Tra i colpi messi a segno da Mussolini per subordinare lo Stato al Pnf vi fu l'accostamento universale del fascio littorio allo scudo sabaudo, incluso lo stemma del Regno dall'11 aprile 1929.
Anniversari scomodi
La Monarchia non è una persona. È un sistema
“L'istituto monarchico non
funzionò a tempo, perché non era più abbastanza monarchico. Oggi, anziché ad
abbatterlo per punire la persona che lo incarna (Vittorio
Emanuele III) bisognerebbe mirare a reintegrarlo. Bisognerebbe principalmente
convincersi che la Monarchia non è una persona, è un sistema, al quale tutta la
Nazione e i singoli cittadini sono interessati, e riconoscere che il sistema
era stato distrutto da Mussolini e dal partito, e che se il re non aveva potuto
e saputo opporsi, nessuno ne aveva preso le parti contro l'usurpazione. Su
questo punto essenziale hanno sbagliato tutti; anche quei pochi che, come me,
si sono sforzati di difendere l'autorità, il prestigio, vorrei dire la poesia
della Corona. Noi stessi, confessiamolo, non abbiamo abbastanza compreso quella
verità che oggi appare lampante: l'irriducibile antitesi, almeno nella civiltà
politica attuale, fra Monarchia e Stato totalitario”.
Questo amaro bilancio
autocritico tracciato da Luigi Federzoni mentre, per sfuggire alla vendetta di
Mussolini, era rifugiato nella soffitta dell'Ambasciata del Portogallo presso
la Città del Vaticano contiene una parte della verità storica: quella che
all'indomani del 25 luglio e dell'8 settembre 1943 appariva a chi, come lui, il
29-31 ottobre 1922 aveva accettato con molte riserve l'ascesa di Mussolini a
presidente del Consiglio ma poi ne aveva condiviso il percorso, nascondendo a
se stesso il proposito ultimo del “duce”, cioè la subordinazione dello Stato al
partito nazionale fascista, nato e morto repubblicano (di Federzoni v. Diario
inedito, 1943-1944, a cura di E. Ciccozzi, con saggio di Aldo G. Ricci, ed.
Pontecorboli)
Anche in posizioni apicali di
potere (all'indomani dell'affare Matteotti” gli venne affidato era il ministero
dell'Interno, quale garanzia contro l'assalto allo Stato da parte dei “ras” e
dei consoli della Milizia volontaria di sicurezza nazionale), come altri
gerarchi di matrice liberal-nazionalistica Federzoni visse per un ventennio
nell'ambiguità: preferì non vedere l'“irriducibile antitesi” tra monarchia
statutaria e regime di partito unico. Carducciano cattolico, avvolse la realtà
nelle bende della retorica nazional-fascista e concorse a sgretolare giorno per
giorno le fondamenta della monarchia e ad elevare il monumento al fascismo e al
suo “duce”, sino a farne l'uomo del Destino (o “della Provvidenza” come scrisse
Pio XI).
Nell'articolo su La legge del Gran
Consiglio scritto all'indomani della “costituzionalizzazione del Regime”
(1928) Giovanni Gentile plaudì all'“inizio” della “nuova storia, a cui tutti
gli italiani sono invitati a collaborare sotto l'emblema del Littorio. Non più
fascisti e antifascisti, ma Italiani; non più uomini della Rivoluzione, e
conservatori del vecchio regime; ma cittadini tutti della nuova Italia, stretti
dal comune proposito di concorrere ciascuno per la sua parte alla grandezza e
potenza della Nazione. Dentro lo Stato, la libertà con la disciplina; fuori,
niente. Dentro la nuova legge ogni diritto è sacro perché è un dovere. È un
dovere del cittadino verso se stesso, perché è un dovere verso la Patria. È il
nuovo ideale cui guarda e deve guardare il Partito Fascista, che nel suo
trionfo sente il peso enorme della responsabilità che si è assunta”.
In realtà, l'invenzione del
Gran Consiglio, “organo supremo del Regime sorto dalla Rivoluzione dell'ottobre
1922” (legge 9 dicembre 1928, n. 2693), non sanò affatto il dualismo fra la
Corona e il partito unico. Quest'ultimo aspirò, senza però riuscirvi, ad
avocare la somma del Potere. Latente sotto la maschera della apparente
“diarchia”, il contrasto era destinato a esplodere quando il re avesse deciso,
come fece il 25 luglio 1943, di sconfessare l'“armistizio” del fascismo verso
la monarchia, enunciato unilateralmente da Mussolini nel discorso di Udine del
20 settembre 1922, pronunciato per ottenere l'avallo dei monarchici al suo
ingresso nel governo. A conferma della fragilità dell'interpretazione gentiliana
del ruolo del Gran Consiglio basti ricordare che dal novembre 1926 egli prese
parte alle sue sedute solo come presidente dell'Istituto nazionale fascista di
cultura, la cui stessa insegna pretendeva di ingabbiare la cultura (che in sé
non è nazionale ma universale) negli steccati del “fascismo”. Ricalcate in Dottrina
politica e sociale del fascismo ( ed
nell'Enciclopedia italiana), le pagine di Gentile divennero
premessa dello Statuto del Pnf deliberato dal Gran Consiglio in una delle sue
ultime riunioni, l'11 marzo 1938.
La Camera dei Fasci e delle
Corporazioni (1939)
Il “compromesso” del 1922 fu
ribadito all'inaugurazione della XXX legislatura, I della Camera dei Fasci e
delle Corporazioni, il 23 marzo 1939, anno XVII dell'era fascista. Presenti il
principe ereditario Umberto di Savoia, i principi del sangue con le rispettive
Case militari e civili, la regina imperatrice (che rispose al grido “Viva la
regina” salutando romanamente), nonché un gruppo di Sansepolcristi e una
rappresentanza della Falange Spagnola, il re rispose col saluto romano alle
“vivacissime prolungate acclamazioni” e dopo il giuramento collettivo dei
“Consiglieri nazionali”, nuova denominazione dei “deputati”. Vittorio Emanuele
III rievocò anzitutto la conquista dell'Etiopia (riconosciuta da Londra il 16
novembre 1938) e la creazione dell'Impero, le sanzioni economiche deliberate
dalla Società delle Nazioni contro l'aggressione italiana a uno Stato suo
membro e l'uscita dell'Italia da “un organismo che ormai sopravvive a se stesso
per forza di inerzia e senza alcuna particolare utilità per il mondo”.
Ricordate le “relazioni particolarmente amichevoli” con Ungheria, Jugoslavia,
Polonia, Svizzera e Albania, l'“Asse Roma-Berlino” e i motivi di tensione con
la Francia, il sovrano assicurò che l'Italia desiderava che la pace regnasse
“il più a lungo possibile”. Del resto (non lo disse) essa era uscita spossata
dalla guerra d'Etiopia e dall'intervento del Corpo Truppe Volontarie in Spagna
(senza adeguata contropartita politica) a sostegno dei “Quattro generali”,
contro il governo repubblicano di Madrid. Accennò all'imminente Carta della
Scuola e alla riforma del codice civile, “specie nella sua parte che si occupa
del diritto familiare e di tutti i problemi afferenti alla difesa della nostra
razza”, alla quale “dal suo inizio” il regime aveva dedicato “le sue più
costanti energie”. Concluse con un cenno alla “intesa e collaborazione” tra
Stato e Chiesa”, “nella sfera delle reciproche attribuzioni e responsabilità”,
e all'“avvenire garantito dalle armi e dalla sempre più profonda coscienza
unitaria nazionale temprata alle dure prove della guerra e ai compiti non meno
arditi della pace”. Prima di sciogliersi, senatori e consiglieri nazionali –
narra la cronaca pubblicata nella “Gazzetta Ufficiale” del 23 marzo 1939 –
“intonarono in coro vibrante gli inni della Rivoluzione”.
Venti giorni dopo, il 6
aprile 1939, scattò l'aggressione dell'Italia contro l'Albania la cui corona il
16 fu assunta dal re, mentre quattro notabili del Paese delle Aquile furono
nominati senatori per la 20 categoria (“illustrazioni della patria”).
Come e quando nacque il
Regime
Inizialmente appagata
dall'ascesa del partito al potere, la componente repubblicana del partito
premeva nel tempo premette sempre più su Mussolini per un “cambio di passo” nei
confronti della monarchia. Il duce però si condusse Mussolini con prudenza e
più volte ribadì la priorità dello Stato rispetto al partito. Il 13 giugno 1923
da presidente del Consiglio il telegrafò ai prefetti: “Unico solo rappresentante
autorità Governo nella Provincia è il Prefetto e nessun altro fuori di lui (…)
Fiduciari provinciali fascisti nonché diverse autorità partito sono subordinate
Prefetto. Intendesi che essendo Fascismo partito dominante Prefetto dovrà
tenere contatti con fascio locale per evitare dissidi e tutto ciò che possa
turbare ordine pubblico”. All'epoca, va ricordato, dopo la fusione con i
nazionalisti (febbraio 1923), il gruppo parlamentare del PNF contava meno di 50
dei 545 deputati in carica e il partito era ancora lontanissimo dall'essere
“dominante” rispetto al socialista, al popolare, ai demo-sociali e alla
ondivaga pletora di “costituzionali”. Sennonché con l'uso sistematico della
violenza ai danni degli oppositori i suoi militanti occupavano “nei fatti” lo
spazio che non avevano sul piano meramente numerico dei seggi.
Neppure con le elezioni del 6
aprile 1924 i deputati iscritti al Pnf risultarono maggioritari. Se ne
contarono 227 su 545. Molti arrivavano dalle file di liberali, popolari,
“democratici”. Però sin dalla convalida degli eletti, nel corso di una seduta
tumultuosa, fu chiaro che il partito non esitava a imporsi per intimidire gli
incerti e isolare le opposizioni residue. In quei frangenti e sino all'inizio
del 1926 le reiterate sollecitazioni al sovrano a intervenire per ripristinare
l'equilibrio dei lavori parlamentari, in specie alla Camera dei deputati,
rimasero senza risposta perché non era provato che essi fossero in contrasto
con lo Statuto. Non era il re a doverlo dire, ma le Camere. Esattamente come
avviene oggi. Nessun presidente della Repubblica ha mai pubblicamente censurato
le squallide piazzate inscenate nei due rami del Parlamento.
Il 5 gennaio 1927, dopo aver
messo a segno le leggi “fascistissime” (a cominciare dall'obbligo dei
dipendenti pubblici, militari compresi, di dichiarare la propria appartenenza
ad associazioni), compreso il ripristino della pena di morte per attentati alla
sicurezza dello Stato e ai titolari sommi del potere, Mussolini ribadì: “Il
prefetto, lo riaffermo solennemente, è la più alta autorità dello Stato nella
provincia. Egli è il rappresentante diretto del potere esecutivo centrale”. Più
di ogni altro, i fascisti gli dovevano quindi “rispetto ed obbedienza” perché
era il “più alto rappresentante politico del regime”. Avocata all'esecutivo la
facoltà di emanare norme giuridiche, sostituiti i consigli comunali elettivi
con l'ordinamento podestarile e quelli provinciali con presidi (poi rettori),
imbrigliata la stampa periodica, costrette le associazioni massoniche a
sciogliersi per evitare rappresaglie ai loro affiliati, vietati i partiti
d'opposizione, dichiarati decaduti i deputati assenti ingiustificati alle
sedute e preso sotto controllo l'apparato dello Stato, il “capo del governo”
(in forza della legge 24 dicembre 1925, n. 2263) aveva motivo di anteporre lo
Stato, “formato” in massima parte da dirigenti e funzionari cresciuti nell'età
giolittiana e durante la Grande Guerra, ai quadri di partito dalla spesso
posticcia preparazione culturale e giuridica, come documenta Guido Melis in La
macchina imperfetta ed. il Mulino, Premio Acqui Storia).
Il 26 maggio 1927, nel
cosiddetto “discorso dell'Ascensione”, messe nel conto le residue “frizioni”
(“la natura umana, disse il duce con spunto autobiografico, non è facilmente
addomesticabile”), Mussolini dichiarò alla Camera: “ad ogni modo io non darà
mai la testa di un prefetto a nessun segretario federale, e soprattutto se
questo prefetto viene dal Partito Nazionale Fascista, e se è, come deve essere,
un probo funzionario, servitore devoto del regime”. Ambiguità? Doppiezza?
Scaltrezza? Temporeggiava. La “sua” repubblica nondum matura erat.
L'instaurazione del regime
non avvenne né il 28 (o, più esattamente il 31) ottobre 1922, con
l'insediamento del governo di convergenza costituzionale, né alla fusione dei
nazionalisti nelle file dei fascisti, né con la vittoria della Lista nazionale
(6 aprile 1924) ma, passo dopo passo, con con le leggi varate dal Parlamento
nel quadriennio seguente, sino alla riforma elettorale propugnata da Alfredo
Rocco, con la sola opposizione significativa di Giolitti, secondo il quale,
eliminando alla radice la libertà di scelta dei rappresentanti alla Camera,
essa costituiva un vulnus insanabile dello Statuto. Non gli venne
obiettato, però, che la Carta albertina aveva istituito l'elezione dei
deputati, demandando al legislatore l’approvazione la legge elettorale; sicché
la responsabilità politica di quel vulnus non andava imputata al
sovrano, ma ricadeva sui parlamentari in carica e soprattutto sui deputati,
inclini a farsi male da soli.
L'imposizione del giuramento
di fedeltà: a quale fascismo?
Forte dello straripante
successo ottenuto nelle elezioni del marzo 1929, preceduto dalla Conciliazione
Stato-Chiesa dell'11 febbraio precedente, Mussolini ribadì i principi cardini:
“Il partito non è che una forza civile e volontaria agli ordini dello Stato,
così come la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale è una forza armata
agli ordini dello Stato”.
L'ordinamento della Milizia e
lo statuto del Pnf risultarono autoreferenziali e conculcarono le competenze
della magistratura ordinaria. I nuovi iscritti al partito, infatti, erano
tenuti a giurare davanti al segretario politico (elevato a garante pubblico
della moralità politica) “di eseguire senza discutere gli ordini del
Duce e di servire con tutte le forze e, se necessario, col sangue la causa
della Rivoluzione Fascista”, con la divisa “fede, coraggio, disciplina e
onestà”. Ripetutamente aggiornati, gli statuti del PNF e della Milizia non contennero
mai alcun riferimento né al re, né alla monarchia. A quel modo perdurò
l'ambiguo compromesso del 1922. Il fascista espulso dal Partito andava messo al
bando dalla “vita pubblica” senza che fosse precisato se per tale si intendeva
solo quella “politica” o comprendesse anche l'accesso a impieghi pubblici,
l'esercizio di attività private (commerciali, agrarie, industriali,
bancarie...) e le libere professioni. I dati disponibili dicono che nel 1943 a
Torino solo un decimo degli avvocati era iscritto al Pnf.
L'ambiguità era nelle norme. I
deliberati del Gran Consiglio, dopo la sua costituzionalizzazione (9 dicembre
1928) assunsero valore pubblicistico: di esso facevano parte il capo del
governo, i presidenti delle Camere, i ministri, una serie di dignitari e di
gerarchi, nominati e revocati su proposta del capo del governo ma “con decreto
reale”.
La lunga marcia mussoliniana
mirante a usare il partito per impadronirsi dello Stato dal suo interno seguì
un percorso sinuoso, non sempre coronato dal successo. Mentre ottenne che il
fascio littorio, contrassegno del partito, fosse accostato allo scudo sabaudo
sia nello stemma dello Stato sia nelle insegne degli edifici pubblici, il duce
fallì nel proposito di inserirlo nella bandiera del Regno per la ferma contrarietà
di Vittorio Emanuele III.
Né ebbero successo i ripetuti
progetti di rendere il Senato parzialmente elettivo, come ventilato da Luigi
Luzzatti dal 1910. Come ampiamente documentato, l'iscrizione all’Associazione fascista
dei senatori non comportò adesione ideologica al regime né, meno ancora,
subordinazione alle sue direttive. La Camera Alta rimase estremo bastione della
monarchia.
Riordinato il non facile
rapporto tra la Milizia e l'Esercito, altri tentativi di subordinare la
macchina dello Stato alle gerarchie e alle direttive del partito ebbero modesti
nelle Forze Armate. Però nel 1931, in vista del decennale dell'avvento al
governo, Mussolini impresse l'accelerazione per subordinare lo Stato al
partito. Col regio decreto n. 1277 del 28 agosto fu imposto anche ai docenti
degli istituti superiori di istruzione ed universitari di pronunciare la
formula di giuramento già in uso per i pubblici impiegati: “Giuro di essere
fedele al Re, ai suoi Reali successori e al Regime fascista, di
osservare lealmente lo Statuto e le altre leggi dello Stato, di esercitare
l'ufficio di insegnante e adempiere tutti i doveri accademici col proposito di
formare cittadini operosi, probi e devoti alla Patria e al Regime
fascista. Giuro che non appartengo né apparterrò ad associazioni o
partiti, la cui attività non si concili coi doveri del mio ufficio”.
Novant'anni orsono i chierici
dell'Educazione nazionale giurarono in massa. Come ricorda Ruggero Zangrandi in
Il lungo viaggio attraverso il fascismo (amaro regolamento di
conti all'interno dei tanti fascio-comunismi pullulati in un'Italia sempre in
crisi d’identità), nella Storia del fascismo Luigi Salvatorelli scrisse
“certamente non che tutti i giuranti fossero o fossero divenuti di convinzione
fascista. E neppure che tutti giurassero per semplice tornaconto o comodità. Vi
furono quelli attaccati all'insegnamento come attività personale e come
missione. Dio solo giudica i cuori”. Per rispetto nei suoi confronti si può
ritenere che nell'età dei totalitarismi il Grande Architetto dell'Universo
avesse altre priorità. L'anno seguente un fiume di “intellettuali” montò la
guardia alla Mostra del Decennale. Il Re faceva la spola tra San Rossore e
Roma, sempre più isolato: futura vittima sacrificale del ritinteggio di una
miriade di camicie nere che nel 1943-1948 divennero rosse, bianche, verdi…:
tutto fuorché azzurro Savoia.
Aldo A. Mola
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