Un Due Novembre sconcertante.
di Aldo A. Mola
L'unico “successo” del socialista Sánchez: la
rimozione di Franco
Francisco Franco y Bahamonde conterà meno
dopo la deportazione della sua salma dal Valle de los Caídos, dopo quasi mezzo
secolo di eterno riposo, e l'inumazione nella cappella del cimitero del Pardo a
Mingorrubio, accanto alla moglie Carmen Polo? Varrebbe di più se fosse stato
traslato nella cattedrale de la Almudena, nel cuore di Madrid, come chiesero i
suoi famigliari? Ovunque siano le sue spoglie mortali, “Generalísimo de los
Ejércitos” nazionalisti insorti il 18 luglio 1936 contro il governo
repubblicano, “Caudillo de España” e “Jefe del Estado”, comunque Franco è
entrato nella storia e rimane memorabile, come tutti i personaggi che hanno
segnato un'epoca. Piaccia o meno, egli è stato tra i protagonisti della storia
della Spagna dalla lunga guerra civile (1931-1939), nella seconda guerra
mondiale (1939-1945: si conta non solo quando si fa la guerra, ma anche quando
se ne sa star fuori) e dell'Europa nei decenni successivi, sino alle soglie
dell'ingresso nell'“Europa dei diciotto”. Lo storico non giudica: documenta i
fatti e lascia a ciascuno di valutare. Mentre imperversa la pretesa di
pronunciare condanne “morali” del passato, lo storico cerca di capire perché e
come siano accaduti i “fatti”. Tutti. Non parteggia. Contempla. Sunt lacrimae
rerum... Altre seguiranno.
L'attuale presidente del Consiglio spagnolo,
il socialista Pedro Sánchez, molto appagato dell'esteriorità, ha orchestrato
l'esumazione delle spoglie di Franco per alimentare uno psicodramma nazionale
alla vigilia delle imminenti elezioni del 10 novembre. A conti fatti, l'evento
ha suscitato più curiosità che appassionamento. Confidando in manifestazioni
che giustificassero chissà quali misure eccezionali, qualcuno si attendeva
dimostrazioni di nostalgici e di antifranchisti, rigurgiti di arcaici
conflitti. Invece, i cronisti, sempre pronti a planare come corvi sui “grandi
scontri di piazza”, risultarono più numerosi dei presenti e in specie dei 22
nipoti e pronipoti dell'estinto, avvolto nella “sua” bandiera e confortato
dalla messa funebre celebrata da padre Ramon Tejero, figlio del colonnello
Antonio, autore del fantasioso “golpe” che ormai si perde nella notte dei
secoli e rincalzò il trono di Juan Carlos I. La Spagna di Felipe VI è così
democratica che da anni ha un governo tanto minoritario quanto inconcludente.
L'espunzione di Franco dal Valle era una
antica pretesa dei socialisti (Rubalcaba, poi Zapatero) e fatta propria da
Sánchez perché il Caudillo non è un “caído”, non morì nella tragica guerra
civile tra i due “bandos”, i repubblicani e i nazionalisti, i rossi e gli
azzurri. Morì di morte naturale, persino “ritardata” per dare tempo
all'assestamento della macchina statuale in un paese ormai “normale”. Non solo,
secondo alcuni antifranchisti il suo nome suscita ancora nostalgia del regime
dittatoriale, tanto da rendere sospetto l'afflusso dei visitatori al monumentale
complesso funebre al cui centro sino al 24 ottobre 2019 la sua lapide tombale
recava scritto semplicemente “Francisco Franco”, come si conviene a chi ha
fatto la storia e lascia ai posteri l'ardua sentenza sulla sua opera.
Sánchez potrà ora dire di avercela fatta.
Capo di un governo di minoranza, costretto a tornare a terze elezioni senza
aver risolto nessuno dei problemi che assillano il Paese, dalla Catalogna alla
“Spagna profonda” dal cui humus escono i consensi per “Vox”, il partito
neo-nazionalista con profonde radici nel franchismo o più correttamente nella
storia millenaria del Paese iberico, con residuo senso dell'opportunità Sánchez
prova qualche imbarazzo a sventolare la traslazione del feretro del Caudillo
come successo storico. È un “successo” solo nel significato spagnolo del
termine: un accadimento, non un trionfo. Sarà giustizia? Sarà saggezza? Di
sicuro, esso è divisivo. È un tardivo “regolamento dei conti” all'interno di un
Paese che da decenni ha metabolizzato la guerra civile, ha faticosamente messo
alle spalle persino i delitti perpetrati dagli “etarras” e oggi deve fare i
conti con l'altra artificiosa piaga: il fanatismo indipendentistico di una metà
degli abitanti della Catalogna in libera uscita dalla storia: un separatismo
che non ha motivi etnici, religiosi, civili ma solo linguistici in un Paese,
come la Spagna, che riconosce le più ampie garanzie al bilinguismo (catalano e
gallego, a tacere ovviamente del basco) e alle “nuances” del catalano, come il
valenciano (del quale nessuno sente vera necessità).
Il ruolo attuale della Spagna per l'Europa
nel mondo
In pochi giorni dalla macabra sceneggiata, la
deportazione della salma di Franco è uscita dalle prime pagine dei quotidiani.
Los Reyes partono da Madrid alla volta di Cuba, un viaggio di Stato voluto dal
governo, non senza imbarazzo per chi osservi che il regime castrista sta
tornando rapidamente all'indietro, verso la repressione delle opposizioni e
delle poche ventilate aperture all'Occidente, mentre l'intera America latina è
sconvolta da insorgenze e conflitti, tensioni crescenti fra i discendenti dei
nativi sopravvissuti alla tabula rasa perpetrata dai conquistatori, creoli e
discendenti delle ondate migratorie dell'Otto-Novecento. Il “caso” del Messico
è il più emblematico: civilissimo in circoscritte plaghe, del tutto succubo
della produzione e spaccio di droghe in vaste zone, e sempre più indotto a
forzare il limes con gli USA, i cui Stati meridionali sono più ispanofoni che
anglofoni. In quella vastissima area la Spagna odierna, quella di Felipe VI e
della dirigenza “di Stato” che ha alle
spalle la Spagna “una, grande y libre” della Transizione, svolge un ruolo di
prim'ordine, di gran lunga superiore ai timidi passi del governo italiano che
per ministro degli Esteri ha Luigi Di Maio. La Spagna è lì, oltre Atlantico,
come anche nel mondo arabo, dal Marocco all'Arabia Saudita, e non da oggi. In
una famosa conferenza pan-americana Juan Carlos di Borbone azzittì ruvidamente
il petulante presidente venezuelano Chávez, predecessore del nefasto Maduro:
“Cállate”, “Taci!”. Per queste ragioni gli italiani consapevoli della debolezza
dal proprio governo e attenti al ruolo planetario ancora possibile per il
protagonismo dell'Europa franco-germanica e anglo-iberica hanno motivo di
guardare al di là delle cronache del monocolore socialista ancora per qualche
giorno imperante a Madrid e di sentirsi rappresentati anche dagli eredi di
Carlo V e di Filippo II di Asburgo, come poi di Filippo V di Borbone e dei suoi
successori sino, appunto, a Filippo VI e alla Principessa delle Asturie,
Leonor.
Carriera e fortuna di un generale prudente
Ma chi fu Francisco Franco, le cui spoglie
sono state al centro di una disputa ventennale? Non irruppe nel suo paese come
un meteorite da chissà quale cielo. Duramente sconfitta nel 1898 con la rivolta
di Cuba e delle Filippine, alimentata dagli Stati Uniti d'America che gliele
sottrassero accampando di volerle liberare dal giogo coloniale al quale
sostituirono il proprio, la Spagna precipitò in crisi d'identità. Ancora
ottant'anni prima dominava un impero che andava dal Messico alla Terra del
fuoco. Malgrado statisti di valore, come Sagasta e Cánovas del Castillo, era
l'ombra di se stessa. Lo sintetizzò Ángel Ganivet, suicida nelle acque della
Dwina, in “Ideario spagnolo”. Mentre Francia, Gran Bretagna e Germania
espandevano i loro imperi coloniali e persino il neonato regno d'Italia
annetteva Eritrea (1890), Somalia (1907) e Libia (1912), la Spagna era
umiliata, “invertebrata”. Rimasta saggiamente estranea alla Grande Guerra,
superò meglio di altri paesi l'estremismo anarchico di primo Novecento -
culminato nella “settimana tragica” e nella fucilazione pedagogica del
pedagogista Francisco Ferrer y Guardia, come ha documentato Fernando García Sanz
in opere magistrali - e le procelle postbelliche.
Nato a El Ferrol (Galizia) il 4 dicembre
1922, secondo dei cinque figli di Nicolás Franco, ufficiale di marina, e della
piissima María del Pilar Bahamonde, dal padre (che più tardi, si trasferì
solingo a Madrid e, senza divorziare, si unì ad Agustina Aldana) Francisco si
sentì sempre posposto al primogenito Nicolás e al minore, Ramón, massone,
repubblicano, rivoluzionario, aviatore provetto, caduto in circostanze tuttora
arcane, mentre suo cugino primo, Ricardo de la Puente Bahamonde, nel 1936 venne
fucilato tra gli ufficiali che rifiutarono di accodarsi a Francisco, “generale
ribelle”.
Formato nella Scuola militare di Toledo,
Franco si mise in luce nella guerra di conquista del Marocco e a soli 33 anni venne
nominato generale: il più giovane in Europa. Pietro Badoglio lo divenne a 46
anni. Ugo Cavallero, a sua volta, raggiunse quel grado quando ne aveva 39. Ma
il grado non basta a comandare gli eventi. Occorre la fortuna. Che spesso
(contrariamente a quanto recita il motto famoso) non aiuta gli audaci bensì i
prudenti.
Nel 1934 Franco impiegò sbrigative maniere
per reprimere l'insorgenza operaia nelle Asturie. Tre anni prima Alfonso XIII
aveva lasciato la Spagna, che subito registrò un'onda di anticlericalismo
violento, con incendi di chiese e altri eccessi documentati da Mario Arturo
Iannaccone in “Persecuzione. La repressione della Chiesa in Spagna fra seconda
repubblica e guerra civile, 1931-1939” (ed. Lindau). Nominato dal governo di
Madrid capo della Legione spagnola in Africa e comandante di tutte le forze
armate (gennaio-maggio 1935), Franco fu inizialmente riluttante ad aderire al
golpe progettato dal generale Emilio Mola y Vidal, laicista, niente affatto
massone, capo dei “requetés”, noto per doti di stratega e meticolosità. “Jefe”
dello Stato dell'alzamiento contro il governo di Madrid fu Jorge Sanjurjo,
morto per la caduta dell'areo che lo riportava dal Portogallo, ove era esule
dopo un fallito golpe. Dopo l'insurrezione, anche Mola morì in un incidente
aereo. Gli altri due generali, Queipo de Llano e Miguel Cabanellas Ferrer,
erano chiassosi ma politicamente irrilevanti.
Capo della Giunta di difesa nazionale, Franco
ebbe il sostegno delle Giunte dei “falangisti” capitanati da José Antonio Primo
de Rivera (un movimento nazionalista con venature progressiste), dei “requetés”
e di altre forze nettamente contrarie ai sovversivi, nonché (importanti ma non
decisivi) di Mussolini e di Hitler. Egli inoltre contò soprattutto
sull'appoggio fervido e pressoché unanime del clero cattolico, interno e
internazionale. Fallito (forse intenzionalmente ) l'assalto a Madrid (preferì
la più spettacolare e propagandistica “liberazione” di Toledo), Franco non ebbe
fretta di vincere. Gli storici sono ancora perplessi: incapacità strategica
militare o strategia politica?
Col passare dei mesi e degli anni in Spagna
all'interno dei due fronti in lotta presero corpo due opposti piani. A sinistra
i comunisti, eterodiretti dall'URSS di Stalin, eliminarono via via i
“dissidenti”: borghesi, democratici, semplici repubblicani, anarchici e
massoni. A destra Franco fece altrettanto. Mentre (come tardivamente ha ammesso
lo storico britannico Paul Preston) nel 1936 vi erano tre Spagne (rossi,
reazionari e democratici), dal 1938 ne rimasero due sole: i rossi e i
nazionalisti. Franco operò una metodica eliminazione fisica degli oppositori
della Spagna che aveva in mente: cattolica, concentrata nel culto della propria
identità. Scomparve quella europeista vaticinata da Miguel de Unamuno, da
massoni, liberali, socialisti democratici. Sin dal 1938, molto prima che
entrasse in Madrid (1 aprile 1939) e vi celebrasse la vittoria, Franco fu
riconosciuto da Parigi e da Londra.
Al potere annientò quanto rimaneva delle
opposizioni con misure durissime. Con lo
pseudonimo “J. Boor” scrisse articoli fanaticamente antimassonici e nel
1940 pubblicò la legge per la repressione del comunismo e della massoneria,
studiata da Juan José Morales Ruiz, autore del saggio esemplare “Palabras
asesinas” (ed. Masonica.Es). Però rifiutò di entrare in guerra a fianco di
Hitler (che invano lo “tentò” in un lungo inutile colloquio a Endaye) e di
Mussolini (che incontrò a Bordighera) e, passo dopo passo, si spostò
tacitamente a fianco della Gran Bretagna.
Dieci anni dopo Franco aprì la svolta: dal
falangismo ai tecnocrati dell'Opus Dei. La Spagna lentamente si riprese. Sotto la cappa
dell'ipocrisia normativa i costumi dei
suoi abitanti erano quelli di sempre, come scoprivano i turisti: “los toros” e
“el baile toda la noche”. D'altra parte dal 1953 essa ebbe il placet del
presidente degli USA, Eisenhower, e nel 1955 entrò nelle Nazioni Unite. Seguì
un ventennio di progresso. Franco finse di non sapere che le basi militari
americane avevano anche logge massoniche e che molti uomini del regime, come il
suo conterraneo Fraga Iribarne, frequentavano all'estero ambienti “illuminati”.
Il “dopo Franco” fu opera
sua
Alla morte, il 20 novembre 1975, la Spagna
non aveva più nulla a che vedere con quella della guerra civile. Erano anche
cacciate nel passato remoto le pretese dei “carlisti” e di altre frange. Sin
dal 1969, dopo aver ipotizzato l'instaurazione di Ottone d'Asburgo-Lorena per
superare il conflitto tra le fazioni borboniche, Franco proclamò re Juan Carlos
di Borbone, anteponendolo al padre, Juan, conte di Barcellona. Il 19 giugno
1974, gravemente malato, da Reggente l'antico Caudillo gli conferì l'esercizio
del potere, salvo riprenderlo appena ristabilito. Il “tirocinio” dette prova
positiva. La Spagna era pronta al cambio, malgrado l'assassinio del presidente
del governo, Luis Carrero Blanco, l'ETA e l'ostilità di chi ne avversava
l'ingresso in “Europa”, spacciando per difesa della democrazia l'esclusione dei
prodotti spagnoli ormai competitivi (e non solo agrumi, olio, formaggi,
salumi...).
Per questi motivi la valutazione storica di
Franco non si può ridurre alla sua azione di Caudillo durante e subito dopo la
guerra civile e prescinde comunque dall'ubicazione delle sue spoglie. Vale
altrettanto per Vittorio Emanuele III, re d'Italia per mezzo secolo. Anziché
disputare sulla tomba che 70 anni dopo la morte gli è stata assicurata in uno
degli 8.000 Comuni di cui fu sovrano, è meglio studiarne l'opera e capirne la
grandezza, la buona e la cattiva sorte, tutt'una con quella d'Italia. Ma lo
spirito di fazione e le conventicole spesso ancora prevalgono, perché, ricorda
Giovanni Evangelista, “gli uomini preferiscono le tenebre alla luce”.
Parce sepultis: Franco e José Antonio Primo de
Rivera
E ora? “Parce sepulto...”? Il brocardo non
significa affatto “perdona chi è morto”. Questa versione, benché usuale, è
errata e deviante rispetto a quanto volle dire Publio Virgilio Marone. È una
traduzione, più partenopea che italiana, riecheggiante il cinico motto: “Chi ha
avuto ha avuto, chi ha dato ha dato. Scordiamoci il passato, non pensiamoci
più”. Certo, quando la scrisse nell'Eneide il sommo poeta latino aveva alle
spalle mezzo secolo di guerre civili, da Mario e Silla, a Cesare e Pompeo, a
Ottaviano e Antonio, e quindi esortava alla pace interna affinché Roma potesse
assolvere la sua missione: “rispettare” (parcere) gli assoggettati e annientare
(debellare) gli irriducibili. Però con la formula “parce sepulto” non invitò
affatto a “perdonare i morti” (non ne hanno più bisogno) né a… dimenticarli
(vanno invece ricordati, anche se le loro ceneri sono disperse e magari gettate
in mare).
“Parce sepulto” significa “rispetta chi è
sepolto”. Esprime appieno il pensiero del Virgilio da Dante elevato a
precursore del Cristianesimo, di una pietas che affonda radici nell'omaggio ai
defunti. Tutti. Anche gli avversari caduti in battaglia in nome dell'onore alle
armi. Rispettare il sepolto è quanto, a prescindere da ogni giudizio di merito,
non ha fatto Pedro Sánchez. E questo rimarrà a ricordo della sua per ora
modesta prova politica. Ma v'è di peggio. Ora vorrebbe spostare anche la salma
di José Antonio Primo de Rivera, capo della Falange, perché, egli argomenta
cavillosamente, non è un “caduto” nella guerra civile ma una “vittima” della
guerra civile. Non morì in combattimento. E' vero. In effetti fu ammazzato
brutalmente dai “rossi” il 20 novembre 1936 nella piccola cella ove era
detenuto ad Alicante. In quel carcere non venne dunque consumato uno dei tanti
delitti della guerra civile? E José Antonio non è dunque un caduto di quel
tragico conflitto? Adesso che gli han tolto il “vicin suo grande” il pavimento
de los Caidos è disarmonico? E così la sua salma va spostata per la quinta o
sesta volta?
La storia non è una schermaglia linguistica.
Gronda sangue. Non va neppure sottoposta a commissioni parlamentari. Lasciamola
agli studiosi e alla coscienza degli uomini liberi da pregiudizi. Una
valutazione sintetica di Franco fu anticipata da papa Pio XII quando gli
conferì l'Ordine supremo di Cristo (1953): un onore impegnativo sia per chi lo
decretò, sia per chi ne beneficiò. Un “successo” dal quale non può prescindere
il giudizio complessivo sul Caudillo e sulla sua epoca: in Spagna camminò nel
solco del “rey prudente”, Filippo II, quello della “limpieza de sangre”. Se
durò quarant'anni al potere vuol dire che non fece tutto da solo. Ovunque
giaccia la sua salma, va studiato. Al di là delle “emozioni”, è Storia.
Aldo A. Mola