giovedì 31 dicembre 2015
31 Dicembre
Siamo innamorati di Giovannino Guareschi.
E non siamo gli unici.
Grazie a Francesco Maurizio Di Giovine!
Auguri, amici!
martedì 29 dicembre 2015
Primo Carnera e il Re Umberto II
di Emilio del Bel Belluz
Un giorno Primo Carnera e
sua moglie si trovavano alla stazione ferroviaria di Venezia e da lì
dovevano partire per Roma. La guerra non era ancora finita. Su un altro treno
passava il principe Umberto e si accorse che tra quella gente vi era
il grande campione del mondo dei pesi massimi Primo Carnera.
Il pugile emergeva
con la sua figura imponente, era alto almeno due metri ed aveva un fisico da
gladiatore. Il campione di Sequals, da qualche anno, aveva appeso i guantoni al
chiodo, perché durante il periodo bellico non venivano organizzati incontri di
boxe di grande rilievo.
Dal libro dedicato al pugile Primo Carnera “
Mio padre Primo Carnera “ ho tratto questo emozionante racconto scritto dalla
figlia Maria Giovanna:” Il principe ha fatto fermare il treno ed è sceso per
andargli a stringere la mano. Il futuro Re d’Italia a Carnera!
La mamma era
incinta di qualche mese. Con la presenza di spirito che la
contraddistingueva ha chiesto:“ Maestà, se nascerà un ragazzo ci
permettete di chiamarlo Umberto?”. La risposta è stata:” Senz’altro, per me
sarebbe un onore “.
E’ stato un incontro consumatosi in pochi
attimi, ma di cui papà ci raccontava sempre con emozione. … “ Con i reali si è
poi creato un legame affettivo duraturo, andato oltre il tramonto della Monarchia
in Italia. Quando Umberto è nato la Casa Reale ha mandato in regalo un paio di
guantini in pelle, con lo stemma dei Savoia, che la mamma ha conservato
tanti anni come ricordo.
Abbiamo ricevuto telegrammi di Umberto II
quando Giovanna Maria si è sposata e quando papà è morto. Inoltre, tanti anni
dopo quell’incontro alla stazione, l’ex Re ormai in esilio è
capitato per un viaggio a Los Angeles. Sapeva che noi vivevamo lì, è venuto a
trovarci e quando è entrato dalla porta la prima cosa che ha chiesto è stata:
“Dove è il mio Umberto?”. Di quella promessa fatta dalla mamma non
si era dimenticato neppure lui”. Il 22 maggio 1967, nel momento in cui il
campione ritornava in Italia gravemente ammalato, il Ministro Lucifero, per incarico del Re, gli scrisse una lettera
molto commovente.
“Caro Carnera, Sua Maestà il Re, che ricorda di avere avuto
il piacere di incontrarla a Los Angeles nel novembre 1963, desidera farle
giungere il suo saluto augurale, affettuoso e amichevole nel momento in cui
ella torna in Patria. A lei che ha dato all’Italia per primo il massimo alloro
mondiale e che è circondato dall’ammirazione e dalla simpatia di tutti, Sua
Maestà si è compiaciuto darle la tangibile attestazione del Suo Alto
apprezzamento e lei ne riceverà partecipazione ufficiale, mentre augura di cuore
che le sue condizioni di salute si ristabiliscano completamente, nella quiete
del paese natale. Il Re Umberto l’abbraccia bene augurando e saluta
cordialmente la gentile signora Pina. Da me, che ho avuto pure la fortuna di
incontrarla a Los Angeles, voglia accogliere, con la gentile
Consorte, gli auguri e i saluti migliori.
Al Comm. Primo Carnera- Sequals-
Udine. Falcone Lucifero.
Credo che il Re abbia amato Primo, che per
primo e unico, onorò l’Italia con la conquista di un titolo mondiale nelle
categoria regina quella dei pesi massimi, e durante l’incontro molte bandiere
Sabaude sventolavano prima e dopo il massimo trionfo. Alla fine del match,
Primo alzò al cielo la bandiera Sabauda, dando l’impressione di
volerlo toccare.
Alcuni anni fa, venne prodotto un ottimo film sulla vita di
Carnera e nella scena per l’incontro per il titolo mondiale, vi erano delle
bandiere sabaude, ma c’era pure una bandiera senza lo stemma che sventolava, e
questa bandiera non aveva verità storica. Nessuno ha mai potuto togliere la
gioia che Primo creò nella sua patria.
Gli italiani residenti
in America avranno, di sicuro, sventolato il tricolore
del Re ed esposto delle proprie case la bandiera della loro patria lontana. La
nostalgia per la propria terra lontana sarà stata mitigata dal successo del
loro compaesano.
Il Re Umberto stimava quel gigante dal cuore d’oro e dalle
mani d’acciaio. Spesso mi capita di vedere delle
ricostruzione storiche dove volutamente si omette di collocare la
bandiera del Re. Ho avuto occasione di sfogliare molti libri delle classi
elementari degli anni cinquanta e quando ricordavano la terra d’Italia nella
Grande Guerra veniva riportata la bandiera senza lo stemma Sabaudo.
Non si deve
accettare mai la verità mistificata che
gli storici hanno scritto con la penna rossa. Carnera quando tornò in Italia fu
accolto da ali di folla. Solo un mese dopo, il 29 giugno 1967, a trentatré anni
dalla conquista del titolo mondiale, il gigante si spense a Sequals, il paese
dove era nato sessantun anni prima.
Anche Re Umberto
avrebbe ardentemente sperato di poter morire nel Paese dove era
nato, ma non gli fu mai permesso di tornare nella sua patria. Morendo pronunciò
l’unica parola che aveva nel cuore e che rappresentava il suo ultimo desiderio
:” Italia”.
sabato 26 dicembre 2015
UNA STORIA DI NATALE.
di Francesco Maurizio Di Giovine
Cari Amici che mi seguite sulle pagine di questo gruppo e date il vostro gradimento scrivendo "mi piace".
Cari Amici che mi seguite sulle pagine di questo gruppo e date il vostro gradimento scrivendo "mi piace".
Ricorrendo il Santo Natale ho pensato a Voi e, per ringraziarvi, voglio raccontare un fatto accaduto più di trenta anni or sono. Quel fatto, per me, trascende l'aneddotica potendo entrare nel patrimonio ideale di una generazione di giovani che ebbero la fortuna di militare nel F.M.G. .
Era pomeriggio del Venerdì 18 marzo del 1983. Ero in casa e la radio accesa mi faceva compagnia. Il Giornale Radio annunciò la morte, in una clinica svizzera, dell'ultimo Re d'Italia.
La notizia non mi colse di sorpresa. Sapevo che il Re stava male. Ma l'annuncio della sua morte mi diede tanta sofferenza.
Improvvisamente squillò il telefono. Dall'altra parte una voce rotta dall'emozione disse: "Maurizio, hai saputo?" Risposi tristemente di si.
Era un vecchio maresciallo dell'Arma, mio buon amico, che giovanissimo, aggregato al Reggimento Cavalleggeri di Alessandria,si era guadagnato una Croce di Guerra al Valor Militare comportandosi da eroe nell'ultima carica della Cavalleria Italiana, a Poloi, nell'ottobre del 1942.
In serata ebbi dei contatti con l'Istituto Nazionale delle Guardie Al Pantheon, di cui facevo parte, accettando di essere della pattuglia che avrebbe vegliato il Re sino alla sepoltura. Il giorno seguente, sabato, dopo mezzogiorno, partii in auto per Altacomba assieme al mio amico, dott. A. C., anch'egli Guardia d'Onore.
Cominciava ad imbrunire quando giungemmo al passo del Frejus. Avevamo scelto quel transito perchè temevamo di incontrare la neve percorrendo la Valle d'Aosta.
Ci fermammo al posto di dogana della frontiera dove ci venne incontro un giovane carabiniere che ci chiese i documenti.
Li consegnammo prontamente ed il milite, piegandosi verso il finestrino, ci chiese dove eravamo diretti. In quel momento sfogai tutta l'aggressività che avevo dentro e che era andata crescendo durante il viaggio conversando con il mio amico di bordo. Risposi con tono fermo, quasi ad alta voce, proprio per affermare un concetto che non ammetteva equivoci: "Andiamo ai funerali del Re d'Italia!".
Il giovane carabiniere non fiatò. Si avviò, portando con sé i documenti, verso la stazione di comando, situata al margine della strada. Dal finestrino dell'auto osservammo la scena grazie alla spaziosa vetrata, ma non potemmo ascoltare la conversazione.
Intanto cominciai a provare un certo rimorso per la temerarietà osata. Pensammo che, forse, le mie parole avrebbero pregiudicato il proseguimento del viaggio. Probabilmente ci avrebbero trattenuto con cavilli pretestuosi.
Il tempo trascorreva ed il pessimismo si impadroniva di noi. Con questo stato d'animo addosso continuammo ad osservare quel che accadeva nella piccola caserma di frontiera. Il carabiniere confabulava con un brigadiere che, ora, aveva in mano i nostri documenti e li scrutava con attenzione.
Poco dopo vedemmo uscire da una porta il maresciallo comandante la stazione il quale, dopo aver ascoltato i suoi due dipendenti, prese in mano i nostri documenti e ci venne incontro.
Ci preparammo al peggio.
Camminava lentamente e si diresse verso il mio finestrino. il vetro dello sportello era abbassato. Appena giunto, si curvò verso di me, consegnandomi i documenti.
A questo punto, dopo un silenzio che parve durare un'eternità, finalmente parlò e mi disse: "Quando sarete davanti alla salma del Re, portate il riverente saluto di un maresciallo dell'Arma".
Fu un attimo. Lo guardai in viso e mi accorsi che aveva gli occhi lucidi. Improvvisamente si alzò. Si mise sugli attenti e portò il palmo destro della mano aperta alla visiera.
Capii che non salutava me, ma il Re. Il nostro Re. Il suo Re!.
Risposi: "sarà fatto" e ripartimmo verso la Savoia con un groppo in gola. Buon Natale carissimi amici.
dal gruppo facebook Monarchia Oggi
venerdì 25 dicembre 2015
Vercelli: Inaugurazione epigrafe dedicata a Umberto II Re d’Italia
Istituto Nazionale per la Guardia d’Onore alle Reali Tombe
del Pantheon
DELEGAZIONE
PROVINCIALE DI NOVARA
Via
R.Sanzio,9 – 28068 Romentino (NO) Tel. 0321-867235 Cell. 346-8345183 Mail marco.lovison1981@libero.it
Lunedì 28 dicembre 2015 - Città di VERCELLI
INVITO - INAUGURAZIONE TARGA - “S.M. UMBERTO II RE D’ITALIA”
Programma:
Ore 15,00 - Ritrovo presso il Municipio di Vercelli
Piazza del Municipio, 5
Deposizione corone dall’Alloro ai Caduti di tutte le Guerre
Visita presso la gli
uffici del Municipio, ove sono esposti cimeli Risorgimentali, Ritratti Sabaudi,
e Bandiere del Regno d’Italia
segue il corteo
Arrivo presso la
Confraternita di Sant’Anna – Via Fratelli Ponti, 9
Ore 16,00 –
Inaugurazione Targa con epigrafe dedicata a S.M. Umberto II Re d’Italia
da parte del Delegato
Provinciale e dal Sindaco di Vercelli, D.ssa Maura Forte
Segue Benedizione
Sempre il Delegato
Provinciale, donerà al Sindaco la Bandiera Storica del Regno Italia e un
quaderno, contenente testimonianze del Regno di
Re Vittorio Emanuele III e Re Umberto II
Segue Santa Messa In
suffragio di:
TUTTI I CADUTI DELLA
PRIMA GUERRA MONDIALE NEL CENTENARIO DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE
Re Vittorio Emanuele
III
Regina Elena
Celebrante: Assistente
Spirituale delle delegazioni Comm. Can. Mons. Gian Luca Gonzino
Le Associazioni
Combattentistiche e d’Arma, sono pregate di partecipare con bandiera e/o
Labaro, i simpatizzanti possono manifestare questa condivisione con il
Tricolore
Il Delegato Provinciale Marco Lovison
giovedì 24 dicembre 2015
Un Natale del Re Umberto II
Molto spesso il mio pensiero va al ricordo di Re Umberto II.
Una volta è avvenuto osservando una foto del 1946 che lo raffigurava assieme ai suoi figli in Esilio. Stavano guardando con curiosità un pescatore, che seduto in vicinanza del mare, riparava con vera maestria la sua rete.
Forse il Re voleva che i suoi figli osservassero il lavoro di questo semplice pescatore. Le persone umili trovavano accoglienza nel cuore del sovrano.
Molto spesso, il sovrano faceva proprie le difficoltà economiche di questi uomini di mare. Re Umberto II si intratteneva a parlare con loro, cercando di instaurare dei rapporti umani che mitigassero la sua immensa solitudine e la grande nostalgia per la sua cara Italia, che lo accompagnò fino alla morte.
Questo Re aveva scelto di abbandonare il suo Paese per evitare che, in seguito all'esito del referendum si potesse prospettare uno scenario di guerra civile. La fede che non lo abbandonava mai gli è stata di grande aiuto per sopportare tutto questo.
I pescatori che incontrava erano delle persone povere che possedevano solo la piccola barca, le reti per pescare e una casa molto modesta per rifugiarsi al rientro dal lavoro. Anche loro contraccambiavano l’affetto di Re Umberto II, lo vedevano con il volto disegnato dalla malinconia, ma con la volontà di sorridere; lo stesso sorriso che aveva nonostante la grande tristezza nel cuore quando salutò dal portellone dell’aereo prima di abbandonare per sempre la sua amata patria. Il suo primo Natale d’esilio l’aveva trascorso con la sua famiglia: la Regina e i suoi amati figli.
Li immaginavo seduti attorno al caminetto il presepe allestito in un angolo del salone con le statuine acquistate in quel paese di pescatori. E lì accanto vi era pure l’angolo dei doni che i suoi figli più tardi avrebbero scartato con tanta felicità. Mille pensieri tormentavano la sua mente, un piccolo palpito di gioia proveniva dalla lettura dei tanti messaggi e lettere di auguri provenienti da tutte le parti d’ Italia.
Tutto ciò faceva comprendere che in Italia non lo avevano in nessun modo dimenticato.
Lo immaginavo con la sua famiglia che si avviava verso la piccola chiesa del villaggio per assistere alla Santa Messa di mezzanotte, la prima che trascorreva lontano dalla patria. Il sovrano alla sua uscita si fermava per stringere le mani e per scambiare gli auguri con gli altri fedeli. Il Re era molto cattolico e ricordo delle foto che all’uscita dalla chiesa molti si avvicinavano per chiedergli degli aiuti economici, soprattutto le vedove dei pescatori. La miseria bussava in quelle case modeste e si faceva sentire di più nei giorni di festa. Lo spirito caritatevole del sovrano era stato forse ereditato dalla madre, la Regina Elena che elargiva tutto quello che poteva ai poveri.
Questo spirito di carità veniva manifestato dalla Regina. A Montpellier dove si era ritirata a vivere dopo la morte del marito. Si intratteneva volentieri a parlare con le donne italiane per lo più erano donne al servizio di qualche famiglia benestante. Sono venuto a conoscenza di questi episodi grazie alla testimonianza di una mia conoscente di Rivarotta che si era recata in Francia a lavorare.
Alcuni anni fa leggevo da un libro l’episodio in cui l’autore raccontava del dono fatto del Re Umberto II ad un pescatore: una barca nuova di cui era molto fiero. In esilio tutti lo chiamavano con rispetto: “Re d’Italia”. I natali successivi al primo il sovrano li aveva trascorsi da solo, raramente in compagnia di qualche italiano che si era recato a Cascais. Ho immaginato il Re che una volta era stato invitato a passare il Natale in una famiglia di pescatori.
Li ho visti seduti attorno ad un tavolo imbandito con delle pietanze molto semplici ed illuminato da una candela e nei loro cuori albergava una grande umanità. Il Re si sarà commosso davanti a tanto calore ed affetto ed avrà dimenticato per quella sera la tristezza della lontananza. Aldo Fabrizi in una sua poesia descriveva la sua malinconia nel non poter invitare il sovrano a casa sua a mangiare.
Chissà quanti natali il Re avrà osservato dal terrazzo della sua casa di fronte al mare e avrà lasciato andare il suo saluto per l’Italia alle sue onde.
Quanto bene avrebbe fatto al Paese se solo avesse potuto restare a governarlo.
mercoledì 23 dicembre 2015
Aggiornato il sito dedicato a Re Umberto II
Hitler e Casa Savoia, nella XIV parte dell'intervista di Nino Bolla, del 1949.
Buona lettura e Buon Natale!
www.reumberto.it
Buona lettura e Buon Natale!
www.reumberto.it
A Bardonecchia si scopriranno le virtù dei Savoia
In Biblioteca il 26 dicembre l’autore Dino Ramella
BARDONECCHIA – Il pomeriggio del 26 dicembre in Biblioteca sarà dedicato alla Casa Savoia. Alle 16,30 Dino Ramella presenterà il suo libro “Ritratti Sabaudi, vizi e virtù di Casa Savoia”, edito nel 2008 da Edizioni Ananke. Il testo ripercorre la vita di Re, Regine, Principi e Principesse di Casa Savoia dal 1713, anno di acquisizione del titolo reale del casato, sino ai giorni nostri, un vero e proprio album fotografico, narrante non la storia dei personaggi,ma i personaggi stessi.Testi e immagini, molte delle quali inedite, si alternano nel racconto dei vizi, delle virtù, degli aneddoti e delle curiosità, delle abitudini e dei retroscena amorosi legati a ciascun personaggio, in un linguaggio scorrevole e semplice, adatto ad ogni tipo di lettore. Il libro si compone di dieci capitoli, ciascuno dei quali affronta un periodo storico preciso dei tre secoli trattati. Studioso e appassionato storico di Casa Savoia, l’autore non solo si soffermerà sul libro citato, ma accennerà anche al suo secondo libro pubblicato nel settembre 2011 “Amori e selvaggina vita privata di Vittorio Emanuele II” , in occasione del 150° dell’Unità d’Italia, e ai personaggi che hanno soggiornato a Bardonecchia, quale località di vacanza invernale e estiva.
martedì 22 dicembre 2015
IL BILANCIO DEL 2015: MISERIA E NOBILTA’
Riceviamo e pubblichiamo volentierissimo questo articolo. Impossibile non condividerne i contenuti.
Per
chi abbia vissuto
la vita dei
movimenti monarchici, se non dall'origine, perché oggi dovrebbe
avere oltre 90
anni, almeno da qualche
decennio, sa che gli
stessi non hanno
mai nuotato nell'oro, salvo un
breve periodo, dal 1954
al 1958, quando Achille
Lauro, uscito dal Partito
Nazionale Monarchico e
fondato il Partito
Monarchico Popolare, cercava di
imporre questa nuova
sigla, aprendo sezioni,
stampando manifesti, organizzando manifestazioni di
massa, ottenendo risultati elettorali
senza dubbio notevoli
nelle Elezioni Regionali
Sarde e più
ancora nelle Elezioni
Comunali a Napoli, raggiungendo la
maggioranza assoluta di
voti e di
seggi.
Per
il resto scarsa
la stampa quotidiana, scomparsa “Italia
Nuova”, che aveva combattuto la battaglia
del “referendum”, è esistito
il “Corriere della Nazione”, organo del
PNM, ed il “Roma”, strettamente legato
a Lauro . Quanto a
periodici, molti i settimanali, tra cui
“Italia Monarchica” anch’essa
organo del PNM, ”Italia
Sabauda”, ”Tribuna Monarchica”,
a titolo
indicativo, ma non esaustivo, e
poi “IL Regno”, epoca
PDIUM, ma pochi o nessuno di
questi nelle edicole, per
lo più mandati
ad iscritti, ed abbonati , praticamente un circolo
chiuso.
Al
di fuori dei
partiti e dell’ Unione Monarchica Italiana, quanto a
giornali , possiamo
ricordare prima del
1953 , “Governo”, di Roberto Cantalupo, e
dal 1945 , il
“Candido” di Guareschi, che dopo essersi
battuto per la
Monarchia nel “referendum”,
del 1946, nel 1953
fece una vera e propria
campagna elettorale per
“Stella e Corona”, dai
vertici della quale non ebbe
parole di gratitudine. Poi qualche
tentativo culturale, tipo la rivista
“Monarchia” e il mensile “Critica Monarchica”, limitati a
pochi numeri e
pochi anni, qualche
“Quaderno”, edito dal F.M.G., sempre riservato
agli iscritti, che in
molti casi nemmeno
li leggevano.
Arriva il
1972. Scompare il PDIUM , gli
esponenti contrari all'ingresso
nel MSI, fondano l’ Alleanza
Monarchica, hanno uno slancio
iniziale, ma la drammatica
mancanza di fondi
riduce questo movimento, pur ricco
di persone culturalmente valide, alla presenza di un periodico mensile di
indubbio valore storico e politico, ma anch'esso
limitato nella diffusione. Manca una
vera Agenzia quotidiana
di stampa, anche se
nominalmente ve ne è
una ancor oggi, diventata
un periodico, ma che
è nel nome
erede di una
vera agenzia.
Passano i
decenni, le file si assottigliano, anche se
per germinazione spontanea, nascono diversi
giovani preparati che
fanno sperare nell'avvenire.
La
vera cultura però
sempre latita, per cui
è mancato un
approfondimento storico e
politico dell’azione e del
significato della Monarchia
unificatrice, pur avendo avuto
ancora viventi, fino agli
anni ’60 del
secolo scorso, grandi
storici lasciati però
ai margini della
vita associativa del
partito monarchico.
Un solo
circolo culturale a
Roma, attivo ininterrottamente
da decenni, che per
mancanza di mezzi non
ha mai potuto
espandersi in altre
città, né pubblicare metodicamente, ma solo
saltuariamente, le centinaia e
centinaia di conferenze
tenute, tutte di altissimo
livello, quando il Ministro
della Real Casa, Collari
dell’ Annunziata, Presidenti e
Segretari Generali di
partiti e di associazioni
nazionali, senatori e deputati, rettori e
professori d’Università, si ritenevano
onorati di partecipare
e presenziare alla
vita ed alle attività
del circolo.
Il
mondo monarchico, nella sua
storia ha sempre
visto, purtroppo, scissioni
e polemiche interne, di
carattere personale,
eccettuato solo il
1953 e se
ne videro i risultati positivi, polemiche e
scissioni sulle quali
la stampa non
era avara di
notizie , ma vi era , fino
al 1972, un “materiale”
umano, di tutto rispetto
per cui esistevano
Consiglieri Comunali, Provinciali
, Regionali e Parlamentari, che oggi
non esistono più.
Qualcuno potrebbe
obbiettare: però ci sono
le cerimonie religiose! Nulla in
contrario perché anche
questo tipo di
celebrazione e di
ricordo è necessario
e le preghiere
per le anime
dei nostri morti
salgono verso l’ Onnipotente, ma senza
offesa “Con preghiere non
si reggono gli
Stati”, né si fa
propaganda politica. Nel migliore
dei casi, se vi
è un folto
pubblico, il che è
sempre più raro, possono
essere propedeutiche ad
altre più concrete
attività.
Però ci
sono cerimonie seguite
da raduni gastronomici! Anche questi
sono necessari per
nutrire il corpo, conoscersi, affiatarsi, sempre però
che non siano
fini a sé
stesse, e se gli
stessi partecipanti, presenziassero e
si attivassero in
altre più concrete
attività.
Però ci
sono opere di beneficenza! Anche queste sono
attività nobili ed
opportune, se venissero
conosciute, come lo erano
quelle effettuate in nome
del Re Umberto
II, che ebbero qualche risalto
giornalistico, e divenissero anche queste
propedeutiche ad altre
attività, diversamente concrete.
Invece è
passato il 150°
del Regno d’ Italia, gabellato per
Unità d’Italia, pur di
non parlare di Re,
di Casa
Savoia e di
Monarchia, ed ora sta
passando il centenario
della Grande Guerra, ma
le iniziative dei
monarchici sono state
scarse , se si eccettua
una bella mostra itinerante
per tutta l’ Italia, predisposta dall’ Istituto delle Guardie
alle Reali Tombe
nel Pantheon, e non
si è tenuto
conto che erano
le sole ed
ultime ricorrenze in
cui far risaltare
il ruolo positivo avuto
dalla Monarchia Sabauda, che
è l’unica e
sola a cui
gli italiani debbano
qualcosa! Gioacchino Volpe scrisse
una volta che
“Se molto l’Italia
aveva dato a
Casa Savoia , molto di più aveva dato
Casa Savoia, all’Italia”, frase che andrebbe
corretta in quanto
da anni nulla
ha più dato
la repubblica a
Casa Savoia, se non l’
abrogazione, dopo decenni, di un
antistorico ed incivile
esilio, che impedì al
Re di chiudere
gli occhi nella
sua terra natia.
E’
pessimismo tutto questo?
No, è realismo. Se è
lecito il paragone, molti
sono gli scribi
ed i farisei
che vegetano nel
campo monarchico, attenti alla
lettera, ma non allo
spirito della monarchia
italiana, così come uscita
dal Risorgimento, fautrice di libertà civile
e progresso sociale. Ma
anche questo è premessa
o giustificazione per
abbandonare la battaglia? No, è
coscienza e presa
d’atto degli errori
commessi ,per non ripeterli. E’
capire che se
anche un insieme
di circostanze fa
marciare oggi divisi
con dispersione delle
attuali scarse forze, uniti
si può colpire l’inconsistenza istituzionale
e costituzionale repubblicana, vedi l’articolo
139, senza “fuoco amico”, gelosie, miserie, polemiche
ed ostracismi personali, dato che
oltretutto non ci
sono né degli
Alfredo Covelli, né degli
Achille Lauro, o reciproche
scomuniche, anche perché chi
è il Pontefice
che può erogarle?
Un
vandeano
sabato 12 dicembre 2015
Il Re in America e la bambina
di Emilio Del Bel Belluz
Sono
sempre stato circondato da libri e da riviste specialmente quelle di un tempo.
In quei giornali si trovavano spesso delle notizie ricche di umanità. Nella
rivista - Oggi - del 1963 ho trovato la cronaca di un viaggio che fece Re
Umberto II a New York.
In quell'ottobre del 1963 il Re aveva 59
anni. Le foto lo riportavano vestito elegantemente e con il volto sorridente.
Aveva compiuto questo viaggio su invito di alcune personalità americane. Gli
americani avevano sempre ammirato la correttezza di Re Umberto II.
Non
credo che nessun politico se ne sarebbe andato in esilio contando su oltre
dieci milioni di cittadini che avevano scelto di votare per la monarchia. Il Re
volle evitare una guerra, in quanto era una persona di grande cuore e di alti
valori cristiani. Le persone umili hanno il potere di donare la serenità agli
altri, ma che spesso non danno a se stessi. Le persone come Umberto erano nate
per dare e non per ricevere. Giungeva a
New York il 16 ottobre alle ore 10.30, arrivando da Lisbona. Il giornalista
che scrisse questo articolo era Gino Gullace.
Questo
giornalista con penna delicata scriveva e raccontava un episodio che era
accaduto al Re, incontrando una bambina.” L’ex sovrano stava visitando il
Metroplitan Museum, a New York; per la
precisione, si trovava nella famosa sala degli impressionisti francesi.
Una maestra di origine italiana, la signora Fasolino stava illustrando ai suoi
piccoli allievi le caratteristiche di un Renoir. Quando notò Umberto interruppe
la spiegazione per indicarlo discretamente alla scolaresca. Umberto sorrise; in quel momento, dal gruppo dei
piccoli visitatori si staccò una bambina. Si avvicinò a Umberto, abbozzò una
riverenza e con la sua vocina aggraziata disse : “ Benvenuto Mister Re. Ma
perché sei venuto a trovarci senza la corona?”. “ Perché Sua Maestà viaggia
come privato e non in uniforme”, le rispose arrossendo la signora Fasolino. “
E’ proprio un peccato “, ribatté la
piccola prima di congedarsi con un’altra riverenza”.
Credo
che questo piccolo fuori programma abbia
divertito il sovrano, e penso che quel
sovrano così bello sia stato ricordato
dalla bambina per tutta la vita. Anche il Re si sarà portato con sé questo
ricordo così dolce. Erano diciassette anni che aveva lasciato l’Italia, ma non era stato dimenticato neppure in America. In quei quattro giorni di visita ha
partecipato a molti incontri con personalità della politica, come pure ebbe
modo di incontrare molti italiani che abitavano in America. L’invito ufficiale
gli era venuto dal cardinale Spellman, che desiderava presenziasse come ospite
d’onore a una manifestazione di beneficenza che raccoglieva fondi per i poveri.
Il Re si era dato a questa manifestazione con affetto ed entusiasmo.
Gli
era capitato di incontrare un combattente della Grande Guerra che gli aveva
donato una bandiera italiana. Anche questo episodio dimostrava che dopo 17 anni
d’esilio non era stato dimenticato. Oltre al Cardinale Spellman aveva
incontrato Rockefeller ed Eisenhower. Si era intrattenuto anche con molti
uomini italiani di semplice estrazione che vedendo il Re sentirono per un
momento d’avere la loro patria vicina.
Erano molti quelli che andarono in America a cercare fortuna. .
Per
un attimo ho pensato a Carnera che con la
conquista del titolo mondiale in America
aveva reso felice gli italiani che vi abitavano. La commozione e
l’affetto che dimostravano
nell’incontrare il Re erano grandi e li
permettevano di alleviare la sofferenza dovuta alla lontananza dal suol patrio. Vi è un altro episodio
avvenuto nella stessa mostra dove una bambina si avvicinò al re salutandolo. “
Nella sala dei quadri degli impressionisti, c’era un professore con il mento
ornato di un pizzo rosso che spiegava ad alcuni studenti di scuola media i
pregi di un quadro.
Hillary
Garr, una studentessa sedicenne, si staccò dal gruppo e domandò chi fosse quel
signore che camminava accompagnato da un numeroso seguito. Quando seppe che era
l’ex Re d’Italia, Hillary lasciò il
professore con il pizzo rosso e giunta davanti a Umberto gli disse: “ Ciao Re”.
“ Ciao ”Era l’unica forma di saluto che ella sapeva in italiano. L’ex sovrano
si fermò, le strinse la mano, le rivolse cordialmente delle domande”.
L’indomani
mattina il Re con un aereo privato assieme al ministro della Real Casa Falcone Lucifero andarono alla fattoria dove
viveva Eisenhower. La visita del sovrano viene descritta in modo minuzioso con
queste parole: “Eisenhower vive nella sua fattoria di Gettysburg come
Cincinnato. Si arriva alla sua casa passando per un vialetto, a piedi. Di
solito, gli ospiti di riguardo sono attesi dal generale sulla soglia, ma per
Umberto venne fatta una eccezione. Eisenhower inviò all’aeroporto il generale Schultz, suo aiutante a
prelevarlo con la sua automobile. Ike era di buon umore. Come vide il nostro
fotografo disse, ridendo, a Umberto: “Maestà quello è l’unico uomo al mondo il
quale può dirci cosa dobbiamo fare ora e come dobbiamo metterci”. Il fotografo,
infatti, li pregò di fermarsi, di discorrere”. Il generale poi mostrò al Re alcuni cimeli della guerra, tra cui
alcuni giornali ed uno incollato ad una parete: “Herald Tribune del 1944. Su quello del sei giugno a
grossi titoli spiccava questa notizia: “Vittorio Emanuele III nomina il principe ereditario
luogotenente del Regno”. Il Re ebbe un
momento di tristezza che fu subito distratto dal dono di un libro, in cui il
presidente rievocava i tempi della presidenza. Il Re in quel viaggio non aveva
dimenticato il suo legame con la sua amata Italia. “
L’episodio
più imponente e più pittoresco si svolse all’indomani, sabato, davanti alla
chiesa della Madonna di Pompei, a Carmine Street. La strada sulla quale si
trova la chiesa fa parte del quartiere italiano di Greenwich Village. Qui
vivono decine di migliaia di vecchi immigrati di tutte le parti d’Italia. Fuori,
quasi tutte le botteghe portano nomi italiani e offrono al pubblico mozzarelle,
salami, oli d’oliva, che portano nomi come “ Pace o mio Dio” e “Olio mamma mia“.
Le donne vecchie camminano con la coroncina del rosario tra le mani e la testa
coperta da scialli. Qui c’è insomma un po’ d’Italia di cinquanta anni fa,
imbalsamata, dove la gente parla ancora della guerra di Tripoli o scrive ai
parenti per farsi giocare qualche numero all’otto sulla ruota di Bari o di
Palermo. Nella chiesa di Carmine Street,
la mattina di sabato c’era una messa in suffragio delle vittime del disastro
del Vaiont. Subito si sparse la voce che Umberto di Savoia avrebbe assistito a
quella messa, e due ora prima che cominciasse davanti alla chiesa c’erano
miglia di persone.
Umberto
giunse alle 10.30. Subito dalla folla cominciarono a levarsi voci prima
discrete e poi sempre più forti, in dodici dialetti e in lingua americana : “
God Bless You, Benedittu, Viva lu Re “. Le donne tendevano le mani, Umberto
stringeva tutte quelle che poteva e ripeteva “ Grazie, grazie” Mentre due
poliziotti gli aprivano un varco tra la gente. Quando la messa terminò la folla
era raddoppiata. Umberto rimase come imprigionato; una vecchietta allungò la
mano e gli accarezzò la guancia; un uomo di forme erculee si fece avanti e gli
presentò una bandierina dicendo : “Ho avuto l’onore di fare il soldato ai
vostri ordini”. Poi tutti cominciarono a battere le mani. Solo quando Umberto
estremamente commosso, raggiunse la vettura e partì, in Carmine street ritornò la quiete“.
venerdì 11 dicembre 2015
La peggiore costituzione
Gianni Pardo
Domenica, 6 Dicembre 2015
Non è possibile dire che abbiamo la peggiore Costituzione del mondo non perché l’affermazione sia scandalosa, ma perché per farlo bisognerebbe conoscerle tutte. E già questa osservazione ha sempre reso stupida l’affermazione che essa fosse “la migliore del mondo”. Lasciando da parte questi proclami infantili (“la mia mamma è più bella della tua) ci si può chiedere seriamente se la nostra Costituzione non abbia danneggiato e continui a danneggiare l’Italia.
La prima obiezione che si potrebbe fare a questa tesi è che una legge può danneggiare un Paese solo nel caso in cui sia presa sul serio. Per esempio non si è preso del tutto sul serio l’art.53 nel quale si dice che ogni cittadino deve contribuire alle spese dello Stato, cioè pagare le tasse. Infatti ognuno, per quanto possibile, ha cercato di violarlo.
Per parecchi decenni non si è data attuazione all’art.40, che avrebbe limitato le facoltà dei sindacati in materia di sciopero, e nessuno (salvo alcuni cittadini esasperati) se ne è mai seriamente lamentato.
Purtroppo invece gli italiani hanno preso sul serio gli articoli di cui avrebbero dovuto limitarsi a sorridere. E sono questi che hanno danneggiato l’Italia.
Per cominciare, una Costituzione – legge suprema dello Stato – dovrebbe avere carattere giuridico e non ideologico. Invece la nostra è un concentrato di buone intenzioni e alti ideali, necessariamente destinati a suscitare aspettative eccessive (e regolarmente deluse). E questa è già di per sé una mala azione. Inoltre la legge fondamentale (Grundgesetz, dicono i tedeschi) non è per nulla realistica, nemmeno dove sarebbe necessario: dire, come fa la nostra all’art.11, che l’Italia “ripudia la guerra”, è pressoché assurdo. È come se un cittadino dicesse che ripudia la malattia. Per giunta l’Italia non vuole la guerra “come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli”, come se mai uno Stato avesse ammesso di aver fatto una guerra per un motivo così futile e assurdo.
Ma nel testo si trovano sciocchezze anche peggiori di questa.
Il diritto al lavoro (art.4), per esempio. Un diritto è qualcosa che posso richiedere al giudice di applicare in mio favore. E poiché per il lavoro non è possibile, il lavoro non è un diritto. Scrivendo queste parole si volevano forse fare arrabbiare ancora di più i disoccupati? È vero che quel testo, prudentemente, avverte che la Repubblica “promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”, ma, appunto, se un diritto non è “effettivo”, che diritto è? All’università si insegna che un impegno del tipo: “Ti pagherò quando potrò” non ha valore giuridico. Chi ha scritto la Costituzione non aveva studiato materie giuridiche? Ma è vero che lo stesso articolo è così ideologico che prosegue assegnando ad “ogni cittadino [ha] il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. Il che corrisponde a dire che chi non ha bisogno di lavorare e se la gode viola la legge. Per fortuna si tratta di una legge da non prendere sul serio.
Un ultimo esempio, anche perché, come dicevano i romani, ex uno disce omnes, se ne conosci uno capisci come sono anche tutti gli altri. Il diritto d’asilo, secondo l’art.10, deve essere garantito allo “straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana”. Chi ha stilato la Costituzione si è reso conto che la stragrande maggioranza dei Paesi del mondo non fruisce delle nostre libertà democratiche? Quell’articolo corrisponde a dire che l’Italia dovrebbe concedere l’asilo politico a chiunque, eccettuati gli inglesi, i francesi, gli americani e gli altri pochi che hanno diritti simili ai nostri. Non sarebbe stato più realistico dire che l’asilo politico andava concesso a chiunque, nel suo Paese, rischiasse la vita o il carcere per motivi politici? Sarebbe ancora rimasto un numero sterminato di Paesi, ma almeno non avremmo scritto un articolo velleitario.
In questi giorni in Turchia sono stati arrestati dei giornalisti, a quanto dicono perché avevano criticato troppo il governo. Che facciamo, concediamo l’asilo politico a ottanta milioni di turchi, se si presentano a Otranto?
La nostra Costituzione può essere variamente giudicata, ma sembra veramente poco probabile che sia la migliore del mondo.
giovedì 10 dicembre 2015
Mistero ad Asti, in centro si aggira il fantasma del Re
Quest'articolo lo riproponiamo per intero,invece di inserirlo nella rassegna stampa, per la sua delicatezza, per il suo rispetto delle maiuscole, per i riferimenti precisi ad una città che votò per il Re nel 1946
Quelli che hanno visto il fantasma, lo hanno descritto come elegante e ben educato, proprio come si conviene a un sovrano.
Quelli che hanno visto il fantasma, lo hanno descritto come elegante e ben educato, proprio come si conviene a un sovrano.
Sono tutti dipendenti del Comune, e lo hanno visto per almeno quattro volte, sempre all’ora di cena: si tratta dell’ultimo Re d’Italia Umberto II, il “Re di Maggio” e unico “Luogotenente Generale del Regno“, morto in esilio a Ginevra, in Svizzera, nel 1983.
Il fantasma si sarebbe qualificato come “Principe di Napoli“, un titolo che, in verità, l’ultimo sovrano non possedeva, perché appannaggio di suo padre Vittorio Emanuele III, ed avrebbe chiesto informazioni su una famiglia proprietaria di un palazzo nei pressi di Corso Vittorio Alfieri.
Tanto é bastato affinché ad Asti venissero chiamati d’urtenza i membri del “National Ghost Uncover” di Riccione, una sorta di Ghost Hunters all’italiana, affinché indagassero sul fatto.
Coordinati dal direttore Massimo Merendi, gli acchiappafantasmi sono al lavoro proprio in queste ore, ma dal tempo della prima apparizione di quest’anno, risalente al 26 novembre, non c’é stata ancora una spiegazione plausibile al fenomeno.
La voce, intanto, ha cominciato a circolare, e allora si è saputo che è dal 2011 che il Re d’Italia si fa vedere in diverse occasioni, peraltro cercando il palazzo in questione citando il vecchio numero civico, non più in uso da parecchi anni.
Alcuni hanno dichiarato persino che Umberto avrebbe dichiarato di essere pronto a ripresentarsi nell’ormai prossimo 2016, mentre altri dipendenti del Comune hanno riportato di aver visto delle ombre nelle sale del municipio astigiano.
Comunque finirà la storia, questa del Re é sicuramente una storia curiosa, una che stavolta non viene dall’Inghilterra delle brughiere o dalla Scozia dei castelli, bensì dal cuore della provincia italiana, in una città che, forse, quel Re non l’ha mai dimenticato.
http://zon.it/mistero-asti-centro-aggira-fantasma-re/
martedì 8 dicembre 2015
Buona festa dell'Immacolata!
Questo è un blog laico, abbiamo rispetto per tutte le confessioni religiose.
Ma siamo felici e gelosi dell nostra.
Ma siamo felici e gelosi dell nostra.
Felici e non gelosi della Nostra Madre Celeste.
I nostri auguri ai nostri lettori cattolici!
Buona festa agli altri!
sabato 5 dicembre 2015
DANTE ALIGHIERI E L’UNITA’ D’ITALIA
di Gianluigi Chiaserotti
Signor Presidente,
Signore, Signore, Amici,
devo essere ancora una volta molto, ma molto grato al nostro benemerito Circolo di Cultura e di Educazione Politica “Rex” per l’opportunità che quest’oggi mi ha offerto, ma sempre ed esclusivamente da appassionato di quella Signora che viene denominata Storia, cioè maestra della vita [esattamente «Historia est testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis», come scrive Marco Tullio Cicerone (106 a. C.-43 a. C.) nel suo “de Oratore”], che ho l’onore di parlare a Voi.
Leggo e studio l’Alighieri da sempre, e ciò sin dai tempi del Liceo nel Nobile Collegio Nazareno essenzialmente sul commento e sulle interpretazioni del Padre Luigi Pietrobono (1863-1960), che, nel 2013, ho ricordato sia qui, che al Liceo “Conti-Gentili” di Alatri, sua città natale.
Pianificando l’incontro di oggi con il nostro Presidente, ingegner Domenico Giglio, abbiamo giustamente pensato di distaccarci dai canoni tradizionalmente danteschi, ma nel DCCL anno dalla sua nascita, analizzare e comprendere come Dante fu, senza dubbio, uno degli ispiratori dell’Unità d’Italia.
Ma egli fu il più grande Poeta che l’Italia abbia mai avuto. Poeta, appunto, Scrittore, Saggista, Storico, Filosofo, Umanista, Cronista. Uomo Politico che seppe cosa fosse l’esilio.
Dante fu colui che scrisse l’unica ed autentica profezia “ante eventum” della Divina Commedia, quella del Veltro, a cui accennerò verso la fine.
Dante Padre della Lingua Italiana, e quindi anche prototipo dell’Unità d’Italia.
Di Dante va’ riscoperta la sua attualità, il suo pensiero, la sua vita.
E senza volerlo quest’anno è il CL anniversario che Firenze, città natale dell’Alighieri, divenne Capitale d’Italia.
Penso di procedere così:
A) Note biografiche del Sommo Poeta;
B) Dante e l’idea di Italia;
C) Conclusioni finali.
§ 1. Note biografiche di Dante Alighieri -
Secondo riferimenti indiretti è possibile risalire alla data di nascita di Dante nel periodo compreso tra il 14 maggio e il 13 giugno del 1265. Tuttavia, se sconosciuto è il giorno della sua nascita, certo invece è quello del battesimo: il 27 marzo 1266, Sabato Santo (il prossimo anno sarà proprio il giorno di Pasqua). Quel giorno vennero portati al sacro fonte tutti i nati dell'anno per una solenne cerimonia collettiva. Dante venne battezzato con il nome di Durante, poi sincopato in Dante, in ricordo di un parente ghibellino. Giovanni Boccaccio raccontava che la sua nascita fu preannunciata da lusinghieri auspici.
Dante nacque nell'importante famiglia fiorentina degli Alighieri, legata alla corrente dei Guelfi, un'alleanza politica coinvolta in una complessa opposizione ai Ghibellini; gli stessi Guelfi si divisero poi in Guelfi Bianchi ed in Guelfi Neri.
Dante credeva che la sua famiglia discendesse dagli antichi Romani (Inf. XV, 76), ma il parente più lontano che egli nomina è il trisavolo Cacciaguida degli Elisei (Par. XV, 135), vissuto intorno al 1100. Dal punto di vista giuridico perciò la presunta nobiltà derivantegli da questa ascendenza, già di per sé dubbia, si era comunque estinta da tempo. L’avo paterno, Bellincione, era un popolano, ed un popolano sposò la sorella di Dante.
Suo padre, Aleghiero o Alighiero di Bellincione, svolgeva la non gloriosa professione di cambiavalute, con la quale riuscì a procurare un dignitoso decoro alla numerosa famiglia. Era un guelfo ma senza ambizioni politiche: per questo i Ghibellini, dopo la battaglia di Montaperti (4 settembre 1260) non lo esiliarono come altri guelfi, giudicandolo un avversario non pericoloso.
La madre di Dante era Bella (diminutivo di Gabriella) degli Abati che era un'importante famiglia ghibellina. Di lei si sa poco e Dante non ne parlò o non ne scrisse mai al riguardo.
Morì quando Dante aveva cinque o sei anni, ed Alighiero presto si risposò con Lapa di Chiarissimo Cialuffi, da cui ebbe Francesco e Tana (Gaetana), e forse anche - ma potrebbe essere stata anche figlia di Bella degli Abati - un'altra figlia ricordata dal Boccaccio come moglie del banditore fiorentino Leone Poggi e madre del suo amico Andrea Poggi. Si ritiene che a lei alluda Dante nella Vita Nova (XXIII, 11-12), chiamandola «donna giovane e gentile [...] di propinquissima sanguinitade congiunta».
Quando Dante aveva dodici anni, nel 1277, fu concordato il suo matrimonio con Gemma, figlia di Messer Manetto Donati, che successivamente sposò all'età di vent'anni.
Politicamente Dante apparteneva alla fazione dei Guelfi Bianchi, che, pur trovandosi nella lotta per le investiture schierati con il Papa, contavano molte famiglie della nobiltà signorile e feudale più antica ed erano contrari ad un eccessivo aumento del potere temporale papale.
Da Gemma, Dante ebbe tre figli: Jacopo, Pietro ed Antonia.
A Firenze ebbe una carriera politica di discreta importanza. Dopo l'entrata in vigore dei regolamenti (1293) di Giano della Bella (seconda metà del Sec. XIII-1311-14 ca.), che escludevano l'antica nobiltà dalla politica, permettendo ai ceti intermedi di ottenere ruoli nella Repubblica, purché iscritti a un'Arte, Dante si iscrisse a quella dei Medici e degli Speziali.
L'esatta serie dei suoi incarichi politici non è conosciuta, poiché i verbali delle assemblee sono andati perduti. Comunque, attraverso altre fonti, si è potuta ricostruire buona parte della sua attività. Fu nel Consiglio del popolo dal novembre 1295 all'aprile 1296; fu nel gruppo dei “Savi”, che rinnovarono le norme per l'elezione dei priori (dicembre 1296), cioè dei massimi rappresentanti di ciascuna Arte; dal maggio al settembre del 1296 fece parte del Consiglio dei Cento. Fu inviato talvolta nella veste di ambasciatore, come nel maggio del 1300, a San Gimignano. Lo stesso anno fu priore dal 15 giugno al 15 agosto.
Nonostante l'appartenenza al partito guelfo, egli cercò sempre di osteggiare le ingerenze del suo acerrimo nemico il Pontefice Bonifacio VIII [Benedetto Caetani (nato nel 1235 ca.) 1294-1303].
Con l'arrivo del cardinale Matteo d'Acquasparta (1240-1302), inviato come paciere, almeno nominale (in realtà spedito dal Papa per ridimensionare la potenza della parte dei Guelfi Bianchi, in quel periodo in piena ascesa sui Neri), Dante cercò, con successo, di ostacolare il suo operato. Egli stesso si recò dal Papa al fine di cercare di trovare un compromesso alla pace; ma durante il viaggio venne bloccato e condannato in contumacia.
Quale membro del Consiglio dei Cento, fu tra i promotori del discusso provvedimento che spedì ai due estremi della Toscana i capi delle due fazioni. Questo non solo fu una disposizione inutile (in quanto tornarono) ma fece rischiare un colpo di stato da parte dei Neri, che stavano per approfittare della situazione, quando i Bianchi erano senza capo, ritardando oltre misura l'inizio del loro esilio. Inoltre il provvedimento attirò sui responsabili, Dante compreso, sia l'odio della parte nemica sia la diffidenza del c. d. “amici”, e da lui stesso fu definito come l'inizio della sua rovina.
Con l'invio di Carlo di Valois (1270-1325) in Firenze, mandato dal Papa come teorico paciere, ma di fatto conquistatore, la Repubblica spedì a sua volta a Roma un'ambasceria di cui era parte essenziale Dante medesimo, accompagnato da Maso Minerbetti, uomo senza volontà propria, e da Corazza da Signa, tanto Guelfo.
Dante si trovava quindi a Roma, sembra trattenuto oltre misura da Bonifacio VIII, quando Carlo di Valois, al primo subbuglio cittadino prese pretesto per mettere a ferro e fuoco Firenze con un colpo di mano. Il 9 novembre 1301 Cante Gabrielli da Gubbio (1260 ca.-1335 ca.) fu nominato Podestà di Firenze. Questi appartenente ai Guelfi Neri, diede inizio ad una politica di sistematica persecuzione degli esponenti politici di parte bianca ostili al Papa, e che si risolse alla fine nella loro uccisione o nell'esilio. Con due condanne successive (quella del 27 gennaio e quella del 10 marzo 1302), le quali colpirono inoltre numerosi esponenti delle famiglie dei Cerchi e soprattutto dei Gherardini di Montagliari (di cui l'amico Andrea Gherardini), il poeta fu condannato da Cante Gabrielli, in contumacia, al rogo e alla distruzione delle case. Dante fu raggiunto dal provvedimento di esilio a Roma e non rivide mai più Firenze.
Fuoriuscito da Bologna, Dante riparò probabilmente a Pistoia, presso l'amico Cino. Poi si trasferì in Romagna, ove fu quindi ospite di diverse corti e famiglie, fra cui gli Ordelaffi, signori ghibellini di Forlì, e dove probabilmente si trovava quando l'imperatore Enrico VII di Lussemburgo (1275-1313) entrò in Italia. Qui è possibile che abbia conosciuto le opere del famoso pensatore ebreo Hillel ben Samuel (1220-1295), che era da poco morto, dopo aver trascorso a Forlì gli ultimi anni della sua vita. Dopo altre peregrinazioni, il Nostro tornò a Forlì nel 1310-1311, ed ancora nel 1316 (data incerta, quest'ultima).
Dante terminò le sue peregrinazioni a Ravenna, dove trovò asilo presso la corte di Guido Novello da Polenta (1275 ca.-1333), signore della città, tuttavia i rapporti con Verona non cessarono, come testimoniato dalla sua presenza nella città veneta il 20 gennaio 1320, per discutere la “Quaestio de aqua et terra”, ultima sua opera latina.
Celeberrimi sono i versi del Canto XVII del Paradiso (58-60) in cui Cacciaguida prevede l’esilio del Poeta ed il suo peregrinare: «[…] Tu proverai sì come sa di sale/lo pane altrui, e come è duro calle/lo scendere e ’l salir per l’altrui scale […]».
Dante morì in Ravenna il 14 settembre 1321 di ritorno da un'ambasceria a Venezia, avendo contratto la malaria in quel di Comacchio.
I funerali, in pompa magna, vennero officiati nella chiesa di San Pier Maggiore (oggi San Francesco) a Ravenna, dove, sotto un portico laterale, venne posto il primo sarcofago del Poeta. Intorno al sarcofago nel 1483 venne costruita una cella, su progetto dello scultore Pietro Lombardo (1430-1515); nel 1780, l’archietto Camillo Morigia (1743-1795), su incarico del cardinale legato Luigi Valenti Gonzaga (1725-1808), progettò il tempietto neoclassico tuttora visibile.
§ 2. Dante e l’idea di Italia -
Senza dubbio l’idea di una Italia unita era molto, ma molto antecedente ai Secoli XVIII e XIX.
La nostra penisola era, da secoli, divisa e per nulla tenuta in considerazione. Quindi le grandi e potenti nazioni d’Europa avevano trovato un campo aperto alle loro ambizioni.
L’Italia era considerata una semplice espressione geografica.
Tutti si erano lanciati verso l’Italia, come, oserei dire, su una facile preda: Francia, Spagna, Austria erano venute a conquistarvi intere provincie: le due più grandi città d’Italia, Milano e Napoli, erano cadute in mano straniera. Ed i superstiti piccoli Stati Italiani, anche se di nome avevano conservato la loro indipendenza, di fatto finivano con il gravitare, come satelliti, intorno ai pianeti europei.
Gli Italiani non erano più nessuno in casa propria.
Ed è veramente triste affermarlo!
Per lunghi, lunghissimi anni (più di trecento), nelle più fiorenti regioni italiane, francesi, tedeschi o spagnoli vi comandavano.
In questa situazione, anche attraverso i secoli, si erano levate voci che incitavano gli italiani a riconquistare la libertà perduta. Voci di poeti, di storici, di politici che testimoniavano la rivolta morale della parte più nobile del paese.
Ma perché l’Italia si risollevasse dalla decadenza, non bastava il richiamo di pochi spiriti eletti.
Era necessario che il risveglio penetrasse profondamente nell’animo della nazione.
Era necessario che gli italiani si trasformassero, si facessero, per così dire, un’anima nuova. Per acquistare la libertà, necessitava che negli animi sorgesse il desiderio, il bisogno della libertà.
Per raggiungere l’unità, era opportuno superare le divisioni, acquistare la coscienza di formare un’unica famiglia, affratellata in un’unica sorte. Per ottenere l’indipendenza, gli italiani dovevano apprendere quello che, nei secoli, avevano dimenticato: a lottare, a combattere, a morire per la loro causa.
Scriveva Francesco Petrarca (1304-1374) nell’Epistola “Ad Italiam”: «O nostra Italia! Salve, terra santissima cara a Dio, salve, terra ai buoni sicura, tremenda ai superbi, terra più nobile di ogni altra e più fertile e più bella, cinta dal duplice mare, famosa per le Alpi gloriose, veneranda per gloria d’armi e di sacre leggi, dimora delle Muse, ricca di tesori e di eroi, che degna d’ogni più alto favore reser concordi l’arte e la natura e fecero maestra del mondo».
Il sogno dell’Unità politico-istituzionale del territorio che va dalle Alpi alla Sicilia è stato cullato per oltre due millenni da generazioni successive di giovani e di intellettuali, convinti che, senza unità, questo territorio non avrebbe mai trovato pace e prosperità. Diviso politicamente, sarebbe stato, come lo è stato per secoli, debole e fragile, facile preda degli appetiti di quelle Nazioni vicine più grandi, più forti e potenti, come lo sono state, di volta in volta fin dal Medioevo, la Germania, la Francia, la Spagna e l’Austria. Per non aver realizzato lo Stato Unitario, come abitanti della Penisola, siamo stati - come recita il nostro inno nazionale – per secoli «calpesti, derisi, perché non siam popolo, perché divisi».
Una terra di antichissima civiltà e cultura, che era stata teatro di eventi divenuti nel canto di Omero non solo alta poesia ma modello di vita civile; e che, con il filosofo-matematico Pitagora (in lingua greca “Πυθαγόρας”, 570 a. C. ca.-495 a.C. ca.) ed il medico Alcmeone (in lingua greca “Аλκμαίων”) in Crotone, con la poetessa Nosside (IV-III sec. a. C. ca.) in Locri, con il filosofo Archita (in lingua greca “Аρχύτας”, 428 a. C.-360 a. C.) e il musicista Aristosseno (in lingua greca “Αριστόξενος”, 375 a. C. ca.-322 a. C.) in Taranto, con i filosofi Empedocle (in lingua greca “Εμπεδόκλñς”, 495 a. C.-430 a. C.) in Akragas (gr. “Ακράγας) (l’attuale Agrigento), e Parmenide (in lingua greca “Παρμενίδης”, 515/510 a. C. ca.-544/514 a. C. ca.) in Elea, aveva fatto scuola nella più antica civiltà greca, era divenuta terra di saccheggio.
Era, come si afferma «il paese più frequentemente invaso del mondo».
Considerata dai patrioti del Secolo XIX, voluta da Dio come Nazione unitaria, per avere confini naturali, per il mare che l’avvolge per tre lati e per la protezione delle Alpi al Nord, l’Italia sembrava incapace di trasformare la molteplicità delle diverse città e piccole patrie in fattore di unità e di prosperità.
Il primo “italiano” ad avere chiaro nella mente la necessità e l’utilità di utilizzare il modello dialettico dell’unità e della molteplicità sul piano politico, è stato Niccolò Machiavelli (1469-1527). E lo ha applicato a una realtà geograficamente molto più vasta che non la Penisola italiana. La molteplicità degli Stati all’interno dell’Europa, indicata come unica entità geografica e culturale, per il Segretario Fiorentino è fonte e garanzia di virtù, di libertà e di umanità della storia.
«Chi considererà adunque la parte d’Europa» – scrive l’autore del Principe -,«la troverà essere piena di repubbliche e di principati, i quali, per timore che l’uno aveva dell’altro, erano costretti a tener vivi gli ordini».
A garantire la libertà e, quindi, l’equilibrio tra i diversi Stati in Europa erano le stesse tensioni che li garantivano nella Roma repubblicana, laddove, come annota ancora il Segretario Fiorentino, «i tumulti intra i Nobili e la Plebe […] furono prima causa del tenere libera Roma» perché «le leggi che si fanno in favore della libertà, nascano dalla disunione».
Era «l’Europa esaltata dal conflitto, sale della politica».
Era proprio questo far convivere dialetticamente la molteplicità di tante piccole patrie nell’unità di un’unica grande Patria il sogno millenario degli Italiani, realizzato poi a prezzo di sacrifici e di vite donate da giovani e talvolta giovanissimi, che hanno vissuto sofferto e glorificato il Risorgimento Italiano. Era il desiderio di realizzare di nuovo l’Italia unita e pacificata dagli antichi Romani, come è testimoniato dalle parole con le quali Augusto (63 a. C. – 14 a. C.) nel suo testamento, riassunse il plebiscito del 32 a. C.: «L’Italia tutta mi giurò fedeltà, spontaneamente»
Era l’Italia che voleva risorgere e ritornare alla sua antica grandezza e prestigio.
Era l’Italia considerata da Dante Alighieri come una, pur nella diversità delle tradizioni e dei costumi dei suoi abitanti, minuziosamente elencati, regione per regione, nel suo “De vulgari eloquentia” (I, X).
I Siciliani, gli Apuli, i Calabri, i Napoletani, i Toscani, i Genovesi, i Sardi, i Romagnoli, i Lombardi, i Trevigiani, i Veneziani, tutti elencati da Dante nel suo grande libro sulla lingua volgare, pur nella loro grande diversità, con la poesia e la letteratura fiorita tra il ‘200 ed il ‘300 hanno raggiunto ciò che cercavano, una lingua «volgare, illustre, cardinale, regale e curiale», che sembra non appartenere a nessuno perché deve essere comune a tutti.
Era l’Italia che Alessandro Manzoni (1785-1873) nella poesia “Marzo 1821” dedicata a Teodoro Köerner (1791-1813), poeta e soldato della indipendenza germanica (nome caro a tutti i popoli che combatterono per difendere o per conquistare una patria), circa sei secoli dopo Dante, auspicava «Una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor», un’Italia unita politicamente, con un solo esercito, una sola lingua nazionale, una stessa religione, una sola memoria storica, una stessa origine e identici sentimenti.
Un’Italia dove «non fia loco ove sorgan barriere tra l’Italia e l’Italia mai più». Un’Italia «che tutta si scote, dal Cenisio alla balza di Scilla». Un’Italia che ritorna al patrimonio spirituale dei suoi avi, al suo retaggio, e «il suo suolo riprende».
Nell’ode manzoniana è contenuta una fortissima carica emotiva e sentimentale verso una patria largamente vagheggiata ma mai, fino a quel momento, progettata avendo in prospettiva concrete possibilità di realizzazione.
La coscienza unitaria nel tempo intercorso tra Dante e Manzoni non si appannò, non cessò di essere vigile e operativa.
L’anelito a vedere l’Italia politicamente unita in un solo Stato, dopo il 1494, cioè dopo la discesa di Carlo VIII di Francia (1470-1498) nella penisola senza incontrare resistenza, era molto forte.
Machiavelli, nel cap. XXVI del Principe dal titolo eloquente “Esortazione a pigliare la Italia e liberarla dalle mani dei barbari”, fa vibrare in maniera energica il potente sentimento di italianità. Incita i Medici a compiere l’opera di unificazione della Penisola, attraverso i versi della canzone Italia mia di Petrarca: «Vertù contra furore/ prenderà l’arme; et fia ‘l combatter corto:/ ché l’antiquo valore/ ne gli italici cor’ non è anchor morto».
Ma torniamo a Dante.
La grandezza dell’Italia nel passato e la penosa situazione che ha sotto gli occhi portano il Sommo Poeta ad una violenta invettiva contro il nostro Paese. Nel Canto VI del Purgatorio, l’affettuoso incontro di due concittadini mantovani, i poeti Sordello da Goito (1200/1210 ca.-1269) e Virgilio (70 a. C.- 19 a. C.), suscita in Dante una amara e spietata apostrofe contro l’Italia del suo tempo, terra di tiranni, di dolore e di malcostume, simile ad una nave senza capitano nel mare in tempesta, la quale inizia con il verso
«Ahi, serva Italia, di dolore ostello, […]».
Gli abitanti di una medesima città si odiano e si dilaniano e non c’è pace in nessuna zona.
L’opera dell’imperatore Giustiniano, che aveva dato adeguate leggi all’Italia, risulta inutile, perché le leggi non vengono fatte rispettare.
Gli ecclesiastici, invece di dedicarsi alle cose sacre, si appropriano del potere laico, in mancanza dell’autorità politica voluta da Dio stesso per tenere a freno l’Italia, simile ad una cavalla selvaggia.
Manca l’autorità imperiale, perché Rodolfo d’Absburgo (1218-1291) e suo figlio Alberto (1255-1308) non si interessano all’Italia, giardino dell’Impero.
Dante quindi invita il suo successore, Enrico VII di Lussemburgo, a venire a vedere la discordia che regna in Italia, un paese che, come una sposa abbandonata, lo attende piangendo notte e giorno.
Sembra che anche Cristo l’abbia dimenticata, forse per un bene maggiore futuro.
L’invettiva contro l’Italia si conclude con un’ironica sferzata a Firenze, la quale legifera con leggi che non durano da ottobre a novembre.
La sferzata all’Italia nasce da uno sconfinato amore dell’Alighieri per quello che proprio lui ebbe a definire “Il Bel Paese”, e ciò nel Canto XXXIII, v. 80, dell’Inferno («del bel paese là dove ‘l sì sona»).
«Che Dante non amasse l’Italia» spiega Ugo Foscolo (1778-1827) «chi mai vorrà dirlo? Anch’ei fu costretto, come qualunque altro l’ha mai veracemente amata, o mai l’amerà, a flagellarla a sangue, e mostrarle tutta la sua nudità, sì che ne senta vergogna».
L’Italia (“umile”) sognata da Dante ha un modello: Camilla, la leggendaria vergine guerriera, di cui parla il Libro IX dell’Eneide di Virgilio. Camilla rievoca le amazzoni Ippolita e Pentesilea, Giuturna la sorella di Turno amata da un Dio, la saracena Clorinda, la puzella d’Orleans Santa Giovanna d’Arco (412-431).
Emula di Diana, alla quale il padre la consacrò ancora in fasce, Camilla rappresenta il popolo italico che lotta per la propria libertà e Dante le rende onore nella “Divina Commedia” (Inf. I, 106-107) ricordandola come la prima martire della nostra Patria: «[…] di quella umile Italia fia salute/per cui morì la vergine Cammilla».
Ed eccoci, come dicevo poc’anzi, al Risorgimento che rappresentò, come sappiamo, il riscatto di un popolo diviso al suo interno ma profondamente unito dalla lingua, dalla tradizione, dalla cultura. Per la risoluzione di tale processo storico fu di fondamentale importanza il contributo ideologico, passionale e romantico che la letteratura e la filosofia profusero.
Il primo indiscusso precursore dell’Unità d’Italia non puo’ non essere considerato il Sommo Poeta.
Dante non aveva il concetto di stato nazionale secondo i parametri che si sarebbero andati definendo nella storia moderna.
La sua teorizzazione dell’Italia risentiva ancora dell’esperienza, mitizzata nel Medio Evo, dell’Impero Romano.
Benché gli studiosi siano molto discordi sull’argomento, in lui non è difficile cogliere il desiderio di unità nazionale. Dante idealizza l’Italia, la presenta in numerose opere e soprattutto nella Divina Commedia, con le formule più disparate, lascia presagire un certo qual immaturo desiderio di unità tra le varie componenti della Penisola.
Nell’Epistola XI, inviata ai cardinali in conclave, Dante parla di «Italia nostra» e idealizza la proposta di un idioma unitario rispondente a quattro caratteristiche: illustre, aulico, cardinale e curiale.
Al riguardo il Poeta vi ritorna nel suo “De vulgari eloquentia” quando, con fare frasi da profeta dell’unità linguistica italiana, al capitolo XV sostiene l’adozione di una parlata che sia l’estrema sintesi di quelle migliori presenti nella Penisola.
Il Poeta non viene meno di accennare anche ad altri importanti aspetti che caratterizzano ed unificano il potenziale popolo italiano nei capitoli XVI, XVII e XVIII del Libro I.
Dante non si limita, come fin qui ho cercato di far notare, ad esempi o teorie fittizie che quasi vogliono esplicitare i tratti comuni degli italiani.
Nella Commedia è particolarmente ricorrente un modo di vagheggiare l’Italia che ha quasi sempre un sapore romantico, proprio dell’innamorato più che del patriota.
Nel canto VI del Purgatorio, come detto, l’Alighieri dice senza mezzi termini che emerge in maniera chiara e nitida una visione dell’Italia molto, ma molto a carattere ideale e certamente prematura, ma sicuramente già recante in sé tratti importanti su cui la tradizione successiva poté trovare un terreno alquanto fertile.
L’idea della nazione italiana compresa nei suoi confini geografici era di già maturata nella mente dell’abate/pensatore Gioacchino Fiore (1130 ca.-1202) definito dal Nostro «[…] il calavrese abate Giovacchino/di spirito profetico dotato» (Par. XII, vv. 140-141), che ne aveva rilevato il primato fra le nazioni essenzialmente per la presenza della Chiesa Cattolica: idea poi rilanciata da Vincenzo Gioberti (1801-1852) (una confederazione di Stati con a capo il Papa).
La “renovatio” auspicata da Fiore per l’umanità, ma soprattutto per l’Italia e fatta propria da Dante, in realtà preludeva ad un’altra rinascita bramata da tanti e tanti personaggi.
Ecco nuovamente il Risorgimento.
Dunque Dante è stato il poeta-profeta dell’Unità d’Italia.
Per questo motivo nell’’800 il suo culto veniva proibito da certi governi tirannici della Penisola, specialmente da quelli facenti capo all’Austria, tanto che diversi patrioti furono arrestati ed imprigionati solo perché nelle loro case possedevano ed esponevano qualche ritratto dantesco.
Quando i trentini, riuscendo a farlo accettare al regime austriaco, nell’omonima piazza davanti alla stazione ferroviaria e di fronte alle Alpi (che il divino poeta con la mano indica come confine italiano), eressero il maestoso monumento a Dante (1896), nell’iconografia che lo arricchisce posero in evidenza l’incontro già ricordato con Sordello da Goito e ciò per proclamare a gran voce che Trento è una città della terra di Dante, e quindi italiana, come dimostra anche il sovrastante mausoleo di Cesare Battisti (1875-1916) poi eretto in vista del monumento dantesco.
Ecco perché la dissacrazione e denigrazione del Risorgimento offende anzitutto Dante, come offende tutti gli altri intellettuali (da Petrarca a Machiavelli, da Foscolo al Manzoni ecc….) che con il loro magistero morale e civile contribuirono a formare una coscienza nazionale e propiziarono un’unificazione politica.
Gli ideali ed i valori danteschi sono quelli dell’Italia: e Dante medesimo è un grandissimo valore per l’Italia.
In tutto il mondo Dante è considerato il simbolo dell’Italia e dire “Dante” significa dire “Italia”.
Egli indicò chiaramente i confini nazionali della nostra patria, includendovi già nel ‘300 l’Istria ed il Tirolo Meridionale. Celebri i versi nel Canto IX dell’Inferno: «[…] sì com’a Pola, presso del Carnaro/ch’Italia chiude e suoi termini bagna, […]». Intuì, interpretò ed alimentò la coscienza nazionale. Ne deplorò le divisioni interne. Portò la lingua e la letteratura italiana ad un altissimo prestigio che dura tuttora.
§ 3. Conclusioni finali –
Ed ora mi avvio alla conclusione con qualche breve considerazione.
Le nazioni civili, specialmente quelle che hanno dovuto affrontare una lunga ed ardua lotta per l’unità e quindi l’indipendenza, amano esaltare un proprio personaggio/eroe ed identificarsi in lui, nel quale assommano e riassumono il loro passato, le loro glorie, le loro amarazze.
Questo personaggio diviene quindi un mito ed assurge alla Nazione medesima.
L’Italia esalta Dante Alighieri ed in lui si riconosce.
Pressappoco il Sommo Poeta è per gli italiani come Mosè per gli ebrei; Omero per i greci; Virgilio per i romani; Maometto per gli arabi; Cervantes per gli spagnoli; Shakespeare per gli inglesi; Moliére per i francesi; Washington per gli americani, ed, infine, Goethe per i tedeschi.
Quindi, come abbiamo visto, fu anche l’Alighieri a contribuire ad edificare un’idea dell’Italia sulla tradizione romana e cattolica, mediterranea e poetica.
Ma fu soprattutto il filosofo Giovanni Gentile (1875-1944), in un suo scritto del 1918, a vedere in Dante il profeta dell’Italia risorgimentale e moderna.
Egli riconobbe nel Nostro non solo il Sommo Poeta, ma anche il filosofo e la divergenza con Benedetto Croce (1866-1952) fu netta. Codesta divergenza solitamente la si riconduce sul piano storico al dissidio tra fascismo ed antifascismo e sul piano filosofico al divario tra razionalismo liberale di Croce e l’irrazionalismo “mistico” di Gentile.
Ma Dante non è solo l’Italia, è ovunque nel mondo, anche grazie alle quattrocento sedi della Società “Dante Alighieri”, fondata nel 1889.
Dante è nella lingua che parliamo, è nella cadenza poetica di buona parte degli autori contemporanei, è nelle suggestioni di innumerevoli pittori dal Botticelli al Dalì e fino al Guttuso.
E Dante non è attuale è anche contemporaneo nella sua personale formulazione dell’idea di Europa.
Un grande sogno che il Poeta accarezzò per anni, al quale dobbiamo legare la sua visione non solo della libertà di Firenze dalle fazioni, ma dell’Italia e poi l’illusione di un’Europa-Impero ove il monarca illuminato placasse gli odi tra i comuni, all’interno delle città, così come aveva fatto Giulio Cesare 1300 anni prima, avendo intuito che la Repubblica aveva esaurito la sua funzione ed alimentava le guerre civili.
Egli unì l’Europa sotto le insegne dell’Aquila di Roma e sotto il suo immenso prestigio. Giulio Cesare ha dato alla politica i fondamenti millenari futuri ed a Roma la pace interna che durerà fino alle invasioni barbariche ed all’ultimo imperatore Romolo Augustolo.
Ed infine Dante, se con il suo “De vulgari eloquentia” ricerca (ma in latino) una lingua volgare illustre, nella “Divina Commedia”, la lingua volgare accantona ogni complesso di inferiorità verso la blasonatissima lingua latina e diviene un esperimento raffinato e popolare, accessibile ed altissimo.
Immortale, oserei dire.
Desidero concludere con forse il momento più attuale, più interpretato della “Divina Commedia”.
La profezia “ante eventum” (l’unica del Poema) del Veltro.
Esso è un cane da caccia agile e scattante (identificato nel levriero), così chiamato in lingua mediovale, ma sostanzialmente caduto in disuso, ma viene ricordato per via della famosa profezia che Dante pone all'inizio della Divina Commedia, nel I Canto dell'Inferno, in cui Virgilio, riferendosi alla lupa che rappresenta la cupidigia, afferma che:
« Molti son li animali a cui s'ammoglia
e più saranno ancora, infin che 'l veltro
verrà, che la farà morir con doglia.
Questi non ciberà terra né peltro,
ma sapïenza, amore e virtute,
e sua nazion sarà tra feltro e feltro.
Di quella umile Italia fia salute
per cui morì la vergine Cammilla,
Eurialo e Turno e Niso di ferute.
Questi la caccerà per ogne villa
fin che l'avrà rimessa ne lo 'nferno
là onde 'nvidia prima dipartilla. »
In questi versi il veltro rappresenta un'azione di riforma, evidentemente ma probabilmente promossa da Dio, che perseguiti la cupidigia nelle sue forme ristabilendo in tutto il mondo ordine e giustizia.
Il significato letterale è: la lupa (della quale si parlava nei versi precedenti e che rappresenterebbe l'avidità) si accoppia a numerosi animali (forse intesi come altri vizi), sempre di più finché il veltro arriverà, e la ucciderà con dolore. Esso non avrà bisogno né di terra né di denaro (“peltro”), ma di sapienza, amore e virtù, e la sua origine sarà umile. “Feltro” puo’ essere inteso come panno di poco pregio, ma anche come un'indicazione geografica: tra Feltre e Montefeltro.
Il veltro sarà la salvezza (“salute”) dell’Italia, per la quale morirono Camilla, Turno, Eurialo e Niso (tutti personaggi dell’”Eneide” virgiliana), come ho di già detto.
Il veltro caccerà la lupa di città in città, finché la ricaccerà nell'inferno, da dove l'invidia primordiale di Lucifero (il riferimento è alla storia dell'angelo ribelle) l'aveva fatta uscire.
Molti hanno cercato un'identificazione con un personaggio reale [ad es. Cangrande della Scala (1291-1329)], Uguccione della Faggiuola (1250-1319), recentemente anche sulla base di un passo della celebre “Chanson de Roland “ dove è menzionato un veltro all'interno di una visione; altri invece hanno pensato genericamente a una carica (il papa, l'imperatore…), ma i versi sono volutamente oscuri ed è oggi ritenuto improbabile che Dante pensasse ad un personaggio particolare piuttosto che semplicemente all'azione di riforma in se stessa.
Una curiosità: tra i primi esegeti della "Commedia", Benvenuto da Imola (1330-1388) - che affronta il tema con molto impegno, quasi con sofferenza:
«est ergo, reiectis opinionibus vanis, ad istum passum arduum totis viribus insistendum», («respinte le vane opinioni, occorre cimentarsi con ogni energia su questo arduo passo») - finisce col ritenere «quod Virgilius loquatur de Augusto», insomma che «Virgilio con la figura allegorica del Veltro voglia indicare Augusto».
Anche chi ha pensato di poter identificare il veltro liberatore con il Cristo nulla ha potuto di fronte all'argomento insuperabile per cui Dante avrebbe dovuto parlare di un "tornare", e non di un "venire". Né ha offerto migliori argomenti l'interpretazione di coloro che hanno voluto vedere nel paladino la figura di Dante, cioè il suo Poema, la “Commedia”.
Francesco Di Montresor detto "Veltro" fu cavaliere di ventura di origini franco-veronesi, accompagnato spesso da un falco ed un levriero con cui andava a caccia fu forse la figura che contribuì ad associare nell'immaginario collettivo l'iconografia del veltro con il mito europeo della Caccia Selvaggia.
In ogni epoca, l’umanità ha dovuto combattere contro il c.d. “male”, che potevano essere i barbari nell’antica Roma, gli infedeli ai tempi delle Crociate, la cupidigia appunto.
Sarà venuto codesto “Veltro”.
Ed ora, richiamando, come è mia consolidata tradizione, i versi di Virgilio (Georg. III, 284), fulgida guida dantesta, nella loro perenne e duratura validità: «fugit interea, fugit inreparabile tempus […]», taccio e chiudo codesta mia sommaria e forzatamente molto incompleta esposizione, ma permettetemi di tacere con un mio ben modesto consiglio.
Ciascuno di noi abbia a consultare un’edizione, anche tascabile, della “Divina Commedia” e, rileggendola, applichi i versi alla nostra vita giornaliera, ma anche analizzi, confronti quanto l’Alighieri è attuale, e quanto egli aveva previsto, e con netto anticipo, per i secoli dopo di lui.
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