di Emilio del Bel Belluz
L’uomo che aveva cercato la morte venne soccorso da tutta la mia famiglia; Elena e Genoveffa quella sera fecero di tutto per metterlo a proprio agio. Gli furono consegnati degli indumenti asciutti e puliti, anche se usati. Ci ringraziò di cuore per il nostro interessamento nei suoi confronti e lasciò trasparire una parvenza di voglia di ricominciare a vivere. Mangiò con molto appetito e la stanchezza lo assalì subito. Si mise a dormire su un materasso vicino al fuoco. L’indomani ci saremmo fatti raccontare qualcosa di più sulla sua triste vicenda umana. Nel frattempo arrivò Ludovico che aveva avvertito il padre che sarebbe venuto a prenderlo il giorno dopo. Ludovico non si fermò molto con noi perché aveva deciso di passare dalla sua amata. Mentre lo accompagnavo alla porta, mi disse che era stata una grande emozione ritrovare una persona che si pensava morta. Raccontai a Ludovico che mi aveva molto colpito la figura del frate e che mi sarebbe piaciuto stare ad ascoltarlo. Sicuramente Fra Felice, quello era il suo nome, era una persona saggia e ricca di spiritualità. Ludovico aveva la mia stessa opinione. Ci lasciammo mentre si sentivano i dieci rintocchi del campanile del paese. Quella notte faticai a prendere sonno; rimuginavo su quello che era accaduto durante la giornata e alla disperazione di un padre che ormai pensava d’aver perduto il proprio figlio. Elena si era accorta che non stavo dormendo e mi chiese a che cosa stessi pensando. Le risposi solamente che stavo cercando di addormentarmi e che la meta del sonno era vicina. Mi aiutava molto a cadere nelle braccia di Morfeo, l’immaginare lo scorrere placido delle acque del fiume e le lunghe ombre che si proiettavano su di esse dalla folta vegetazione che costeggiava le sue rive. Quando da piccolo non riuscivo a dormire, mia mamma mi diceva di pregare l’Angelo del sonno che mi avrebbe aiutato. Costui era diventato il mio migliore amico e lo invocavo in ogni mia necessità. Quella notte ringraziai anche il Buon Dio per tutto quello che ogni giorno mi offriva e finalmente mi addormentai. Alle prime luci dell’alba mi alzai e andai in cucina dove l’uomo, che aveva tentato di annegare, era già desto. La sera prima non gli avevo neppure chiesto che nome avesse, e mi disse che si chiamava Franco. Quella mattina non andai a pesca, mi soffermai a parlare con lui che mi disse che provava molta vergogna per l’insensato gesto e per la grande preoccupazione data alla sua famiglia. Quando giunse Genoveffa, si apprestò a preparare la colazione. Franco aveva un viso stanco, si mise a parlare con molta timidezza, e si era reso conto che sarebbe stata una pazzia togliersi la vita. Il frate che lo aveva salvato gli aveva parlato di tutte le cose belle che la vita poteva riservargli e, soprattutto, che l’esistenza era un dono di Dio e, pertanto, non ci apparteneva. Fra Felice sembrava essere stato messo proprio sulla sua strada per evitare una tragedia. Mentre parlavamo in cucina davanti alla fumante tazza di latte, e accompagnati da un dolce che aveva preparato Genoveffa, arrivò il padre di Franco che quando vide il figlio sano e salvo, lo abbracciò e non disse nulla. Franco invece chiedeva scusa al genitore per quello che aveva patito in quelle ore d’angoscia, ma ora era tutto finito. Il padre accettò una buona tazza di caffè e un pezzetto di dolce. Le sue parole di gratitudine verso di noi sembravano non avere fine . Ludovico si offerse di trascorrere del tempo con Franco che , ovviamente, poteva contare anche sul nostro aiuto. Avrebbe potuto venire a trovarci finché le cose che lo turbavano non fossero passate. Franco timidamente ringraziò commosso. Mentre eravamo a tavola arrivò Elena con il suo pancione che quella mattina sembrava ancora più grande. La sua presenza diede alla conversazione la bellezza che in quel momento mancava. Il padre del giovane mi chiese di parlare un attimo da soli, e uscimmo da casa. Da una tasca prese del denaro e me lo porse a ricompensa per quello che avevo fatto. Gli dissi che non volevo nulla, se avevo fatto qualcosa di buono il premio me lo avrebbe dato il Buon Dio. L’uomo non ne volle sapere e mi mise in una tasca il denaro dicendomi che stavo per diventare padre per la quarta volta e qualche soldo in più mi avrebbe fatto comodo. Accettai la somma di denaro che non era poca, dicendogli che l’avrei divisa con quel frate che aveva aiutato suo figlio. Avevo deciso di raggiungere al più presto Fra Felice. La barca scivolava tranquilla sul fiume, la giornata era calda, e una leggera brezza ci scompigliava i capelli. Ludovico era come al solito di buon umore, l’amore ricambiato per Serena aveva dato una nuova impronta alla sua vita. Per raggiungere il posto dove si era fermato Fra Felice non impiegammo molto tempo. La campana della chiesa suonava otto rintocchi. Spesso pensavo alla chiesa che osservava lo scorrere del fiume, sempre diverso, con le sue acque cangianti: come sono diversi i caratteri delle persone. Quella mattina mi sentivo felice e non vedevo l’ora di dividere il denaro con Fra felice che sicuramente ne avrebbe fatto buon uso. Quando arrivammo, vidi il fuoco che ardeva ancora e il fumo che si stagliava verso il cielo. Ma non riuscivo a capire come il frate non si fosse ancora risvegliato. Era ricoperto da una vecchia giacca, mi avvicinai e lo chiamai a voce alta, scrollandogli le spalle ossute. Mi rispose con un lamento. La sua barba bianca era sporca di sangue, e cercai di parlargli, ma come risposta ebbi delle parole appena abbozzate. Allora raccolsi le sue povere cose che teneva in uno zaino militare, lo caricai sulla barca deciso di portarlo a casa mia per farlo vedere da un medico. Il frate aveva gli occhi chiusi e cercava di dire qualcosa che veniva coperto dal rumore dei remi. Ludovico mi disse che il frate doveva essersi ammalato dopo aver salvato l’uomo dal fiume, in seguito ad un grave raffreddamento del corpo. Raggiungemmo la mia casa e con l’aiuto di un passante che ci aveva visti arrivare, lo portammo dentro. Ludovico uscì in fretta per andare ad avvertire il medico ed il parroco. In casa lo adagiammo nella stanza più grande, il sangue fuoriusciva con i colpi di tosse e la sua fronte scottava come non mai. Genoveffa gli si avvicinò. Era l’unica che ne capiva qualcosa, avendo curato dei feriti tornati dal fronte. Il volto di Fra Felice era pallido come un cencio, temevo che morisse ancora prima che giungessero il prete e il dottore. Ma subito ,apparvero entrambi. Il dottore dove averlo visitato, scuoteva di nascosto la testa, per lui non c’era più nulla da fare. Il parroco gli aveva dato l’estrema unzione, e gli aveva messo tra la mani un rosario dai grani color nero che aveva tolto da una scatolina. Il frate era semicosciente, ma a noi apparve che capisse che vicino a lui ci fosse un ministro di Dio. Dopo la benedizione la cute del suo volto si distese. Allora gli presi la mano che era quasi fredda. Il sonno della morte si stava avvicinando, quel momento che il poveretto aveva atteso per tutta la vita. Qualche minuto dopo, aprì gli occhi e fissò per un attimo il crocefisso che aveva davanti, mi strinse la mano e spirò. Il dottore chiuse gli occhi al frate e certificò la sua morte. Il sacerdote disse che lo avrebbe sepolto nel piccolo cimitero di Villanova di Motta. Decidemmo che si facesse un funerale semplice, come in modo umile aveva vissuto. Con il denaro, che avevo ricevuto il giorno prima dal padre di Franco, avrei pagato le spese per la sepoltura e per la croce issata sulla tomba. Questa mia decisione fu pienamente accettata da tutti, quel frate era entrato nella nostra famiglia e avrebbe avuto lo stesso trattamento che si riservava a una persona cara. Mandai il sacrestano dai frati di Motta di Livenza affinché mi potessero dare un saio , perché quello che aveva addosso Fra Felice era tutto liso e rattoppato. Il funerale vennero celebrato a Villanova da due frati giunti dalla basilica dei Miracoli di Motta e molta gente vi partecipò. Nessuno di loro conosceva questo umile francescano, che evidentemente, era in pellegrinaggio per raggiungere il Santuario. Quando lo condussero al cimitero, il sole comparve tra le nuvole come se volesse salutarlo nel suo ultimo viaggio. Venne sepolto vicino al parroco del paese che era morto tanti anni prima: Don Carlo, un sant’uomo. Di ritorno dal funerale, presi in mano il suo zaino militare, logoro dall’uso e che conteneva pochi effetti personali: una povera croce in legno, un quadernetto nero, chiuso con uno spago sfilacciato e una scodella e delle posate in alluminio. Chiesi a Genoveffa, che sapeva decifrare anche le calligrafie difficili, avendo lavorato in una scuola, d’iniziare a leggere delle pagine del piccolo quaderno. Aveva scritto che negli ultimi giorni s’era fermato per riparare il tetto e fortificare le pareti di un capitello. Quella era la sua missione: ripristinare le edicole votive. Scriveva, inoltre, che dormiva rannicchiato in una coperta e per mangiare aveva bisogno della carità del prossimo, anche se, talvolta, riusciva a pescare dei pesci in qualche fiume, servendosi di una lenza attaccata allo spago. Raccontava che era un frate del convento di Bassano del Grappa. Fra Felice non aveva in vita alcun parente e aveva sempre vissuto in povertà. Alla fine della lettura del piccolo diario mi commossi. Quel quaderno l’avrei tenuto in suo ricordo. Sentivo verso il frate dell’affetto e della stima, lo consideravo come un fratello che avrei voluto conoscere meglio e che mi fece capire che la più grande dote che ti faceva avvicinare a Dio era l’umiltà. Genoveffa dovette lasciarmi per andare da Elena, il parto si stava avvicinando. La piccola croce in legno la appesi in cucina, a protezione di tutti coloro che vi abitavano.
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