventino” e perse l'occasione storica: offrire al re un voto
parlamentare di sfiducia o almeno di critica severa e documentata che gli
consentisse di esercitare le sue prerogative. Il sovrano fece riservatamente
sapere che su quella base avrebbe revocato Mussolini e varato un nuovo governo
“di garanzia”, forse con alta presenza di militari e di tecnici, come si
attendevano molti liberali. Tra gli avversari del fascismo i più si illudevano
che i giornali fossero una “terza Camera”, come oggi certi programmi televisivi
e i “social”.
Consolidato il “duce” al potere, anche grazie alle leggi “fascistissime”
che risposero ai quattro attentati alla sua vita in due anni, spazzate via le
opposizioni e messi a segno i Patti Lateranensi con la Chiesa cattolica, alle
elezioni del 24 marzo 1929 i 400 candidati selezionati dal Gran Consiglio del
Fascismo ottennero il consenso del 98,3% dei votanti. Nel 1934 i voti
favorevoli al governo salirono al 98,8%. Nel marzo 1939 la Camera dei fasci e
delle corporazioni non ebbe neppure bisogno di votazioni: fu composta da
“nominati”. Forse l'Italia stava meglio quando alle urne andava appena il 60%
degli elettori. Eppure secondo Alberto Aquarone, uno tra i massimi storici
italiani, se non fosse intervenuto nella nuova guerra generale il regime
sarebbe durato a tempo indeterminato, come accadde a Francisco Franco in Spagna
e ad Antonio de Salazar in Portogallo.
Il voto: un “dovere civico”
sempre più eluso. Perché?
L'Italia del dopoguerra non partì dal modello antefascista ma da quello
del regime. Al partito unico subentrarono quelli rappresentati nei Comitati di
liberazione nazionale. Nel Comitato Centrale e in molti Cln del Mezzogiorno ve
ne erano sei. In quelli dell'Alta Italia (con sede a Milano) e delle regioni
centro-settentrionali solo cinque (non vi compariva la Democrazia del lavoro).
In nessun Cln figurava il Partito repubblicano italiano, che però non era
affatto un fantasma. Nel II governo presieduto dal democristiano Alcide De
Gasperi sedette alla Difesa il repubblicano Cipriano Facchinetti, massone, al
quale si deve, fra altro, la sostituzione della Marcia Reale con il Canto
Nazionale musicato da Michele Novaro per le cerimonie solenni, a cominciare dal
IV novembre 1946, ricorrenza della Vittoria del 1918.
All’elezione dell'Assemblea Costituente (2-3 giugno 1946) parteciparono
quasi 25 dei 28 milioni di elettori (maschi e femmine), tre milioni dei quali
furono esclusi: ancora prigionieri di guerra, sospesi dal voto per ragioni
politiche, non raggiunti dagli uffici elettorali comunali o residenti in
province ancora “sub judice” in attesa del Trattato di pace (10 febbraio 1947).
Dalle urne uscirono un milione e mezzo di schede bianche e un mare di schede
nulle, annullate e contestate. Non se ne venne mai a capo. Comunque, con 51
liste in gara, la partecipazione fu rilevante.
Per decenni la percentuale dei votanti rimase stabilmente attestata
oltre il 90% degli elettori. Proprio il massiccio afflusso alle urne confortò
l'egemonia della Democrazia cristiana al governo nazionale, nella maggior parte
dei comuni e, quando finalmente vennero ricostituiti (1951), nei consigli
provinciali. Comunisti e socialisti, alleati anche dopo il fiasco del Fronte
popolare – che ancor oggi qualche cosa dovrebbe insegnare ai cantori di “campi”
(pessimo lemma, evocativo di recinzioni e di steccati) – non potevano
inneggiare alla partecipazione e sconfessarne i risultati o attribuirli al
“destino cinico e baro”.
Nel titolo IV della Carta (Rapporti politici) i costituenti scissero gli
articoli 48 e 49 (45 e 47 della bozza approvata dalla Commissione dei
Settantacinque) di fondamentale importanza per definire la democrazia, in
armonia con il secondo comma dell'articolo 1. L’art. 48 recita: «Sono elettori
tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età»,
all'epoca fissata al compimento di anni 21 e ora portata ai 18 (qualcuno
propose di abbassarla a 16 anni). E aggiunge: «Il voto è personale ed eguale,
libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico.» Dopo ampio dibattito venne
respinta la proposta di dichiararlo obbligatorio (avrebbe saputo di regime; e
d'altro canto molti ne erano privati per motivi politici) e “dovere morale”,
valutato eccessivo perché avrebbe costretto a recarsi alle urne anche tanti
monarchici, perplessi all'indomani della proclamazione della repubblica,
prevalsa col favore di un magro 42% degli elettori.
L’art. 49 afferma che «tutti i cittadini hanno diritto di associarsi (la
bozza recitava “organizzarsi”) liberamente in partiti per concorrere con metodo
democratico a determinare la politica nazionale». La discussione verté sul
“metodo democratico”: doveva valere per l'azione dei partiti verso l'esterno o
anche al loro interno? Con la sua nota scaltrezza Palmiro Togliatti, segretario
del partito comunista italiano, assecondato dal classicista Concetto Marchesi
in nome della libertà respinse la pretesa di sondare la democrazia interna dei
partiti. Se un cittadino si riconosce in un’associazione che ne limita la
libertà – egli spiegò – nessuno può interferire sulla sua auto-limitazione.
L'importante (come convennero tutti) era che i partiti non fossero associazioni
terroristiche.
E oggi? Come tanti constatano, i partiti
(o movimenti) sono organizzazioni numericamente sempre meno rilevanti e
tuttavia decidono candidati all'Europarlamento, alle Camere, ai consigli
regionali, i sindaci e i titolari delle cariche più svariate. Agli elettori non
rimane che votare. La loro opinione conta pressoché nulla. Di lì l'ampia e
crescente astensione. La monarchia rappresentativa poté permettersi il lusso di
un corpo elettorale ridotto e del 60% di votanti. La repubblica può fare
altrettanto? La “capo-crazia” è conciliabile con la democrazia o ne è la
negazione? Oltre quale soglia di astensione dal voto le istituzioni cessano di
essere rappresentative? Sono domande niente affatto retoriche soprattutto
mentre dall'esterno tante lugubri ombre si allungano sullo Stato d'Italia e
sulla sempre più labile “Unione Europea”.
Aldo A. Mola
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