NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

domenica 23 ottobre 2022

Capitolo XXIV: L’amico ritrovato dopo tanti anni

 


di Emilio Del Bel Belluz

 

Erano passate in modo tranquillo alcune settimane, la pesca mi aveva dato il sufficiente per vivere, e avevo continuato ad imparare il mestiere del falegname. Mi trovavo molto bene con il mio maestro. Lo aiutavo nei momenti liberi e sentivo che l’abilità nel lavorare il legno mi piaceva. Nella mia casa avevo incominciato a fare dei lavori di restauro dei balconi che, ormai essendo vecchi, ne avevano davvero bisogno. Qualche volta veniva a trovarmi il falegname, e mi dava ulteriori consigli su come proseguire e mi aiutava a correggere gli errori che facevo senza mai umiliarmi. Nella casa, con molta pazienza, avevo sistemato anche alcune assi del pavimento, e questa volta avevo ricevuto una lode dal falegname, e non volli pensare che questo elogio fosse fatto per incoraggiarmi. Riuscire a diventare un bravo falegname mi avrebbe dato la sicurezza di poter guadagnare qualcos’altro al di fuori della pesca e non sentirmi più in ansia per non assicurare i pasti quotidiani alla mia famiglia. Il fiume era la mia grande risorsa, la mia anima, ma temevo di perderla. Era un pensiero intrusivo e spesso mi capitava di sognare di vedere la mia famiglia attorno al tavolo della cucina ma con il piatto vuoto e i miei figli con Elena che mi guardavano, come s’aspettassero un miracolo da me. Questo sogno era ricorrente, a tal punto che mi svegliavo di soprassalto, mi vestivo e uscivo per osservare il fiume e chiedevo al buon Dio che mi aiutasse e non mi abbandonasse. Una volta ne parlai con il prete che mi diede una pacca sulla spalla, ricordandomi alla sera prima di addormentarmi di pregare la Santa dei casi impossibili: Santa Rita da Cascia, che m’ avrebbe di sicuro aiutato. Quel giorno mi donò un suo santino che raffigurava la Santa con una spina sulla fronte. Quella stessa sera la pregai che mi aiutasse a non fare questi sogni così orribili, e ricordai a me stesso quello che diceva mio padre: “ Dio vede e Dio provvede”. Lui aveva sempre invocato il buon Dio con queste parole e la preghiera continua gli dava una certa pace. Il vecchio parroco che aveva molta esperienza sulle esistenze altrui, alla fine aveva avuto ragione. I miei incubi notturni si erano diradati, riuscendo a riposare meglio. Una mattina, mentre stavo raggiungendo la mia barca, vidi una persona che mi salutava dall’argine, ma non riuscivo ad individuarlo, e mi fece cenno che lo raggiungessi . Lasciai la barca dove avevo messo gli attrezzi da pesca e mi avvicinai: era Flavio, un giovane di Villanova. Mi ricordai che dall’ ultima volta che ci eravamo visti, era passato molto tempo. Quando mi vide mi salutò con affetto. Avevamo frequentato la stessa scuola fino alle elementari, poi ci eravamo persi di vista. La vita come si sa, divide e ognuno segue il suo percorso. Quel giorno volle che andassimo all’osteria del paese, che era aperta come sempre alla mattina presto. Spiegai che non avevo molto tempo e che dovevo andare a ritirare le reti, ma mi lasciai convincere per un buon caffè. Quando entrammo nell’osteria, trovai alcuni vecchi del paese che ci salutarono entusiasti, uomini che avevano passato i settanta anni e che trascorrevano qualche ora assieme, immersi nella nebbia dei ricordi. Con Flavio ci sedemmo vicino alla finestra aperta, il fumo nel locale era davvero intenso. Notai che uno degli avventori stava fumando un sigaro e sentivo il suo profumo che riusciva a primeggiare su tutto. Costui stava leggendo un giornale e lo commentava. Riuscii solo ad intendere che si parlava del Duce Benito Mussolini che aveva fatto un viaggio nella sua terra natale. Flavio, intanto, mi raccontava che gli era venuta nostalgia per i vecchi tempi, quando dopo la scuola si andava a pescare. Allora gli chiesi il motivo della sua visita così improvvisa, e sorridendo mi disse che voleva passare una giornata con me, andando a pescare come una volta, con una canna di bambù e il sughero come galleggiante. Lo ascoltai con molta gioia, perché stava progettando per noi di rivivere una giornata avventurosa come ai vecchi tempi. Pertanto decidemmo di vederci l’indomani. L’accordo era di cucinare sul posto il pesce per il nostro pasto e il resto lo avremmo portato alle nostre famiglie. Quando mi accompagnò al fiume, gli mostrai le mie barche, quella più grande l’avevo poco lontana, un piccolo peschereccio con il quale in certi momenti solcavo il fiume. Flavio mi osservava e sorridendo mi diede la mano, e con quella stretta così vigorosa, compresi che la nostra amicizia non era stata intaccata dal tempo. Salii sulla mia barca e presi il largo. Flavio rimase ad osservare mentre mi allontanavo, e con la mano mi salutava. Il sole era già sorto, mi trovavo vicino alla sponda del fiume dove avevo calato una delle reti più grandi che possedevo, e vi trovai impigliata una grossa carpa e alcune tinche. Dopo qualche ora di lavoro decisi di lasciare ancora calate due reti, magari le avrei raccolte con Flavio se avesse voluto seguirmi l’indomani. Con molta calma raggiunsi la riva dove era ormeggiata l’altra barca. Portai la buona pescata che avevo fatto al mio amico oste che puntualmente mi pagò. Andai a casa soddisfatto perché avevo incontrato un caro amico. Raccontai a Elena che avevo rivisto Flavio con il quale avevo condiviso dei bei momenti nel periodo dell’infanzia. Quando eravamo piccoli, la felicità ci avvolgeva e non vi erano preoccupazioni di sorta. L’indomani sarei andato a pescare con lui negli stessi posti di una volta, vicino alla Villa Morosina, un luogo che mi era caro. In quella zona c’era il canale Zampagnon attraversato da un ponte costruito con delle vecchie pietre. Flavio era il mio compagno preferito, conosceva a dovizia i luoghi dove sicuramente la pesca sarebbe andata a buon fine. Inoltre, possedeva una grande qualità che credo avesse mantenuto nella vita: la tranquillità, una dote da attribuire anche allo sport della pesca. Il piccolo corso d’acqua era un luogo che non era stato intaccato dall’intervento distruttivo dell’uomo. Lungo gli argini si vedeva una lepre che correva veloce, magari temeva il cacciatore. Il giorno dopo di buon’ ora ci trovammo davanti a casa mia, il mio amico era arrivato in anticipo ed osservava il fiume, mentre le campane del paese annunciavano l’inizio della giornata. Il tempo era bello. Con le nostre canne passammo davanti all’osteria che era aperta, e approfittammo per berci un buon caffè. Ad accoglierci la moglie dell’oste, una persona che conoscevamo bene. All’interno del locale alcuni avventori ci guardarono con una certa curiosità. A piedi raggiungemmo Villa Morosina, incontrammo dei contadini che andavano al mercato, ed uno di loro si stupì che io, pescatore di professione, mi incamminassi con una canna di bambù. Lo stradone che ci conduceva alla nostra meta era di circa un chilometro, che percorremmo raccontandoci il nostro passato. Una volta raggiunto il posto, ci accorgemmo che vi stava ancora quell’albero dove ci mettevamo a pescare da bambini. Era diventato molto alto e con tante fronde; sembrava che ci avesse aspettato per tanti anni, come se fosse stato certo che avremmo desiderato sederci sotto la sua chioma. Il piccolo corso d’acqua era come sempre tranquillo. La villa Morosina, residenza estiva dei nobili veneziani, si presentava nella sua totale bellezza. In quella casa vi avevano abitato molte persone, si diceva che vi avesse pure soggiornato per qualche giorno anche il generale Garibaldi. Un vecchio del paese sosteneva d’aver trovato una lettera con la quale il generale ringraziava la famiglia per l’ospitalità ricevuta. Davanti alla villa sentimmo il latrato di un cane che dopo poco venne verso di noi. Il momento più bello fu quando calammo le nostre lenze, che trovarono una bella ospitalità tra i canneti. L’acqua non si muoveva, solo le rane si facevano sentire. Flavio si diceva emozionato, ritornavamo insieme dopo quindici anni. Le nostre strade si erano divise, ma il fiume ci faceva ancora una volta incontrare. Il tempo passava lentamente mentre parlavamo ancora dei tempi passati ed immaginavamo il nostro futuro. Flavio aveva ottenuto un posto di lavoro in una falegnameria a Motta di Livenza, dove abitava con la famiglia. Infatti, si era sposato e aveva dei figli. Parlammo della scuola che ci aveva visto spesso insieme, e della vecchia maestra che era salita al cielo. Le nostre canne erano immobili, in quel posto Flavio una volta aveva catturato una grossa carpa. Flavio era sempre stato più bravo di me nella pesca, aveva una tattica speciale e glielo avevo sempre riconosciuto. In quel momento il suo galleggiante incominciò a muoversi e si spostava verso la riva opposta. Flavio con uno strappo da maestro riuscì a catturare una carpa, non molto grande, ma di sicuro come primo pesce si poteva essere soddisfatti. Il mio galleggiante era immobile, ed iniziavo a scoraggiarmi. Ma dopo alcuni minuti la mia attenzione fu attratta dal mio sughero che scomparve e dopo uno sforzo non indifferente, riuscii a trascinare a riva una grande tinca. Una gioia grande si impadronì di me, mi sentivo talmente felice come se quello fosse il primo pesce catturato della mia vita. Ci mettemmo poi a parlare del libro scritto da M.K. Rawlings, Il cucciolo che avevamo letto a scuola e narrava di un ragazzo che un giorno con suo padre andò a pesca e riuscì a catturare un luccio di quasi cinque chili. La maestra ci aveva prestato questo libro affinché lo leggessimo e migliorassimo il nostro modo di scrivere. Quella cara insegnante ci aveva assegnato il compito di riassumere l’episodio che ci aveva emozionato di più. Entrambi avevamo descritto la cattura del grande luccio. Flavio tolse dalla sua sacca militare, che era appartenuta a suo padre, il quaderno che conteneva il riassunto sulla cattura di quel luccio e una parte dello stesso racconto che si mise a leggere. “Il sughero affondò come trascinato da un peso enorme che fece persino perdere l’equilibrio al pescatore novizio il quale puntò freneticamente i due piedi contro il suolo per resistere agli strattoni. Il babbo gridò:” Tien duro, figliolo. Non lasciare che si impigli nell’erbe. Tieni alta l’estremità della canna. Non mollare.” Jody, nello sforzo che faceva per resistere, temeva che la lenza si strappasse, ma non osava mollare di un centimetro, per paura di perdere la grossa preda. Si augurava che il babbo gli fornisse il magico consiglio che risultasse utile a renderlo miracolosamente padrone del bottino e a liberarlo dal tormento della sospensione. Il luccio evidentemente meditava la tattica di guizzare attorno all’isolotto per impigliare la lenza nei gambi delle foglie, neutralizzare così la tensione e liberarsi dall’amo. Jody si persuase che ritirandosi piano piano dal margine dell’acqua senza mai mollare la lenza, poteva tirare il pesce a poco a poco dove l’acqua era sempre meno fonda e togliergli la libertà dei movimenti e la possibilità di difendersi. Agì con la massima circospezione e riuscì nel suo intento. L’ultimo atto della sua impresa fu un energico strattone alla canna che coronò la sua conquista. Era un luccio che poteva pesare cinque chili. Il babbo lo raggiunse. “ Sono fiero di te. Nessuno avrebbe saputo fare meglio.” Dopo la lettura del racconto mi commossi come allora, non eravamo cambiati, anche se il tempo era passato. Quella mattina passò velocemente, catturammo alcuni pesci piuttosto piccoli, ma con i due più grandi dopo averli puliti nel canale, decidemmo di metterci a cucinarli. Sul fuoco con un bastone, a mò di spiedo, li cucinammo, li mangiammo dopo averli salati, e bevemmo l’acqua del canale che era limpida. Nel frattempo avevamo calato ancora le canne e con grande sorpresa catturai una carpa piuttosto grande che donai a Flavio quando ci lasciammo. Il pacifico canale aveva mantenuto la sua bellezza, l’albero era ancora più grande e la vecchia Villa Morosina quando la lasciammo era avvolta dalla nebbia come se fosse una casa lungo il fiume. Flavio ed io avevamo ritrovato i luoghi della nostra infanzia intatti come la nostra amicizia.

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