Dopo la “finzione” Rai su Mameli
di
Aldo A. Mola
Più
luce sui Padri Scolopi chiede da Carcare il sindaco Mirri
Il “Canto nazionale”, noto anche come “Inno di
Mameli”, rientra fra i tabù. Vietato scriverne per non incappare in
“scomuniche”. Gradito o meno, esso deve piacere e va cantato perché “è così che
si deve fare”. Il suo culto rientra tra i “precetti della Repubblica”. Viene
sorbito come i medicinali, senza porsi domande.“Vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole / e più non dimandare...” scriveva padre Dante Alighieri,
principe di liberi pensatori, esuli, perseguitati e (come lui) condannati al
rogo in contumacia. Sulla sua traccia, lo storico scevro da preconcetti ricerca
documenti, li contestualizza e li propone al lettore affinché costui possa
formare la sua valutazione senza pregiudizi dogmatici, con la “ragione”, che
ignora gli “idola tribus”.
Di
quando in quando la genesi del Canto nazionale è stata messa in connessione con
il Collegio casalanziano di Carcare (Savona), ove, come inoppugnabilmente
documentato, Goffredo Mameli fu ospite nel settembre 1846. Poiché, però,
qualcuno ha ipotizzato che i suoi versi siano debitori nei confronti dello
scolopio Atanasio Canata, sia le biografie sia le evocazioni filmiche di Mameli
hanno ritenuto prudente tacitare ogni curiosità facendo calare il più compatto
silenzio sulla sua presenza nel Collegio scolopico di Carcare, il quale è
invece giustamente fiero di aver formato nelle sue aule tanti insigni patrioti
di metà Ottocento. Esso non fu l'unico, ben inteso. Da secoli le Scuole Pie
fondate dallo spagnolo san Giuseppe Casalanzio (1557-1648) svolgevano anche in
Italia un ruolo educativo d'avanguardia e di eccellenza. Fra i tanti spiccarono
nel collegio San Giovannino di Firenze due docenti di Giosue Carducci, maestro
e vate della Terza Italia: Eugenio Barsanti (inventore del motore a scoppio) e
Francesco Donati, il “Cecco Frate” reiteratamente visitato dall'“allievo”,
massone mai pentito, campione dell'anticlericalismo ma al tempo stesso
rispettoso della fede verace, come emerse dal suo muto dialogo con Giuseppe
Verdi a Palazzo Doria in Genova. Secondo Annie Vivanti, testimone oculare, dopo
lungo silenzio Carducci confidò sommesso: «Io credo in Dio». «E Verdi fece sì,
solennemente, con la candida testa.»
Per
evitare il rischio di fare i conti con la verità dei fatti, la “finzione” su
Goffredo Mameli recentemente proposta da un canale televisivo della RAI si è
attenuta alla regola: “quieta non movere”. Però, come noto, si pecca di
pensieri, parole, opere e omissioni. Non si può certo pretendere che uno
“sceneggiato” sia un documentario. Ma non può neppure essere troppo o del tutto
lontano dalla verità, per non mancare alla sua “missio”: informare, proponendo
allo spettatore la complessità degli eventi e dei personaggi evocati e così
assolvere, almeno a grandi linee, al proposito “pedagogico”, vanto della
televisione italiana dai suoi esordi agli Anni Sessanta. In quella lunga e
rimpianta stagione, nella trasposizione di classici della letteratura, di vicende
e di protagonisti della storia essa non si prese le licenze poi divenute comuni
nei film, quali il famoso “Nell'anno del Signore” di Luigi Magni (1969), che
dipinse il cardinale Agostino Rivarola più feroce e iniquo di quanto fu ed
erroneamente addebitò a lui la condanna alla ghigliottina dei carbonari Leonida
Targhini e Angelo Montanari, accusati senza prove di un “fatto di sangue” (tema
di una pièce teatrale di Valeria Magrini, in programma a Ravenna per iniziativa
della Fondazione Ravenna Risorgimento, presieduta da Eugenio Fusignani, nel
centenario del loro supplizio).
Veduta
la “fiction”, il sindaco di Carcare, Rodolfo Mirri, non l'ha presa bene. Fedele
alla sua formazione professionale di arbitro calcistico (con tanto di
“Fischietto d'oro”) e fautore del giusto equilibrio, da tempo rivendica al suo
Comune il rango di “città del Canto Nazionale” al pari di Genova che, con mezzi
di gran lunga più possenti, ne pretende il monopolio. Per cogliere le sue buone
ragioni è opportuno ricordare in sintesi chi fu Goffredo Mameli, i suoi
rapporti con il Collegio scolopico di Carcare e i riferimenti storici presenti
nel “Canto”, fondamentali per fissarne in maniera attendibile la datazione.
Goffredo Mameli. Chi era costui? Come nacque un
eroe.
Nato a Genova nel 1827 da Giorgio Mameli,
nobile cagliaritano, capitano di vascello, valoroso combattente contro i pirati
nordafricani e fedelissimo dei sovrani sabaudi, e da Adele Zoagli, di cui si
dice fosse invaghito Giuseppe Mazzini, sui dieci anni Goffredo fu iscritto alle
Scuole Pie di Genova. Il 29 giugno 1843, all’Università, il giovane Mameli ebbe
un alterco col diciottenne Giuseppe Lullin e venne punito con un anno di
allontanamento dai corsi. Nell'agosto 1846, diciannovenne, fu ammesso al primo
anno di legge. In settembre lo scolopio Raffaele Ameri lo condusse con sé in
“vacanza di riflessione” da Genova al Collegio di Carcare, ove era già stato
allievo un suo fratello. Del viaggio Goffredo dette conto in lettere assai
sgrammaticate. A Carcare conobbe il focoso padre Atanasio Canata (Lerici, 1811
- Carcare, 1867), drammaturgo e poeta apprezzato da Alessandro Manzoni,
ispiratore di prestigiosi discepoli, quali Pietro Sbarbaro, deputato, massone,
autore di libelli famosi, Anton Giulio Barrili e il celebre Giuseppe Cesare
Abba, garibaldino e futuro senatore del Regno, che lo ricorda con affetto nelle
celebri “Noterelle di uno dei Mille”.
A
Carcare Goffredo si ambientò bene, come padre Ameri scrisse al confratello
Agostino Muraglia. Goffredo stesso il 9
settembre 1846 lo confermò a Giuseppe Canale. Arrivato stanco morto, “dopo cena
mi posi a letto, che sogno che avevo non potea più tener gli occhi aperti. Del
resto faccio di tutto per passare il tempo senza anoiarmi, mi provo a giocar al
pallone alla palla, così comincio così finisco il giorno...
qui ogni momento si prega, cosa buonissima ma che guasta le ginochia”. Forse
per la stanchezza, forse per la fretta, all’epoca scriveva così.
Com’è,
come non è, il 10 novembre 1847, tramite l'amico Ulisse Borzino, Goffredo mandò
un Canto al musicista Michele Novaro, che in quel momento, a Torino,
era in casa di Lorenzo Valerio, capofila
della Sinistra democratica. Quando glielo consegnò, Borzino disse: “Te lo manda
Mameli”, senza riferimenti al suo autore. “Col cuore in tumulto”, narrò molti
anni dopo, Novaro corse a casa e, cappello in testa, scrisse freneticamente le
note di quello che dovrebbe quindi esser detto l’“Inno di Novaro”, poiché di
solito i canti sono ricordati dal nome del compositore e non da quello del
paroliere, per quanto prestigioso. È il caso, tra i molti, dell'Inno alla
gioia, che tutti ricordano dal nome di Ludwig van Beethoven mentre rimane in
ombra quello, pur famoso, di Schiller, autore del testo. Nella concitazione
Novaro rovesciò la lucerna sul foglio mandatogli da Mameli, sicché il manoscritto originale andò irrimediabilmente
perduto.
Del Canto
abbiamo un paio di copie. La prima, conservata al Museo del Risorgimento di
Genova, inizia: “Evviva l’Italia / l’Italia s’è desta...”. Nella seconda (Museo
del Risorgimento di Torino) si legge invece “Fratelli d’Italia...”, ma anche
“Evviva l’Italia / dal sonno s’è desta...”. Fra le copie a stampa pubblicate
nel 1848, quella della tipografia Andrea Rossi di Modena precisa: “Parole di
Mammelli, musica del Maestro Novella (Piemontesi)”.
In
attesa della visita di leva, da Novi Ligure il 15 ottobre 1847, cioè proprio
pochi mesi prima di inviare il Canto a Novaro, Goffredo espose il suo
ideale di vita in una lettera alla madre: “Io qui me la passo benissimo, mangio
per quattro, dormo molto, non faccio nulla, penso meno e questo è l'ideale del
mio Paradiso, credo che voialtri farete altrettanto”. Rifiutò l’arruolamento
nelle file dell'esercito sardo e, contro l'esborso concordato, si fece surrogare.
All'epoca era consentito. Il benestante pagava e si liberava dalla noia del
“servizio” e dal rischio della mobilitazione. Il meno abbiente si accollava
l'una e l'altro, ma controvoglia. Perciò, come documentano Piero Pieri nella
storia militare del Risorgimento e il generale Oreste Bovio in quella
dell'esercito italiano i “dispersi in battaglia” erano quasi sempre più
numerosi di morti e feriti. Semplicemente, prendevano il largo.
Nel
dicembre 1848, dopo rapida maturazione politica, Mameli accorse volontario a
Roma per difendere la Repubblica proclamata il 9 febbraio 1849 su proposta di
Giuseppe Garibaldi e di Carlo Luciano Bonaparte, principe di Canino, già
promotore dei Congressi degli scienziati Italiani che tra il 1838 e il 1847
furono il volano dell'idea di Italia e gettarono le basi dell'unione culturale
partendo dalle “scienze esatte”, meno compromettenti, per arrivare passo dopo
passo a questioni scolastiche, pedagogiche e politiche. Il 3 giugno 1849,
durante una sortita, un commilitone inferse un colpo di baionetta nella gamba
sinistra di Mameli. Tra cure troppo sommarie e la calura estiva, la ferita suppurò e andò in cancrena. Mazzini,
triumviro della Repubblica con Carlo Armellini e Aurelio Saffi, gli scrisse che
doveva rassegnarsi all'amputazione per salvare la vita e continuare la sua
missione. Confortato da padre Ameri e dal barnabita Alessandro Giavazzi,
Goffredo affrontò la terribile prova. Il 2 luglio Garibaldi decise di uscire da
Roma alla volta di Venezia alla testa di duemila volontari, cui promise lacrime
e sangue. Il 3 l'Assemblea suggellò la Costituzione della Repubblica Romana: un
testo limpido ed esemplare, solennemente letto in Piazza del Campidoglio quale
eredità della lunga resistenza dei volontari accorsi in aiuto della Repubblica
contro i 30.000 uomini inviati da Luigi Napoleone, principe-presidente della
repubblica francese, a restaurare Pio IX, di concerto con gli austriaci e i
borbonici del Regno delle Due Sicilie. Il 4 luglio i francesi entrarono in
Roma. Goffredo morì il 6. Padre Ameri gl’impartì il viatico e ne curò la
sepoltura. Il Risorgimento era e rimaneva cristiano.
In Inferno,
Purgatorio e Paradiso d’Italia scitto
negli anni seguenti padre Canata lamentò un duplice disinganno: la rottura
dell’unità d’azione di cattolici e patrioti e il furto di una poesia. Parlando
di sé egli scrisse: “A destar quell’alme imbelli / meditò robusto un canto;/ ma
venali menestrelli/ si rapian dell’arpe il vanto: / sulla sorte dei fratelli /
non profuse allor che pianto, / e aspettando nel suo cuore/ si rinchiuse il pio
cantore”. Secondo una tradizione mai spenta a Carcare si riferiva al Canto
nazionale da lui dato o dettato a Mameli. Ma perché né lui né altri
docenti lo indicarono nominativamente? Come spiegato dallo scolopio Luciano
Giacobbe, lo fecero per pietà cristiana nei confronti di un giovane che aveva
pagato con la vita i suoi generosi ideali e che, contro la verità dei fatti,
veniva dipinto come mangiapreti. Da una parte vi era e vi è la matrice
cattolica del Risorgimento, dall’altra la deformazione della storia, che ne
fece un’impresa genericamente anticlericale, a tutto vantaggio di chi lo
dipinge come complotto massonico.
Del
resto, chiunque ne sia l'autore, la genesi e il contenuto del Canto parlano da
sé. Esprimono un pensiero adulto e profondamente religioso: “Uniamoci, amiamoci;/ l’unione e
l’amore/ rivelano ai popoli/ le vie del Signore”. Parole di un Maestro. Nella
versione dell'inno conservata alla Società economica di Chiavari, il canto
inizia “Oh Figli d’Italia...”. Non è la voce di un ventenne, ma di un docente
che dalla cattedra si rivolge ai discepoli, di un sacerdote che parla da un
pulpito ideale ai “fratelli”: un termine, codesto, tipico delle congregazioni
religiose e in specie dei francescani in tutte le loro articolazioni, molto
prima che fosse assunto dagli iniziati a logge massoniche e a vendite
carbonare.
Storia e poesia nel Canto degli Italiani
Per datare la genesi del Canto,
particolare attenzione meritano i suoi cenni a fatti storici: pochi, ma tutti
molto allusivi. Alcuni si riferiscono alla storia antica e moderna. Il primo è
quell'“elmo di Scipio” che suscitò il commento sarcastico di Giosue Carducci e
che, tuttavia, è meno banale e retorico di quanto paia. Rinvia, infatti, alla
riscossa di Roma contro il cartaginese Annibale, vittorioso al Ticino, alla
Trebbia, al lago Trasimeno e a Canne, la sconfitta più cocente subita dalla
Roma dei consoli. Per reagire alla sequenza di rovesci i Romani si spinsero a
invocare gli Spiriti Ctoni praticando sacrifici umani. Seppellirono vivi due
Greci e due Galli. La Roma evocata dall'inno è quella dei condottieri, cantata
da Virgilio nell'Eneide: “parcere subiectis” e “debellare superbos”, monda
dall'addebito (che le venne mosso nell'Agrippa da Publio Cornelio
Tacito) di vantarsi portatrice di pace dove faceva il deserto: uno scambio di
ruoli possibile solo elevando la storia a missione universale, divina, come
nella visione apocalittica dei Quattro Imperi. In secondo luogo il Canto invoca
la fusione dell'“italia gente da le molte vite” (Carducci) in un unico popolo,
ridestato dal torpore e dalla servitù. Con parole pressoché identiche lo aveva
già spiegato il criptogiansenista Alessandro Manzoni nel famoso coro
dell'“Adelchi”. L'ispirazione è manifestamente ecclesiastica. È il pensiero di
Vincenzo Gioberti (Torino, 1801 - Parigi, 1852), presbitero e cospiratore nei
Cavalieri della Libertà, poi autore del “Primato morale e civile degli
italiani” (1843), un'opera scritta di getto, caotica, alimentata dalla passione
più che dalla ragione e nondimeno fondamentale per la diffusione dell'idea di
Italia. Su suo impulso uscirono decine di migliaia di poesie, canti, manifesti,
fogli volanti e opuscoli inneggianti agli italiani, non più “volgo disperso che
nome non ha” (parole di Manzoni) ma avviati a una “unione”, confederazione o
“lega” (almeno doganale, come proponeva il principe di Canino) presieduta dal
papa.
In una
lettera scritta all'autore di questa “noterella” vent'anni addietro da
Cornigliano (Genova), padre Luciano Giacobbo sintetizzò così il percorso dei
padri di Carcare e più in generale della provincia religiosa scolopica della
Liguria: «Esso affondava le sue origini nella seconda metà del Settecento,
quando buona parte dei padri italiani avevano abbracciata la teologia
giansenista. Agli inizi dell'Ottocento questa era sfociata in un atteggiamento
morale rigoristico e in una posizione concreta antigesuitica, antitemporale e
democratica, che nel corso del secolo poi si andò strutturando in ideologia
patriottica caratterizzata dall'adesione sincera al giobertismo.» Quello,
appunto, espresso da padre Canata nelle sue opere e che prorompe dal Canto
degli italiani. La cui penultima strofa, densa di richiami storici, è la più
suggestiva. Promette la vittoria dei “vinti” sull'Aquila imperiale
dell'Austria, che nel tempo, in combutta con i russi (“cosacchi”), aveva bevuto
il sangue degli italiani come quello dei polacchi. Quando? Nel 1799-1800,
allorché gli austro-russi irruppero nell'Italia settentrionale e vi abbatterono
le precarie repubbliche instaurate su impulso di Napoleone e del Direttorio di
Parigi, e ancora nel 1830, con la repressione dell'insorgenza polacca. Nel
febbraio-marzo 1846 la Galizia polacca visse un'altra stagione di disordini,
oscura e contraddittoria, sostanziata nel massacro di circa duemila “nobili” da
parte dei contadini polacchi, rapidamente schiacciati dagli asburgici, che
occuparono Cracovia con il consenso di tutta l'Europa liberal-moderata.
L'ultima strofa del Canto, infine, mescola i “liberi comuni” in lotta contro
Federico Barbarossa (Legnano: un mito rinfrescato da Luigi Tosti, abate di
Montecassino), il fiorentino Francesco Ferrucci, celebrato da Massimo
d'Azeglio, e il genovese Giovanni Battista Perasso, detto “Balilla”, il “ragazzo di Portoria” che,
secondo la tradizione, il 5 dicembre 1746 scatenò la rivolta della Superba
contro gli austriaci scagliando il sasso contro la testa di un armigero
arrogante, in quel momento alleato di Carlo Emanuele III di Savoia (ma il testo
si guarda bene dal dirlo).
I
quattro assenti dal Canto sono Carlo Alberto di Savoia, l'“italo Amleto” il cui
orientamento “italiano” nel 1846 era ancora tutto da decifrare, mentre divenne
trasparente nel 1847; Pio IX, che fu eletto papa il 16 giugno 1846; Mazzini,
con buona pace di quanti ritengono che il cosiddetto Inno di Mameli sia pregno
del suo magistero; e la “repubblica”, di cui invano vi si cercherebbe l'eco.
Quanto ai Vespri siciliani, va ricordato che nel 1282 essi quelli furono
un'insorgenza contro i Francesi, ma non per la fondazione di un regno
indipendente, bensì a favore degli Aragonesi (“padrone lontano, briglia
sciolta”).
Una
domanda attende risposta: perché nel Canto si parla di “fatti” del 1846 ma non
v'è traccia alcuna del 1847? Questo fu un anno denso di eventi drammatici e di
cambiamenti: l'occupazione austriaca di Ferrara, la sanguinosa guerra in Svizzera
tra i cantoni cattolici e quelli protestanti, conclusa con la vittoria dei
secondi e la trasformazione, a nome immutato, della confederazione elvetica in
federazione, il varo di riforme da parte di Pio IX e la svolta di Carlo Alberto
a sostegno della causa italica. Se davvero l'Inno fu scritto alla vigilia del
pellegrinaggio a Oregina del dicembre 1847 (come ripetuto dalla “finzione”
televisiva) com'è che di quei “fatti” così numerosi e importanti nulla si dice
, mentre il mitico “ Balilla” venne evocato nel 1846, in coincidenza con il
Congresso degli scienziati italiani celebrato in Genova?
Ha
dunque ragione il sindaco di Carcare Rodolfo Mirri a volerci vedere più chiaro.
Allo scopo, dopo aver esposto le ragioni del suo Comune al Presidente Sergio
Mattarella, per la mattina del 13 aprile l'Arbitro ha in progetto un convegno
di studi per approfondire i legami tra Mameli e Carcare, che vuol anche dire
tra il giovane patriota e gli Scolopi, da padre Ameri ad Atanasio Canata. Sono
previsti interventi del Comune di Lerici e della saggista Bruna Magi: non per
togliere a Mameli e all'Inno la meritata gloria, ma per dare “unicuique suum”,
in nome della verità dei fatti.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA: Il Collegio di Carcare, ove
Goffredo Mameli fu ospite dei padri Scolopi e conobbe il poeta e drammaturgo
Atanasio Canata.
Per un
sintetico profilo di Mameli v. Marco Albera e Manlio Collino, Saecularia sexta Album. Studenti e
Università a Torino. Sei secoli di
storia, Torino, Elede, 2005.
Nessun commento:
Posta un commento