NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

martedì 6 ottobre 2020

Vittorio Emanuele III, il Re nella tempesta (1938-1946)


 

Fra il 1938 e il 1946 l'Italia visse anni convulsi. Il suo cammino proseguì per segmenti discontinui, a strappi. Il viaggio di Adolf Hitler a Firenze e a Roma nel maggio 1938 segnò la svolta. All'interno del Partito nazionale fascista si gonfiò la componente antimonarchica, sopita nel 1922-1924 ma mai spenta. Molti fascisti ritenevano che a concludere vittoriosamente l'impresa di Etiopia e a creare l'Impero non erano stati l'Italia e il Re ma Benito Mussolini. Per loro come in Germania anche in Italia il capo del governo e duce del fascismo doveva essere anche capo dello Stato. Il cinquantanovenne Vittorio Emanuele III, sul trono dall'assassinio del padre (29 luglio 1900) in pubblico appariva poco e da lontano: per convegni di storia e di scienze, manovre militari di terra e di mare ed esposizioni come la Fiera Campionaria di Milano, ove nel 1928 era stato bersaglio di un attentato che fece una strage. Mussolini, invece, amava e dominava piazze straripanti. I fasci da tempo affiancavano lo scudo sabaudo anche nelle insegne pubbliche. Ultimo baluardo della Monarchia rimase il tricolore. Il Re rifiutò che vi comparisse lo stemma di quello che da un decennio era il partito unico, base della fascistizzazione della società, sempre tramite leggi approvate dal Parlamento. Dal 1929 i deputati erano designati dal Gran Consiglio del fascismo e approvati dal 95% e più degli elettori. Altrettanto avveniva nell'URSS e in altri regimi totalitari, con la differenza che in Italia il potere supremo era nella persona del Re.

Dal 1931 i pubblici dipendenti, inclusi i docenti universitari giuravano non solo al Re ma anche al regime. Privo di sostegno anche da parte di esponenti della tradizione liberale, Vittorio Emanuele III non poté arginare la sterzate di Mussolini: le leggi razziali dell'autunno 1938 (su suggestione di quelle in vigore in Germania), la convergenza del fascismo criptorepubblicano con il nazionalsocialismo. La Germania hitleriana mirava a una guerra europea che l'Italia non era assolutamente in grado di affrontare. La conferenza di Monaco di Baviera (settembre 1938) che assegnò alla Germania la regione della Cecoslovacchia abitata prevalentemente da Sudeti (tedeschi del sud) fu l'ultimo tentativo di frenare la corsa verso il precipizio: l'aggressione di Germania e Unione Sovietica contro la Polonia e la conflagrazione europea (31 agosto 1939). Il 10 giugno 1940 l'Italia intervenne a fianco della Germania e condusse una “guerra parallela”, che si risolse in una serie di imprese niente affatto vitali per i suoi interessi storici, dall'aggressione alla Grecia (ottobre 1940) all'invio dell'Armata in Russia e di sconfitte strategiche. Quando da europea la guerra divenne mondiale (1941), Mussolini ne calcò le orme con la dichiarazione di guerra agli Stati Uniti d'America del tutto invulnerabili ad attacchi da parte dell'Italia e dalle forze colossali.

All'indomani dello sbarco anglo-americano in Sicilia e del bombardamento aereo “pedagogico” su Roma (luglio 1943), mentre partiti e movimenti antifascisti erano appena albeggianti e i principali gerarchi del regime miravano a restituire al sovrano l'esercizio dei poteri statutari senza però rimuovere Mussolini da capo del governo (è la sostanza dell'ordine del giorno Grandi-Bottai-Federzoni del 25 luglio) il Re recise il nodo gordiano. Sicuro del pieno sostegno delle Forze Armate, in un colloquio a quattr'occhi di pochi minuti revocò Mussolini da capo del governo e lo sostituì con il Maresciallo Pietro Badoglio, conosciuto e apprezzato anche a Londra e a Parigi e considerato garante della defascistizzazione.

La diarchia era nell'appariscenza (e rimase nella narrazione). Vittorio Emanuele III mostrò che l'Italia era una monarchia. Giunta l'ora esercitò i poteri statutari.

 

Nel volgere di un mese il nuovo governo ottenne l'armistizio (3 settembre, reso pubblico l'8) ma, sic stantibus rebus e mentre gli anglo-americani già stavano organizzando il futuro sbarco in Normandia, non poté evitare che il Paese divenisse campo di battaglia tra le Nazioni Unite e la Germania: le prime fiancheggiate dal Regno d'Italia(co-belligerante), l'altra dalla Repubblica sociale italiana, capeggiata da Mussolini dal  23 settembre sotto pressante tutela nazi-germanica. Nei due anni seguenti e soprattutto dal novembre 1944 al maggio 1945 gli italiani vissero i peggiori tempi della loro storia dall'unificazione del 1861. Alle dure condizioni del conflitto in corso e alle privazioni materiali (a cominciare dal razionamento degli alimenti fondamentali e dalla quotidiana esposizione agli effetti diretti e collaterali del conflitto, a cominciare dai pesantissimi bombardamenti aerei) si aggiunsero la deportazione in Germania dei soldati catturati dai tedeschi (classificati come Internati Militari: ne hanno scritto esaurientemente Mario Avagliano e Marco Palmieri nel saggio I militari italiani nei lager nazisti, Mondadori, finalista all'Acqui Storia 2020), degli ebrei (facili da individuare perché “schedati” dal 1938). Anche Mafalda di Savoia, figlia del Re e della Regina Elena, principessa d'Assia, venne internata sul margine del lager di Rawensbruck, ove morì, gravemente ferita durante un bombardamento americano sul campo e non curata.

Nell'agosto 1943 i rappresentanti di partiti antifascisti deliberarono di non collaborare con il governo Badoglio per far ricadere sulla monarchia il passivo della guerra: una decisione partitica, non patriottica. All'inizio di ottobre il Comitato centrale di liberazione nazionale costituito in Roma dichiarò di non riconoscere il governo. Il gennaio i CLN dell'Italia meridionale radunati a Bari chiesero che il re abdicasse. Benedetto Croce intervenne con veemenza contro Vittorio Emanuele III, al quale venne meno anche il sostegno di sincero di Badoglio, che mirava a sostituirlo assumendo la Reggenza, in forma non prevista dallo Statuto.

Enrico De Nicola, presidente della Camera all'avvento d Mussolini e senatore dal 1929, propose che il sovrano mantenesse la Corona ma ne trasferisse tutti i poteri, nessuno escluso ( a cominciare dal comando formale delle Forze Armate), al principe ereditario, Umberto quale Luogotenente del regno, carica prevista dallo Statuto. Il “passaggio”, ruvidamente imposto al sovrano dagli anglo-americani in aprile, venne formalizzato il 5 giugno, all'indomani della liberazione di Roma, senza però che né il Re né il Luogotenente fossero nella Capitale, come chiesto dal Re.

Il nuovo governo, presieduto da Ivanoe Bonomi, mirò a sua volta a oscurare il Re, che ricordava ogni minuto e ogni protagonista, e impose al Luogotenente che la futura forma dello Stato d'Italia venisse decisa dagli italiani. Il Decreto legge luogotenenziale del 25 giugno 1944 di fatto sospese lo Statuto e istituì una sorta di costituzione provvisoria.

Un anno dopo la fine della guerra in Italia (2 maggio 1945), segnata dalla dolorosa occupazione di territorio nazionale (Zara, Fiume, Istria, Trieste, Gorizia...) da parte della Jugoslavia di Tito, Vittorio Emanuele III abdicò e partì per l'Egitto, unico paese affacciato sul Mediterraneo non in guerra con l'Italia (9 maggio 1946). Il 2-3 giugno il referendum attribuì alla repubblica il 42% dei consensi del corpo elettorale (12.700.000 voti su 28.000.000 di elettori). Il presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, segretario della Democrazia Cristiana, pressato dai socialcomunisti (Togliatti, Nenni e Romita) e dal partito d'azione nei primi minuti del 13 giugno assunse le funzioni di Capo dello Stato. Per non aprire un conflitto armato, nel pomeriggio dello stesso giorno Umberto II lasciò l'Italia alla volta del Portogallo. Partì per l'estero senza abdicare, nella pienezza dei suoi diritti e senza riconoscere la vittoria della repubblica perché l'esito del referendum non era ancora ufficiale. Lo darebbe divenuto il 18, quando andò i stampa il n.1 della “Gazzetta Ufficiale della Repubblica”.

Incombeva il Trattato di pace, che risultò duramente punitivo e ingeneroso. Non riconobbe quanto promesso col Memorandum di Quebec dell'agosto 1943 e nell'“armistizio lungo” del 29 settembre 1943.

La Costituente deliberò che agli ex Re di Casa Savoia, alle loro consorti e ai loro discendenti maschi erano vietati l'ingresso e il soggiorno nel territorio nazionale e che i membri e i discendenti della Casa non fossero elettori né potessero ricoprire uffici pubblici e cariche elettive.

Tre giorni prima che la Costituzione entrasse in vigore, Vittorio Emanuele III morì ad Alessandria d'Egitto, ove aveva vissuto con la Regina Elena dedito agli studi e nella meditazione sulla Storia, che è fatta di idee, di istituzioni e di uomini. L'esilio di Umberto II non venne mai revocato. Morì a sua volta all'estero (Ginevra, 18 marzo 1983). Gli erano stati tolti i diritti di cittadino italiano ma nessuno aveva potuto privarlo della Corona, che aveva portato con sé.

Quel lunghissimo e tragico decennio è ancora in attesa di essere meglio conosciuto. All'indomani della guerra e del referendum molti di quanti lo vissero preferirono chiuderlo nella memoria personale. Ne parlarono poco anche in famiglia. Tanti ricordi erano troppo dolorosi. Anche profittando del loro silenzio, ne venne proposta una narrazione unilaterale, La figura del Re venne via via oscurata Vittorio Emanuele III, re per 46 anni, fu e continua a essere vituperato. Anche in libri (a volte più grossi che utili) e in articoletti nei quali viene detto “pavido”. Eppure era stato il solo a propugnare la resistenza dell'Italia dopo la sconfitta (non catastrofe) di Caporetto nell'incontro a Peschiera con gli alleati (8 novembre 1917). Lui a segnare ad attuare la svolta decisiva il 25 luglio 1943. Lui a premere e a indicare le vie per ottenere l'armistizio. Lui ad assicurare la continuità dello Stato nella lunga difficile ricostruzione dal trasferimento a Brindisi alla Riscossa. Certo era un sovrano scomodo, proprio perché sapeva e poteva guardare tutti negli occhi senza scomporsi, al più col lieve tremito del mento nelle emozioni supreme.

Non si ha traccia sicura di sue “Memorie”. In loro assenza tocca pertanto agli storici ricomporre il mosaico per ricostruite la complessità e drammaticità del suo lungo regno, tutt'uno con l'Italia. Di sicuro Vittorio Emanuele III di Savoia non fu mai razzista. Fu di vasta e solida cultura. Dopo averlo conosciuto Theodore Roosevelt disse che negli Stati Uniti d'America sarebbe stato sicuramente eletto presidente per larghezza di vedute e alto sentire. In Italia fu re costituzionale di uno Stato sorto dal Risorgimento, dalle guerre per l'indipendenza e per le libertà; ma non sempre fu assecondato dalla Camera eletta dai cittadini.        

Aldo A. Mola

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