NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

martedì 18 settembre 2012

Il partito Nazionale Monarchico - II Parte


SORGE IL PARTITO NAZIONALE MONARCHICO

Rimanevano in Italia i 10.719.284 monarchici, dei quali dava atto la Corte di Cassazione che, il 18 giugno 1946 decideva sui reclami presentati contro i risultati comunicati il 10 giugno dalla stessa Corte « nelle forme e nei termini dell'art. 17 del D.L.L. 23 aprile 1946 n. 219 ». Per tale comunicazione il Consiglio dei Ministri aveva ritenuto che, prima della decisione sui reclami, si fosse determinata automaticamente l'instaurazione di un regime transitorio durante il quale, fino a quando l'Assemblea Costituente non avesse nominato il Capo provvisorio dello Stato, « l'esercizio delle funzioni di Capo dello Stato medesimo sarebbe spettato ope legis al Presidente del Consiglio in carica ».

Tra i 10.719.284 monarchici sorse un gruppo di cittadini a considerare se storia e cronaca consentissero di tutto dimenticare, ammainando la bandiera e mortificando gli spiriti.

Sorse, cosi, il Partito Nazionale Monarchico: di cui intendiamo scrivere, riferendoci il meno possibile, soprattutto in quest'ora, a persone; ma a giustificarne le idealità e a documentarne la condotta. Proprio nel decennale della Costituzione che non è il decennale della Repubblica.

Subito tra i 10.719.284 cittadini che votarono Monarchia si avverti diversità di opinioni. E, forse, diversità di opinioni si determinò tra quanti monarchici, impediti di votare il 2 giugno nella mostruosa assurdità della condizione, che documenteremo, creata al Paese - non identificato né nei suoi confini né nei suoi cittadini (non tutti ritornati a normalità di vita in Italia, dalle sofferenze dei campi di concentramento, dalle depredate colonie, dalle persecuzioni politiche) non credettero, come non credono di rinnegare e nemmeno di tacere memorie e di rinunciare a speranze.

Cominciò, così, subito a circolare la serie dei «luoghi comuni». Il primo, il luogo comune del «ormai», servito dal rilievo che le « Monarchie » vanno spegnendosi nessuna riaccendendosi. A questo primo luogo comune, fu facile al Partito Nazionale Monarchico, come ad ogni monarchico, contrapporre l'altro argomento, anzi l'altra constatazione, che se questo rilievo - non ambiziosamente storico ma egoisticamente comodo valesse, la conclusione a trarsi sarebbe ben più vasta. Non una Repubblica - stile di vita (Mazzini) - si è affermata in alcuna parte del mondo; le Repubbliche - libertà politica sono sorte sulle rovine di altre Repubbliche e non soltanto pseudo-repubbliche; ma in Italia, proprio in Italia, la Monarchia - che non è un Re e tantomeno parte della vita di un Re - fu faro e consacrazione di coraggiosa libertà politica. Storicamente è esatto (e la dimostrazione, pur facile, esigerebbe una ben più vasta trattazione) che là dove caddero i Regni - e non si instaurarono i regimi proletari (le Repubbliche socialiste e comuniste) - si instaurarono le peggiori dittature, senza stile di vita, senza libertà politica, senza impostazione sociale.

Frantumata la Monarchia asburgica, ecco i tentativi di vita artificiosa, i deboli contrafforti in funzione di difesa sociale della vecchia società - là dove non sono le compagini, non più nazionali, satelliti del grande Impero comunista. La Germania di Guglielmo ha visto prima la Repubblica di Weimar, la dittatura anticomunista di Hitler e, oggi, le contrapposte Germanie per sistemazioni sociali opposte. Non i Re delle Patrie tradizionali; attraverso i Dittatori, negazioni di tutta la democrazia  politica e di tutte le libertà, l'avvento del Proletariato in dittatura.

Per concludere: si sono sottratti i Re - non si sono aggiunte né libertà né democrazia.

Se la rassegnazione, la politica dell'ormai, dovesse comandare spirito ed azione - è questione di tempo, forse di poco tempo - nessuna Repubblica, quale sognarono i « fissati » dell'anti-Dinastia (il piccolo, quando non grottesco, argomento contro il Re figlio di Re), reggerà ai grandi urti delle esperienze in cammino.

Ma ben altro - e ben più dannoso - in Italia l'altro luogo comune contro il quale insorse il Partito Nazionale Monarchico e che fa vittima il Partito Nazionale Monarchico: esso intenderebbe legittimare le «renitenze» che, sottraendo i quadri alla ideale battaglia rendono penosa la vita di quanti potrebbero prodigarla nella maggiore serenità degli studi e non nel convulso di fatiche senza requie dove e anche da soffrire per il meglio che non è consentito. per il troppo che viene imposto.

Mai il Partito Nazionale Monarchico ha pensato di istituire una simbolica riserva di «caccia e pesca > dell'ideale monarchico.

Mai il Partito Nazionale monarchico ha pensato di essere il Partito del Re (1). Ma a Re partito, non vale lo slogan: il Re non può essere capo di un Partito. Dei monarchici che considerassero il loro Re, il Re loro, negherebbero l'alta - che è storica e filosofica, civile e religiosa - giustificazione della Monarchia, soprattutto della Monarchia moderna: la espressione unitaria, mediatrice, moderatrice della Nazione.

La libertà, come la democrazia, sono pazienza ed apostolato.
Ciò ha inteso subito - al suo stesso sorgere - il Partito Nazionale Monarchico, il quale ha avvertito che, nel suo secondo aggettivo, poneva l'obiettivo finale della propria attività: mentre nel primo aggettivo indicava la lealtà del suo assunto nazionale e nel suo sostantivo allontanava dalla Monarchia le responsabilità dei suoi eventuali errori come Partito. Esso si proponeva, in vista del traguardo finale non dissimulato, di raggiungerlo attraverso gli adempimenti nazionali per la via che, in regime di libertà e di democrazia, è anche - se non soltanto - la via partitica. E sinanco nel simbolo che esso eleggeva era la prova dell'adempimento patriottico: per la Nazione, la Stella indicando e la Corona, associata alla Stella, dando, anche visibilmente al Paese, la indicazione rivendicatrice del bene indissolubile del Re e della Patria.

D'altro canto - la vecchia bandiera rimanendo nel cuore cosi come i suoi vecchi canti - il Partito, proprio per le responsabilità e la destinazione costituzionale dell'Istituto superiore ai Partiti, si assumeva di combattere, proclamando all'Italia che le sue vittorie sarebbero state le tappe verso il risorgere dell'Istituto, mentre le sue sconfitte sarebbero state le proprie sconfitte. Il mezzo, ove avesse significato errore, non avrebbe condannato il fine, affidato al di là del Partito alle giustizie della Storia.

Peraltro i Monarchici, che non abbandonavano soltanto ai capricci o alle fortune della Storia le loro speranze - come le loro memorie, ma soprattutto le loro speranze avvertivano la necessità che le più recenti ingiustizie non si cancellassero dai cuori e dalle menti e coglievano dalla cronaca recente le ragioni della loro tristezza civile per l'epilogo drammatico per due Re e per il Regno onde risalire a rivendicazioni di Storia, obliata e manomessa.

Pretendere oggi i riconoscimenti che pure sarebbero meritati è, forse, ingenuo: è, anzi, certamente ingenuo anche perché vie facili sono aperte ai facili non compromissivi successi; e le vie furono, negli anni del tolle tolle facilissime. Era bastato, infatti, offrire il sacrificio della Monarchia a taluni per ottenere la cittadinanza ciellenista e la parte - magari, nell'immediato, la più grossa - delle fortune del Potere: mentre per gli altri - dalla destinazione finale sovvertitrice del presente ordine (eufemisticamente cosi definito) sociale - il sacrificio della Monarchia rappresentava la prima tappa, comunque conclusivamente percorsa. Infatti, in ogni caso, per i « rivoluzionari » - quelli non da burla - la eliminazione della Monarchia, anche quando la Rivoluzione segni o segnasse il passo, rappresenta pur sempre un realizzato vantaggio in vista del « più a praticarsi! ».

Molto argutamente è stato scritto che il sacrificio della Monarchia per uomini e partiti - non nativamente repubblicani - parve espediente rallentatore della marcia che sembrava voler attingere la « palingenesi »; i più ottimisti tra questi partiti - e particolarmente il maggior Partito - si illudevano che, con il sacrificio della Monarchia, si potesse pretendere il saldo dai partiti rivoluzionari; essi, invece, il sacrificio dell'abdicazione e dell'esilio accolsero come acconto! L'alligatore ha inghiottito il piccolo corpo del Sovrano (che fu perlomeno anche il Sovrano di Vittorio Veneto), ma le fauci sono tuttora aperte. E chi vivrà vedrà.

Sta di fatto, comunque, che il Partito Nazionale Monarchico non omise di denunciare la ingiustizia storica nei confronti della Monarchia del Risorgimento, che, per le ragioni sia pure in sintesi predette, fu anche la ingiustizia del referendum: imposto prima, attuato poi, interpretato infine nei modi non tranquillanti le ostentate premesse democratiche, alle quali pure si sarebbe voluto, e dovuto, riferire l'Italia della Liberazione; divenuta patrimonio in monopolio di partiti che, se indubbiamente vi contribuirono e con durati incontestabili sacrifici (di destinazione prevalentemente rivoluzionaria), non avrebbero dovuto dimenticare gli apporti di due date - il 25 luglio e l'8 settembre 1943 - nonché quella del 13 ottobre, donde si determinò il piccolo prode Esercito dalla non ammainata bandiera.

(1) Acutamente e nobilmente Carlo Delcroix, deputato del PNM ha sempre sottolineato nei suoi scritti e discorsi che i successi del Partito sono vittorie per la causa monarchica mentre le sconfitte sono soltanto sconfitte del Partito.

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