Inaugurazione della XXV Legislatura. Re Vittorio Emanuele III con i Principi Reali. |
di Aldo A. Mola
La Costituzione è “rigida”? Allora va ripensata.
I costituzionalisti insegnano che lo Statuto Albertino del
1848 era flessibile mentre la Costituzione della Repubblica è rigida. Ma non è
affatto immutabile. Quando lo ha voluto, il legislatore l'ha modificata,
talvolta in modo opportunistico e maldestro. L'intero Titolo V (Regioni,
province, comuni) è stato messo a soqquadro da una maggioranza risicata. Fatto
il danno, diviene difficile riparare. Vittime illustri delle Camere sono stati
gli articoli 56 e 57 della Carta, con il drastico “taglio” di deputati e
senatori, senza significativo risparmio per lo Stato né miglioramento
apprezzabile della qualità dei “rappresentati della Nazione”. Mentre occorre la
diversificazione di formazione e competenze delle due Camere, il Parlamento ha
conferito l'elezione del Senato ai diciottenni (qualcuno proponeva i sedicenni)
nella fatua illusione di ampliare la partecipazione al voto. E allora?
L'astensione aumenta sia nelle “amministrative”, sia nelle “politiche”. Le
“verità” sono “scomode”, ma vanno dette. La Carta vigente fu pensata e
approvata con l'occhio rivolto a un passato che nel gennaio 1948 era già
remoto. Quando già esisteva l'ONU e, a fronte della “guerra fredda”, l'Italia
stava per aderire alla Nato (1949), la Costituzione non affrontò il “problema
dei problemi” di uno Stato sia pure a sovranità limitata, cioè la politica
estera, fugacemente accennata nell'articolo 11 (“L'Italia ripudia la
guerra...”), destinato a rimanere una petizione di principio. Perciò, al netto
di elogi d'occasione, bisogna prendere che venne scritta mentre incombeva
l'imposizione del punitivo “Trattato di pace”, quando non esisteva neppure
l'ombra dell'Unione Europea, del G7, del G20 e dei rapporti globali odierni
economici e, purtroppo, militari. In quel “mondo” Africa e Asia erano ancora
“colonie”. La Carta va “ripensata” nel suo insieme. Il “corpo” dello Stato
d'Italia è cresciuto. Per dargli una veste istituzionale non bastano “rattoppi”
occasionali. Come da decenni si ripete, occorre una stagione costituente.
Analogo
interrogativo si pose sul finire dell'Ottocento a proposito del Senato del
regno.
Una Camera “ringiovanita”. Un Senato immobile.
Il 29 giugno 1881 il Parlamento approvò la legge elettorale
proposta dalla “Sinistra storica” guidata da Agostino Depretis. Il diritto di
voto fu conferito ai maschi che sapessero leggere e pagassero 19,80 lire di
imposte dirette, una somma modesta. Gli elettori crebbero da seicentomila
600.000 a poco più di due milioni, il 20 per cento dei maschi ventunenni. Nel
maggio 1882 fu introdotto lo scrutinio di lista in collegi circoscrizionali,
per garantire l'elezione di candidati di minoranza: un sistema arzigogolato.
Nel 1892 si tornò al collegio uninominale, ancor oggi rimpianto, nel quale
l'elettore può essere ingannato una volta sola e diffida di candidati
paracadutati “dall'alto”.Secondo Giuseppe Galasso, storico sommo, nel 1882
vennero eletti deputati competenti e assidui ai lavori.
Risultò quindi
urgente “ammodernare” anche il Senato, che era di nomina regia e vitalizio. Ma
come? A
intuire che la sua immobilità poteva essere pericolosa per il futuro delle
istituzioni fu Ruggiero Bonghi (Napoli, 1826-Torre de Greco,
1895), deputato dal 1860, già ministro della Pubblica istruzione. Nel 1884
denunziò nella “Nuova Antologia” il decadimento del “regime parlamentare”:
“L’uno o l’altro partito diventa governo. Ebbene, quantunque il partito che
occupa il governo abbia una maggioranza in suo sostegno, non è punto certo che
la rappresenti, anzi è assai probabile, e in più casi è più che probabile, che
non la rappresenti. Se è così, che cosa resta di rappresentativo al regime
parlamentare? Gli eletti non rappresentano i collegi; i partiti dividono la
Camera, nessun d’essi la rappresenta, non che tutta, neanche in maggioranza.
Non v’ha dubbio, il regime parlamentare si è sviluppato dal rappresentativo; ma
è un figliuolo che ha soffocato il padre. Quando io penso al regime stesso,
così come vige tuttora, mi ricorre a mente quel verso - cattivo, sì, ma non
peggio di quanto va diventando la cosa -: Questi è un uomo che morra.”
Lo pensava anche Marco
Minghetti, ultimo presidente del Consiglio della “Destra storica” (1873-1876).
“Per mio avviso”, questi scrisse nel subito celebre saggio su “L'ingerenza dei
partiti nella pubblica amministrazione”, “la Corona deve accuratamente serbare
le prerogative che le accorda lo Statuto e mai lasciare che altri le usurpi,
imperocché quelle prerogative, ben usate sia nella scelta di ministri sia negli
scioglimenti della Camera, possono in talune circostanze salvare il Paese.” Tra
di esse spiccava la scelta dei senatori, che non poteva essere lasciata in
balìa del presidente del Consiglio di turno, come Depretis, giunto a farne
nominare 220 in otto anni e nove mesi di governo. Riempiendo il Senato di ex
deputati ligi al governo impoveriva la dignità della nomina regia, spogliava la
Camera Alta della sua superiore indipendenza dalle passioni partitiche
contingenti e recideva alla radice il suo requisito di Istituto super
partes.
Decenni prima, nel
saggio sulla Monarchia
rappresentativa in Italia Cesare Balbo aveva configurato il Senato quale
vera e propria élite. “Soffiando su tutta Europa continentale il vento
democratico del Quarantotto, tutti gli statuti italiani dati al principio di
quell’anno fecero senati non ereditari ma a vita. Se invece di gennaio,
febbraio e marzo, fossero nati nei mesi successivi, è poco dubbio che non sarebbero
rimaste nemmeno quelle due ultime reliquie aristocratiche dell’elezione dei
senatori fatti a vita e da principi: ché i senatori si sarebbero fatti eleggere
a tempo dal popolo. Un senato per rimaner senato, per fare effetto diverso in
qualche parte dalla Camera dei deputati, debb’essere diverso da questa, diverso
nella durata e nell’elezione. Se vogliamo istituzioni repubblicane, facciamo
una repubblica; ma se vogliamo monarchia, facciamo istituzioni monarchiche;
verità sempre da per tutto; in tutto verità.”
Determinante per la
continuità del Senato fu il passaggio di Francesco Crispi dai fautori
dell’elettività di entrambe le Camere (propugnata dal cattolico Fedele
Lampertico e, ai suoi esordi, da Domenico Farini, componente del Consiglio
dell'Ordine del Grande Oriente d'Italia) a quella della esclusiva nomina regia
dei patres conscripti. Ebbe il conforto dalle amare riflessioni di
Gaetano Mosca sulla nuova classe dirigente: “Il tempo farebbe pure dimenticare
la prima origine impura di molte fortune e molte influenze; ai figli nati in
elevata fortuna sarebbero risparmiate le bassezze e le contraddizioni che, per
arrivarvi, furono necessarie ai padri...”.
Materia prima della
“teoria delle élites” elaborata da Mosca fu proprio il Senato del Regno.
Per una fortunata
congiunzione astrale tra calcoli di potere e invenzioni della “buona stella”
che costituiscono caratteristica della storia d’Italia, a conferma
dell’eterogenesi dei fini anche nella vita politica, proprio Crispi e il suo
emulo Giolitti di infornata in infornata gonfiarono a dismisura il corpo del
Senato ma al tempo stesso ne serbarono elevato il rango, riscattandosi
dall’insinuazione che la quantità dovesse necessariamente comportare lo
scadimento della qualità. Ogni nuovo senatore recò alla Camera Alta un capitolo
della storia d’Italia, che affondava radici nelle cospirazioni liberali e nelle
patrie battaglie del Risorgimento.
In quegli anni
entrarono in Senato Giosue Carducci, maestro e vate della Nuova Italia e
Costantino Nigra, decano della diplomazia. Sarebbe stato umiliante che per
concorrere alla vita parlamentare italiana quelle personalità dovessero
assoggettarsi a notabili locali, talora più forti persino del potere corruttivo
di prefetti e viceprefetti, come narrò Amedeo Nasalli Rocca nelle sue
gustosissime Memorie di un prefetto. Accadeva, per esempio, che, non
essendo riuscito a convincere gli elettori a votare per il candidato che gli
era stato raccomandato, il sindaco di un piccolo borgo scolasse da solo
tutto il vino acquistato coi fondi neri governativi per propiziarne il successo
e venisse rinvenuto ubriaco in un fosso: sconfitto, alle urne e senza speranza
di essere premiato con l’ambita croce di cavaliere.
Nominato presidente del
Consiglio, Giolitti camminò nel solco tracciato da Depretis e Crispi. Nelle due
infornate del 10 ottobre e 21 novembre 1892, prima e dopo il rinnovo della
Camera, tra parecchi patres di fama non imperitura inserì quanti
bastavano a conservare lustro alla nomina regia e vitalizia.
Nel 1892 il Senato
riservò a Giolitti un’accoglienza gelida. Il suo governo contava un solo pater,
il savoiardo ammiraglio Antonio Pacoret de Saint-Bon, che morì pochi mesi dopo
la nomina. Un affronto alla Camera Alta? Il precedente ministero, però,
presieduto da Antonio di Rudinì, ne
aveva avuti appena due. La ragione era dunque altra. In Giolitti la Camera Alta
intravvide chi avrebbe chiesto ai patres che non si contentassero del
laticlavio come fosse una onorificenza, ma concorressero con maggiore
partecipazione al grigio travaglio di elaborazione delle leggi. Alla
proclamazione del Regno, nel 1861, i senatori erano 211. Dopo il trasferimento
della capitale da Torino a Firenze risultavano 276. Divennero 308 con
l’annessione di Roma. Nel passaggio dalla Destra alla Sinistra (marzo 1876) se
ne contavano 328. Depretis li portò a una media di circa 330 durante il suo
decennio di governo. Crispi li fece balzare a 411 nel 1890 e a 416 nel 1891.
Giolitti, fece di più. Li accrebbe a 464. Poche decine meno dei 508 deputati.
Come prevedibile, venne chiamato a darne conto in Assemblea. Andrea Guarneri lo
accusò di mettere a repentaglio l’intero edificio “alla cui sommità v’ha, o
signori, la Maestà del Trono di Italia”. Come al solito, Giolitti eluse le
questioni di principio, terreno lubrico d’interminabili dispute bizantine, e
andò al punto che gli premeva. Da anni la Camera Alta faceva registrare un
grave e non edificante assenteismo. Nelle due votazioni più importanti della
precedente legislatura (1890-1892), sull'abolizione dello scrutinio di lista e
ritorno al collegio uninominale e sull’esercizio provvisorio del bilancio per
sei mesi, dei 375 senatori in carica in aula se ne contarono appena 83 per la
prima legge e 116 per la seconda. Quello fu anche il numero di presenze più
elevato fatto registrare dai patres nell’arco dell’intera legislatura:
meno di un terzo dei componenti. Non era dunque il governo a mancare di
rispetto al Senato immettendovi energie nuove, in gran parte provenienti dalla
Camera e quindi aduse alla dialettica parlamentare. Erano i senatori, a volte
presuntuosi e assenteisti, ad aver
trascurato il loro dovere. La Camera Alta non era un’Assemblea di congerrones,
cioè di compagnoni, come avrebbe lamentato a suo tempo Marco Tullio
Cicerone, che in Aula si trovavano di quando in quando quasi per divertimento.
Il Senato del Regno era la Prima Camera. Tenuta, come l’antica, a far sì che
sempre si dicesse “Senatus populusque romanus” e mai “Populus et senatus”. La
differenza non era poca. Il Senato doveva comprovare con la propria condotta
che il re tale era “per grazia di Dio” prima che “per volontà della nazione”.
Giolitti era conscio che non tutte le assenze potevano essere addebitate a
negligenza, giacché molti senatori erano anziani, cagionevoli di salute,
residenti in lande remote dalla capitale, difficile da raggiungere per chi
abitava nelle grandi isole o nelle province periferiche del Regno. Ammise che
gli ex deputati costituivano il gruppo più numeroso dei nuovi senatori. Ma se
il Senato voleva non solo una “vetrina” di celebrità ma un'assemblea politica,
poiché non ci si poteva attendere partecipazione assidua di diplomatici,
militari, magistrati, scienziati, cattedratici e accademici in missione e
dediti alle loro discipline, era bene che la Camera Alta venisse rinvigorita
con ex deputati, molti dei quali avevano titoli anche per altre categorie.
Come veniva preparata
una “infornata”?
In pagine scritte col
pennino intinto nell’amaro inchiostro di chi temeva l'avvento dei clericali,
nel Diario di fine secolo Domenico Farini lasciò resoconto minuzioso di
come fossero decisi i laticlavi da proporre al Re, Umberto I. Narrò il
colloquio avuto all'Hotel “Suisse” di Torino con il presidente del Consiglio
generale Luigi Pelloux. Scorrendo le liste trasmessegli dal precedente
presidente del Consiglio e quelle da più parti pervenute i due passarono in
rassegna vizi e virtù degli aspiranti senatori. Poiché la Camera Alta contava
un solo ammiraglio, che a detta del ministro Benedetto Brin non sapeva né leggere
né scrivere, s’imbatterono nella candidatura di un suo pari grado che secondo
il re era “un grande intrigante”. A Pelloux risultava anzi che mentre era
imbarcato sul “Colombo” aveva persino rubato. Occorreva bilanciare nomi di
sinistra con altri di destra. I due si scambiarono battute feroci. Miceli era
“un rammollito”. La candidatura dell’ex deputato di Milano Luigi Rossi pareva
sostenuta dalla duchessa Litta (vale a dire dal re, di cui era notoriamente
intrinseca) benché fosse mezzo radicale, mezzo socialista, dotato di ingegno e
cultura e quindi “un uomo che può riuscire in Assemblea molesto”. Ulderico
Levi, in aggiunta a Ugo Pisa, avrebbe portato gl’israeliti a due su trenta in
una sola tornata. Troppi. “E di Parpaglia che dici?” domandò Pelloux. Farini di
rimando: “mi pare una brava persona, ma bada, in Sardegna che ora ha un solo
senatore, vi ha un vecchio parlamentare che non si può trascurare: il Salaris”.
Pelloux replicò: “Sì... il Salaris... ma è vecchio e non verrà mai. Parpaglia è
ottimo”. Farini: “Ma Salaris, ufficiale fino dal 1848 nei cacciatori sardi, è
un liberale, ha undici legislature”. “E del Piaggio, ex deputato, che diresti?”
domandò Pelloux. Rispose Farini: “Non credo si debba nominare chi è direttore
d’una società come quella di navigazione, tanto legata al Governo”. Pelloux:
“Così pare anche a me. Ma dicono che il Piaggio è amministratore delegato e non
direttore generale... ”. “Questa è ipocrisia da curiali, quasi che il titolo
muti la sostanza...”. Infine i due concordarono nel deplorare “il pettegolezzo
giornalistico intorno alle nomine senatorie, le autocandidature, le sfacciate
pretese, le impudenze inaudite”. A un certo punto Pelloux esclamò che “in mezzo
a tanto putiferio, il meglio sarebbe di non far nulla di nulla”. Fu incoraggiato
da Farini che gli osservò come i patres già fossero 326, oltre a tre che
ancora non avevano prestato giuramento e a cinque principi del sangue, uno dei
quali gli era inviso per legami con gli Orléans. Era il 13 ottobre 1898.
Il 17 novembre avvenne
l’infornata di trenta senatori, aperta proprio dall’uomo del “Colombo”.
Comprese Giuseppe Carle, Antonio Cefaly, diadoco di Giolitti nel Mezzogiorno e
massone, il garibaldino Abele Damiani, che Pelloux aveva detto a Farini di non
volere “assolutamente”, i due ebrei Ulderico Levi e Ugo Pisa, Luigi Miceli,
Salvatore Parpaglia (ma non Salaris), Erasmo Piaggio e il giolittiano e
proprietario della “Stampa” di Torino, Luigi Roux, perché in fondo,
pettegolezzi per pettegolezzi, era bene avere amico almeno uno dei giornali più
influenti.
Malgrado tutto...
Il Senato mostrò di
essere il luogo istituzionale più propizio per lanciare messaggi politici a
futura memoria, come il conferimento dei collari della SS. Annunziata a
sovrani, presidenti di repubbliche e principi esteri lo era per le linee che lo
Stato si apprestava a percorrere nelle relazioni internazionali. Se n’ebbe la
conferma il 14 giugno 1900. Nel 1870, l’anno di Porta Pia, alla Camera Alta
venne chiamato il laniere di Schio Alessandro Rossi, clericale e massonofago.
Nell’anno del Giubileo il laticlavio fu conferito ad Antonio Fogazzaro, il più
prestigioso scrittore cattolico italiano tra Otto e Novecento, più volte
candidato al premio Nobel per la letteratura come documentato da Enrico Tiozzo.
La Corona non precludeva l'Aula senatoria ai talenti acclarati e non badava
alle contese in corso tra clericali e anticlericali. Lo scrittore era “un
nome”.
Va ricordato infine che
l’ingresso in Senato non comportava alcuna remunerazione e neppure alcuna
“quota” da parte dei suoi componenti: una un “patto” alla pari tra Monarchia e
Patres, come spiegò Luigi Einaudi, monarchico e liberale “a schiena dritta”.
Il regio Senato, in
sintesi, era e rimase un “élite”, con tutte le contraddizioni interne del nome,
che indica una classe dirigente esistente “di per sé, non “eletta” (élite
derivi da eligere) e tuttavia “votata”: non dal suffragio popolare,
però, ma dalla propria vocazione. Un groviglio che merita un'apposita
trattazione.
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