Lettera di S.A.R. la Principessa Maria Gabriella pubblicata su Il Giornale di oggi.
Le preoccupazioni della Principessa le avevamo già espresse diverso tempo fa.
Se l'Italia della repubblica non riconosce la naturale destinazione del Pantheon, aggiungiamo noi, si riuniscano le salme dei Sovrani ad Hautecombe.
Ringraziamo dal profondo del cuore la Principessa per l'iniziativa.
Risposta di Granzotto
Trasmettiamo il suo appello al Presidente Sergio Mattarella, gentile Principessa, certi che da risoluto e generoso rappresentate dell'unità nazionale qual è, non ne resterà sordo.
D'altronde quello che lei chiede è un atto di carità, di rispetto e di giustizia: Vittorio Emanuele III lasciò l'Italia senza che ne fosse obbligato da una ordinanza di esilio (lo stesso può dirsi, del resto, per Umberto II). Quattro ore dopo aver abdicato era già a bordo del Duca degli Abruzzi diretto verso l'Egitto. Re Farouk gli aveva offerto ospitalità nel suo palazzo di Qubbè Sarayi, al Cairo, ma Vittorio Emanuele, anzi il conte di Pollenzo, la sua nuova identità, scelse per sé e per la moglie Elena una anonima villetta a Shuma, sobborgo di Alessandria d'Egitto.
Partito con le tasche vuote, senza poter accedere al patrimonio personale - che con la XIII Disposizione finale della Costituzione lo Stato avrebbe poi avocato a sé - poté contare solo sulla generosità del monarca egiziano. Conducendo una vita ritirata, passeggiando, ricevendo i parenti che saltuariamente gli facevano visita, leggendo, pescando lungo il Delta.
Morì il 28 dicembre del 1947, il giorno seguente alla promulgazione della Costituzione repubblicana. Essendo esclusa la possibilità di seppellirlo in Italia, rifiutata l'offerta di Farouk per una sontuosa cappella nel cimitero latino, la Regina Elena, non smentendo la sua inclinazione per la semplicità e la riservatezza, scelse la piccola chiesa di Santa Caterina ad Alessandria d'Egitto, dove la salma fu tumulata dietro l'altare maggiore, in un loculo sovrastato dalla scritta: «Vittorio Emanuele di Savoia 1869-1947».
Elena morì qualche anno dopo, nel novembre del 1952. Affetta da un tumore si era da poco trasferita a Montpellier, in Francia, per affidarsi alle cure del professor Lamarque, nel quale riponeva le sue ultime speranze. In quella città fu molto amata - une grande dame discrète, così la ricordano - perché col poco che disponeva prese subito a dedicarsi ad opere caritatevoli, a far del bene al prossimo, virtù che era nella sua natura. I montpelliérains glie ne furono sempre riconoscenti.
Quando morì, l'intera città francese partecipò alle esequie e le dedicò un viale al cui imbocco posero un suo busto marmoreo.
«L'Italia è il solo Paese al mondo nel quale non potrei entrare per deporre un fiore sulla tomba dei miei genitori, ma continuerò a battermi perché possano riposarvi: quel che accadrà a me non ha importanza», ebbe a rammaricarsi da Cascais Umberto II. In verità qualcosa parve muoversi quando il governo Andreotti sembrò prendere in considerazione l'ipotesi di una traslazione delle salme (anche quella di Elena cadeva sotto i vincoli della XIII Disposizione), ma alla fine non se ne fece nulla. Elena riposa a Montpellier, Vittorio Emanuele in una tomba malamente coperta da un groviglio di impolverati fiori di plastica, dimenticata dietro all'altare di Santa Caterina. Ed è ora, questo è l'appello rivolto al Capo dello Stato, che quelle spoglie tornino in Italia. Le spoglie di una donna la cui colpa risiederebbe nell'essersi unita in matrimonio a un Savoia. Di un uomo che agli inizi del secolo scorso favorì la svolta democratica di Giolitti, che per aver trascorso al fronte gli anni della Grande Guerra si meritò il titolo di Re Soldato, che congedò Mussolini col quale collaborò, certo, ma da monarca costituzionale fedele alle leggi, sostenendo di avere nelle Camere, come puntigliosamente soleva ripetere, «i miei occhi e le mie orecchie». E che comunque, in ogni modo, nel bene o nel male è un capitolo della storia d'Italia, della nostra storia.
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