di Aldo A. Mola
Il governo s-mascherato
Il governo ha gettato la maschera. La infligge
agli italiani, quando ancora si permettono di parlare o persino di pensare. Tra
un po' la dovranno “indossare” anche nel sonno. Ma non è questo il solo
obiettivo del governo di Sua Emergenza Conte, Zingaretti e compagnia cantante.
Il suo intento ultimo è di imporre tappi negli orecchi e benda sugli occhi. Al
villan non far sapere, non far vedere e, soprattutto, non farli parlare... Dopo
la mascherina e la benda verrà la mordacchia. Così gli italiani potranno essere
rosolati come Giordano Bruno senza che se ne odano gemiti e urla.
L’esecutivo si è s-mascherato con l'accordo di
maggioranza per campare sino al 2023. Il suo fine dichiarato è rimanere al
potere sino alla scadenza naturale della legislatura. Un traguardo
lontanissimo. Le conseguenze sarebbero devastanti. Vediamone alcune.
Ho il Potere assoluto...
In primo luogo questo governo scalcinato,
litigioso e inconcludente vuole perpetuare il pieno controllo del Potere con
tutti gli strumenti ordinari e straordinari: decreti-legge, decreti del
presidente del consiglio dei ministri (screditati ma reiterati alla faccia di
tutti i costituzionalisti), richiesta di poteri speciali, imposizione del voto
di fiducia quando la maggioranza, sfarinata, è pericolante. Esso, insomma, usa
tutti i ben noti trucchi del mestiere.
Per reggere, questa coalizione, che esiste solo
per esercitare il Potere, ha bisogno che il paese stia in ginocchio, prono,
chiuso in casa. Di lì i tanti espedienti attivati da un mese a questa parte.
Dopo aver imposto il rinvio delle elezioni regionali e comunali e il loro
accorpamento al 20 settembre, l'Italia stava così bene (a detta del governo) da
permettersi di andare alle urne senza pericolo alcuno. Conte ha fatto il 20
settembre quel che fecero Sánchez con la superflua festa dell'8 marzo in Spagna
e Macron col primo turno delle amministrative in Francia: eventi acceleratori
del contagio. Lo scorso marzo si poteva concedere che anche i capi di governo e
di stato fossero un po' imprevidenti e persino fessi. Il 20 settembre no. Tanto
più che Conte Giuseppe e la sua beneamata Azzolina Lucia avevano assicurato
l'apertura delle Scuole il 14 precedente in piena sicurezza (altra asinata,
veduti i fatti e la realtà odierna).
In sintesi, questo governo – Cinque stelle,
Democràt, Liberi/uguali e, va detto, Italia Viva, che viene percepita come
connivente – non ha solo mancato di provvedere tra maggio e ottobre ma ha
insistito negli errori anche nell'autunno. Un giorno dopo l'altro.
Improvvisando. Con l'acqua alla gola. Rinviando. Promettendo. Polemizzando con
le Regioni e i Comuni, chiudendo gli occhi dinnanzi alla realtà. E adesso
pretende di rimanere in carica per altri due lunghissimi anni e mezzo...
Permanendo al Potere, questo governo, in
combutta con Protezione civile e Commissari vari, continuerà a nominare
centinaia di esperti usa e getta, ad allestire sontuose quanto inutili sfilate
di perdigiorno (come accadde a Villa Pamphili) senza alcun effetto pratico se
non lo sperpero di pubblico denaro (mica paga di tasca sua...). Vera e propria
distrazione di massa, a reti unificate e con il plauso di giornalisti
debitamente chiusi fuori, costretti a origliare e a scrivere articoli del tutto
inutili (e poi non ci si lamenti se i quotidiani perdono copie).
“Tagliati”
e attovagliati
Nel frattempo la congrega al governo dilata a
macchia d'olio il contagio più pericoloso: attira gli insetti vaganti come
carta moschicida. Giorno dopo giorno invischia quanti si aggregano un po' per
convenienza, un po' per rassegnazione, un po' per cinismo e, quel che è peggio,
per tragica mancanza di alternativa a breve e medio termine. Conta che le
legittime proteste, represse in modi sempre più duri, si spengano da sé.
Così facendo questa sgangherata coalizione
governativa spera di far credere di essere maggioranza nel Paese. Riesce a far
dimenticare quello che oggi nessuno più ricorda. Il 20 settembre Beppe Grillo e
quanti gli si sono accodati (Zingaretti, etc. etc.) hanno ottenuto quel che
volevano. Approvando il loro “taglio” gli italiani hanno confermato che 330 parlamentari sono in esubero. Per
fare il loro mestiere bastano 200 senatori e 400 deputati. Il resto alle
ortiche. È improponibile che queste Camere rimangano in funzione sino al 2023.
Sono stati i loro stessi membri a sancirlo approvando la legge poi confermata
dagli italiani con il referendum. Tempo è venuto di trarne le conclusioni. Il
varo della legge che impone il taglio dei parlamentari vincola anche chi l’ha
firmata: il Capo dello Stato. Non solo. Tutti ricordano bene che nelle
settimane antecedenti il referendum Zingaretti implorava i suoi soci in ditta,
i Cinque Stelle, di varare un abbozzo di legge elettorale almeno in una delle
due Camere prima del 20 settembre. Sono passati due mesi da quei piagnistei ma
la riforma della legge elettorale è finita in un cono d'ombra: per il semplice
motivo che questa “maggioranza” (che somma il favore del 35% degli italiani)
non vuole andare alle urne, né domani né mai. L'attuale composizione delle
Camere non trova alcun riscontro nei sondaggi sugli orientamenti politici degli
italiani. Sopravvive. Ma è un morto che cammina. Fino a quando? “Tagliata” da
se stessa, si “attovaglia” ogni giorno di più. Solo quando gliel'hanno detto il
presidente Fico ha fatto sbarazzare alla svelta la “mensa” di Montecitorio.
La legislatura è nata nel peggiore dei modi.
Dal suo esordio, nel 2018, non sono passati neppure tre anni, tumultuosi.
Azzannati alla gola dalla pandemia, scoperto che, malgrado le pacchiane
dichiarazioni di Conte, Borrelli, ecc. ecc., il governo non era affatto pronto
a febbraio-marzo e ha fatto pochissimo tra maggio e ottobre, gli italiani hanno
perso memoria di come iniziò questa drammatica avventura. In allora qualcuno,
smarrito il senno, minacciò persino di
incriminare il presidente della Repubblica. Dopo quasi due mesi venne varata
una maggioranza sulla base di un “contratto di governo” dai contenuti
incostituzionali. “In alto” si finse di non vedere. Fu un errore. Quel
“contratto” rimane agli atti. Poi venne Dieci mesi la sbandata dell'agosto 2019
e una soluzione manifestamente provvisoria. Ma all'italiana, dove il
provvisorio dura, come i tetti di amianto che nessuno si scrolla di dosso
perché non è possibile convocare le assemblee di condominio che dovrebbero
deliberarne la rimozione.
Questa è l'Italia: un garbuglio di reati,
omissioni e di abusi di potere. L'Italia del Conte I, del Conte II, di
maggioranze raffazzonate tra partiti dichiaratemente nemici.
Ma
quale mai “unità”? E il MES?
Sic stantibus rebus gli appelli
all'“unità” sono aria fritta. La decisione dell’attuale maggioranza di tirare a
campare sino al 2023 ha calato la saracinesca sul “volemose bene”. O di qui, o
di là. Nulla sarebbe, se non fosse che le conseguenze dell'inettitudine del
governo attuale e, per ricaduta, di tante amministrazioni regionali e comunali
(le province sono fantasmi) colpiscono tragicamente i cittadini, a cominciare
dal blocco dei ricoveri e degli interventi (a volte anche urgentissimi) per chi
non è in lista di attesa come contagiato covid-19: uno status che è
ormai macabra “assicurazione all'assistenza” (persino domiciliare) nell'Italia
odierna.
Questa è l'Italia che non ha chiesto e non chiede
il MES per non far frinire i grilli. È l'Italia che “fa da sé” e aspetta chissà
quale miracoloso “ricostituente europeo” tra uno o due anni e nel frattempo
soffoca la produzione, promette risarcimenti (“ristori” è un termine davvero
sciocco) e nel frattempo sfora, sfora, sfora e indebita le generazioni venture.
Come stupirsi che il 35% di giovani non studia e non lavora? Attende la manna
dal cielo. Esattamente come fanno il governo e i parlamentari che lo sorreggono
(che però la manna se la garantiscono sin che restano in carica, sia pure
decurtata del pizzo dovuto ai rispettivi “capi bastone”).
Se questo Parlamento di 330 componenti “in
esubero” rimanesse in carica fino al 2023, esso eleggerebbe un Capo dello Stato
screditato e indebolito ab origine dal voto di Camere non più
rappresentative del Paese.
L'Italia l'è malata , ma non è in guerra...
Per allontanare il redde rationem
da settimane il governo (e non esso solo, purtroppo) dice che il Paese è “in
guerra”. Piano con le parole e basta con le metafore su tunnel, treni in corsa
e chissà quali altre astruserie da poetucoli ginnasiali. San Tommaso d'Aquino
insegnò che alle parole corrispondono “cose”. Vico aggiunse: verum et factum
conventurtur. Orbene, l'Italia non è affatto “in guerra”. La guerra è una
realtà giuridica e fattuale ben precisa. Come la maggior parte dei paesi del
pianeta, l'Italia è alle prese con una forma di “influenza” più grave di altre
precedenti. Ma non è “in guerra”. Alcuni Stati hanno adottato certi rimedi;
taluni ne hanno scelti altri. Il governo italiano non ha adottato nessuna
strategia. Vive di espedienti. Il covid-19 non ci ha dichiarato guerra.
Circola, qui come in tutti i continenti. Dire che siamo sotto attacco nemico è
un espediente è furbesco. Crea allarme, semina il panico, ma non risolve nulla.
Cerca d’imporre sottomissione. Ma a chi? Al batterio? O, più prosaicamente, chi
“governa” chiede all'opposizione di smettere di disturbare il manovratore e ai
cittadini di stare a casa, fare due passi nell'“ora d'aria” e aspettare Natale
(anche “senza denari”...)?
Fingiamo per un momento di prendere sul serio
quel che tanti predicano dall'alto dei Palazzi. Che cosa se ne dovrebbe
dedurre? Secondo chi usa la retorica bellicistica in guerra non si può mettere
in discussione l’esecutivo. Sarebbe immorale, un tradimento della patria:
quando Annibale è alle porte bisogna sacrificarsi (altro termine retorico
abusato dalla narrazione sulla pandemia). Credere, obbedire, combattere. Una
vecchia solfa. A chi la racconta, chiunque sia e da qualunque Colle lo faccia,
è bene allora ricordare la storia delle guerre fatte dall'Italia nei suoi ormai
lunghi 160 anni dall'Unità.
Obtorto collo, il 20-21 maggio 1915 le Camere
votarono l'intervento dell'Italia contro
l'impero austro-ungarico. A parte il Re, il presidente del Consiglio, Antonio
Salandra, il ministro degli Esteri, Sonnino, e l'ambasciatore che il 26 aprile
1915 aveva firmato a Londra l’accordo segreto, né i ministri né i parlamentari
né i cittadini sapevano a quali condizioni l'Italia scendeva in guerra. Lo
appresero quando i bolschevichi di Lenin irruppero nel Palazzo d'Inverno,
trovarono nella cassaforte il testo e lo pubblicarono. Per molte settimane i
giornali italiani tacquero, perché alcune condizioni erano francamente
imbarazzanti, a cominciare dall'esclusione della Santa Sede dal futuro
congresso di pace.
La stragrande maggioranza dei parlamentari era
contraria all'intervento. I cittadini non vennero presi in alcuna
considerazione. Le piazze erano piene di sedicenti interventisti, spesso
ragazzotti spinti da insegnanti che ripetevano a memoria Carducci ma nulla
sapevano di capitale finanziario, grande industria, strategia militare e lotta
per il controllo delle risorse. Sulla scienza prevalse la chiacchiera. Nei
caffè e nei “circoli dell'unione” una miriade di vaniloquenti dissertavano su
come l'Italia in un battibaleno sarebbe arrivata a Lubiana, Zagabria, Vienna e
poi chissà sino dove. Un po' come poi accadde nel 1941-1942 quando tanti
armigeri sognarono di arrivare come niente fosse dalla pianura sarmatica a
Vladivostok.
E adesso siamo qua. In guerra? Contro chi?
Dov’è il nemico? Sopra o sotto le scarpe e i panni? Entro o fuori le
mascherine? Lungo le dita o sotto le unghie laccate ma non sempre nettate? In
interiore homine (e anche in faemina) habitat virus,
come ovunque... In assenza di rimedi veri (il vaccino? quando? per quanti?) e
nel frastuono di virologi, epidemiologi, clinici più o meno attendibili,
comitati vari e ministri speranzosi, stiamo come in trincea: imbavagliarsi,
lavarsi le mani (e non solo), stare a distanza dall'alito altrui e… fare gli
scongiuri.
Il governo che perde la guerra se ne va
Quel Parlamento del 1915, la cui storia va
ricordata quale effettivamente fu, subì, trangugiò e attese il suo giorno. In
pochi mesi capì di aver preso una cantonata spaventosa. Per fare la guerra
occorrono strategia, uomini e armi. Il Comandante Supremo aveva il piano ma
mancava di ufficiali, sottufficiali, truppe e, peggio ancora, di artiglieria,
fucili, munizioni, magazzini, vestiti per l'inverno; e, ciò che più conta, non
aveva il consenso del Paese. Il ministro della Guerra, Domenico Grandi, lo
aveva avvertito sin dal 1914. Perciò venne silurato. Nel giugno 1916,
all'indomani dell'offensiva austro-ungarica di primavera la Camera sfiduciò
Antonio Salandra che aveva voluto l'intervento in odio contro Giolitti e
nell'illusione di “passare alla storia”. Finì in un ripostiglio. Gli subentrò
Paolo Boselli, decano della Camera, a capo di una coalizione variegata,
comprendente anche ex neutralisti. Ma anche lui ebbe i giorni contati. Venne
sfiduciato il 25 ottobre 1917, il giorno dopo l'inizio dell'offensiva
austro-germanica sull'Isonzo, di cui a Roma nessuno sapeva ancora niente. Il nuovo governo, presieduto da
Vittorio Emanuele Orlando, ebbe il benestare di Giolitti, che parlò alla Camera
invitando all'unità vera. Il socialista Filippo Turati disse che anche per il
suo partito la Patria era sul Piave. Quello fu un barlume di unione nazionale.
Non questa di Conte-Zingaretti e Leu, che dall'opposizione pretendono silenzio
e carta bianca.
I governi che in guerra non funzionano o che la
perdono vanno sostituiti, come accadde anche il 25 luglio 1943.
In attesa che la storia
sia magistra vitae, constatiamo che l'Italia ha bisogno di un esecutivo
vero, all'altezza dell'emergenza e di quanto verrà a breve: l'impoverimento di
massa e il collasso del sistema sanitario, anche per cocciuto rifiuto di un
prestito di portata modesta qual è il MES, che avrebbe giovato a rimetterlo in
sesto. È stato approntato un progetto per chiederlo? O esso giace in qualche
misterioso cassetto, come l'accordo di Londra del 1915 e i verbali del Comitato
tecnico scientifico troppo a lungo secretati?
Aria, luce, pulizia.
Chiarezza e trasparenza. Stanco di predicozzi, il Paese ha diritto di essere
informato e di decidere il proprio futuro. Non c'è altra via: elezioni prima
possibile di una nuova Costituente.
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