di Emilio Del Bel Belluz
Erano
passate in modo tranquillo alcune settimane, la pesca mi aveva dato il
sufficiente per vivere, e avevo continuato ad imparare il mestiere del
falegname. Mi trovavo molto bene con il mio maestro. Lo aiutavo nei momenti
liberi e sentivo che l’abilità nel lavorare il legno mi piaceva. Nella mia casa
avevo incominciato a fare dei lavori di restauro dei balconi che, ormai essendo
vecchi, ne avevano davvero bisogno. Qualche volta veniva a trovarmi il
falegname, e mi dava ulteriori consigli su come proseguire e mi aiutava a
correggere gli errori che facevo senza mai umiliarmi. Nella casa, con molta
pazienza, avevo sistemato anche alcune assi del pavimento, e questa volta avevo
ricevuto una lode dal falegname, e non volli pensare che questo elogio fosse
fatto per incoraggiarmi. Riuscire a diventare un bravo falegname mi avrebbe
dato la sicurezza di poter guadagnare qualcos’altro al di fuori della pesca e
non sentirmi più in ansia per non assicurare i pasti quotidiani alla mia
famiglia. Il fiume era la mia grande risorsa, la mia anima, ma temevo di
perderla. Era un pensiero intrusivo e spesso mi capitava di sognare di vedere
la mia famiglia attorno al tavolo della cucina ma con il piatto vuoto e i miei
figli con Elena che mi guardavano, come s’aspettassero un miracolo da me. Questo
sogno era ricorrente, a tal punto che mi svegliavo di soprassalto, mi vestivo e
uscivo per osservare il fiume e chiedevo al buon Dio che mi aiutasse e non mi
abbandonasse. Una volta ne parlai con il prete che mi diede una pacca sulla
spalla, ricordandomi alla sera prima di addormentarmi di pregare la Santa dei
casi impossibili: Santa Rita da Cascia, che m’ avrebbe di sicuro aiutato. Quel
giorno mi donò un suo santino che raffigurava la Santa con una spina sulla
fronte. Quella stessa sera la pregai che mi aiutasse a non fare questi sogni
così orribili, e ricordai a me stesso quello che diceva mio padre: “ Dio vede e
Dio provvede”. Lui aveva sempre invocato il buon Dio con queste parole e la
preghiera continua gli dava una certa pace. Il vecchio parroco che aveva molta
esperienza sulle esistenze altrui, alla fine aveva avuto ragione. I miei incubi
notturni si erano diradati, riuscendo a riposare meglio. Una mattina, mentre
stavo raggiungendo la mia barca, vidi una persona che mi salutava dall’argine,
ma non riuscivo ad individuarlo, e mi fece cenno che lo raggiungessi . Lasciai
la barca dove avevo messo gli attrezzi da pesca e mi avvicinai: era Flavio, un
giovane di Villanova. Mi ricordai che dall’ ultima volta che ci eravamo visti,
era passato molto tempo. Quando mi vide mi salutò con affetto. Avevamo
frequentato la stessa scuola fino alle elementari, poi ci eravamo persi di
vista. La vita come si sa, divide e ognuno segue il suo percorso. Quel giorno
volle che andassimo all’osteria del paese, che era aperta come sempre alla
mattina presto. Spiegai che non avevo molto tempo e che dovevo andare a
ritirare le reti, ma mi lasciai convincere per un buon caffè. Quando entrammo
nell’osteria, trovai alcuni vecchi del paese che ci salutarono entusiasti,
uomini che avevano passato i settanta anni e che trascorrevano qualche ora
assieme, immersi nella nebbia dei ricordi. Con Flavio ci sedemmo vicino alla
finestra aperta, il fumo nel locale era davvero intenso. Notai che uno degli
avventori stava fumando un sigaro e sentivo il suo profumo che riusciva a
primeggiare su tutto. Costui stava leggendo un giornale e lo commentava.
Riuscii solo ad intendere che si parlava del Duce Benito Mussolini che aveva
fatto un viaggio nella sua terra natale. Flavio, intanto, mi raccontava che gli
era venuta nostalgia per i vecchi tempi, quando dopo la scuola si andava a
pescare. Allora gli chiesi il motivo della sua visita così improvvisa, e
sorridendo mi disse che voleva passare una giornata con me, andando a pescare
come una volta, con una canna di bambù e il sughero come galleggiante. Lo
ascoltai con molta gioia, perché stava progettando per noi di rivivere una
giornata avventurosa come ai vecchi tempi. Pertanto decidemmo di vederci l’indomani.
L’accordo era di cucinare sul posto il pesce per il nostro pasto e il resto lo
avremmo portato alle nostre famiglie. Quando mi accompagnò al fiume, gli
mostrai le mie barche, quella più grande l’avevo poco lontana, un piccolo
peschereccio con il quale in certi momenti solcavo il fiume. Flavio mi
osservava e sorridendo mi diede la mano, e con quella stretta così vigorosa,
compresi che la nostra amicizia non era stata intaccata dal tempo. Salii sulla
mia barca e presi il largo. Flavio rimase ad osservare mentre mi allontanavo, e
con la mano mi salutava. Il sole era già sorto, mi trovavo vicino alla sponda
del fiume dove avevo calato una delle reti più grandi che possedevo, e vi
trovai impigliata una grossa carpa e alcune tinche. Dopo qualche ora di lavoro
decisi di lasciare ancora calate due reti, magari le avrei raccolte con Flavio
se avesse voluto seguirmi l’indomani. Con molta calma raggiunsi la riva dove
era ormeggiata l’altra barca. Portai la buona pescata che avevo fatto al mio
amico oste che puntualmente mi pagò. Andai a casa soddisfatto perché avevo
incontrato un caro amico. Raccontai a Elena che avevo rivisto Flavio con il
quale avevo condiviso dei bei momenti nel periodo dell’infanzia. Quando eravamo
piccoli, la felicità ci avvolgeva e non vi erano preoccupazioni di sorta. L’indomani
sarei andato a pescare con lui negli stessi posti di una volta, vicino alla
Villa Morosina, un luogo che mi era caro. In quella zona c’era il canale Zampagnon
attraversato da un ponte costruito con delle vecchie pietre. Flavio era il mio
compagno preferito, conosceva a dovizia i luoghi dove sicuramente la pesca
sarebbe andata a buon fine. Inoltre, possedeva una grande qualità che credo
avesse mantenuto nella vita: la tranquillità, una dote da attribuire anche allo
sport della pesca. Il piccolo corso d’acqua era un luogo che non era stato
intaccato dall’intervento distruttivo dell’uomo. Lungo gli argini si vedeva una
lepre che correva veloce, magari temeva il cacciatore. Il giorno dopo di buon’
ora ci trovammo davanti a casa mia, il mio amico era arrivato in anticipo ed
osservava il fiume, mentre le campane del paese annunciavano l’inizio della
giornata. Il tempo era bello. Con le nostre canne passammo davanti all’osteria
che era aperta, e approfittammo per berci un buon caffè. Ad accoglierci la
moglie dell’oste, una persona che conoscevamo bene. All’interno del locale
alcuni avventori ci guardarono con una certa curiosità. A piedi raggiungemmo
Villa Morosina, incontrammo dei contadini che andavano al mercato, ed uno di
loro si stupì che io, pescatore di professione, mi incamminassi con una canna
di bambù. Lo stradone che ci conduceva alla nostra meta era di circa un
chilometro, che percorremmo raccontandoci il nostro passato. Una volta
raggiunto il posto, ci accorgemmo che vi stava ancora quell’albero dove ci
mettevamo a pescare da bambini. Era diventato molto alto e con tante fronde;
sembrava che ci avesse aspettato per tanti anni, come se fosse stato certo che
avremmo desiderato sederci sotto la sua chioma. Il piccolo corso d’acqua era
come sempre tranquillo. La villa Morosina, residenza estiva dei nobili
veneziani, si presentava nella sua totale bellezza. In quella casa vi avevano
abitato molte persone, si diceva che vi avesse pure soggiornato per qualche
giorno anche il generale Garibaldi. Un vecchio del paese sosteneva d’aver
trovato una lettera con la quale il generale ringraziava la famiglia per
l’ospitalità ricevuta. Davanti alla villa sentimmo il latrato di un cane che
dopo poco venne verso di noi. Il momento più bello fu quando calammo le nostre
lenze, che trovarono una bella ospitalità tra i canneti. L’acqua non si
muoveva, solo le rane si facevano sentire. Flavio si diceva emozionato,
ritornavamo insieme dopo quindici anni. Le nostre strade si erano divise, ma il
fiume ci faceva ancora una volta incontrare. Il tempo passava lentamente mentre
parlavamo ancora dei tempi passati ed immaginavamo il nostro futuro. Flavio
aveva ottenuto un posto di lavoro in una falegnameria a Motta di Livenza, dove
abitava con la famiglia. Infatti, si era sposato e aveva dei figli. Parlammo
della scuola che ci aveva visto spesso insieme, e della vecchia maestra che era
salita al cielo. Le nostre canne erano immobili, in quel posto Flavio una volta
aveva catturato una grossa carpa. Flavio era sempre stato più bravo di me nella
pesca, aveva una tattica speciale e glielo avevo sempre riconosciuto. In quel
momento il suo galleggiante incominciò a muoversi e si spostava verso la riva
opposta. Flavio con uno strappo da maestro riuscì a catturare una carpa, non
molto grande, ma di sicuro come primo pesce si poteva essere soddisfatti. Il
mio galleggiante era immobile, ed iniziavo a scoraggiarmi. Ma dopo alcuni
minuti la mia attenzione fu attratta dal mio sughero che scomparve e dopo uno
sforzo non indifferente, riuscii a trascinare a riva una grande tinca. Una
gioia grande si impadronì di me, mi sentivo talmente felice come se quello
fosse il primo pesce catturato della mia vita. Ci mettemmo poi a parlare del
libro scritto da M.K. Rawlings, Il cucciolo che avevamo letto a scuola e
narrava di un ragazzo che un giorno con suo padre andò a pesca e riuscì a
catturare un luccio di quasi cinque chili. La maestra ci aveva prestato questo
libro affinché lo leggessimo e migliorassimo il nostro modo di scrivere. Quella
cara insegnante ci aveva assegnato il compito di riassumere l’episodio che ci
aveva emozionato di più. Entrambi avevamo descritto la cattura del grande
luccio. Flavio tolse dalla sua sacca militare, che era appartenuta a suo padre,
il quaderno che conteneva il riassunto sulla cattura di quel luccio e una parte
dello stesso racconto che si mise a leggere. “Il sughero affondò come
trascinato da un peso enorme che fece persino perdere l’equilibrio al pescatore
novizio il quale puntò freneticamente i due piedi contro il suolo per resistere
agli strattoni. Il babbo gridò:” Tien duro, figliolo. Non lasciare che si
impigli nell’erbe. Tieni alta l’estremità della canna. Non mollare.” Jody,
nello sforzo che faceva per resistere, temeva che la lenza si strappasse, ma
non osava mollare di un centimetro, per paura di perdere la grossa preda. Si
augurava che il babbo gli fornisse il magico consiglio che risultasse utile a
renderlo miracolosamente padrone del bottino e a liberarlo dal tormento della
sospensione. Il luccio evidentemente meditava la tattica di guizzare attorno
all’isolotto per impigliare la lenza nei gambi delle foglie, neutralizzare così
la tensione e liberarsi dall’amo. Jody si persuase che ritirandosi piano piano
dal margine dell’acqua senza mai mollare la lenza, poteva tirare il pesce a
poco a poco dove l’acqua era sempre meno fonda e togliergli la libertà dei
movimenti e la possibilità di difendersi. Agì con la massima circospezione e
riuscì nel suo intento. L’ultimo atto della sua impresa fu un energico
strattone alla canna che coronò la sua conquista. Era un luccio che poteva
pesare cinque chili. Il babbo lo raggiunse. “ Sono fiero di te. Nessuno avrebbe
saputo fare meglio.” Dopo la lettura del racconto mi commossi come allora, non
eravamo cambiati, anche se il tempo era passato. Quella mattina passò
velocemente, catturammo alcuni pesci piuttosto piccoli, ma con i due più grandi
dopo averli puliti nel canale, decidemmo di metterci a cucinarli. Sul fuoco con
un bastone, a mò di spiedo, li cucinammo, li mangiammo dopo averli salati, e
bevemmo l’acqua del canale che era limpida. Nel frattempo avevamo calato ancora
le canne e con grande sorpresa catturai una carpa piuttosto grande che donai a
Flavio quando ci lasciammo. Il pacifico canale aveva mantenuto la sua bellezza,
l’albero era ancora più grande e la vecchia Villa Morosina quando la lasciammo
era avvolta dalla nebbia come se fosse una casa lungo il fiume. Flavio ed io
avevamo ritrovato i luoghi della nostra infanzia intatti come la nostra
amicizia.
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