Ai fini del nostro studio è inutile
ricercare se la rivoluzione del Risorgimento italiano sia anteriore o posteriore
alla rivoluzione francese. E’ ormai nozione comune che la rivoluzione italiana
abbia inizio dal pensiero del Vico e si accentui nella seconda metà del
settecento, dopo il trattato di Aquisgrana, e tragga vive fonti di energia e
incitamento ed esempio all'azione, dai principi della Rivoluzione e dalle armi
e dalle guerre, di Napoleone. Allo stesso modo non può esservi dubbio che essa
entri nella fase conclusiva e si attui quando si incontrano il sentimento
popolare italiano e l'iniziativa sabauda nel 1848. Si usa ricordare
all'opposto, e perfino da Croce, l'esempio della repubblica partenopea e quello
della repubblica romana. Ma la repubblica partenopea, cara al Croce, fu
movimento assai più aristocratico e intellettuale che popolare. Il popolo anzi
la soffocò. La repubblica romana non visse e non poteva vivere se non risolvendo
drasticamente l'antitesi con la Chiesa di Roma. Monarchia sabauda e Papato
hanno invece potuto trovare e stabilire guarentigie reciproche o pattuire una
stabile conciliazione. Una repubblica popolare in Roma, con il contorno
folcloristico e rituale dei suoi duci e dei suoi demagoghi, con i suoi moti e
la sua inevitabile retorica, con le sue aride fonti culturali e il suo rituale
massonico, contradice al magistero
universale e inviolabile della Chiesa: radice, oggi, e anima della civiltà cristiana
e occidentale: la quale ha nel Nuovo mondo il suo più forte presidio e le sue
più copiose fonti. Si è avuta una piccola anticipazione di quel che sarebbero i
rapporti tra la repubblica e la Chiesa, nel mancato ufficio religioso in
occasione della proclamazione della pace. Si può immaginare quel che avverrebbe
quando la nuova Repubblica assumesse i suoi veraci connotati socialisti
e popolareschi e la cultura e l'educazione morale dei Togliatti, dei Nenni, dei
Lussu e. dei Pacciardi avesse modo di manifestarsi compiutamente in tutto il
suo contenuto ateo e nelle viete rimasticature razionalistiche tratte da
enciclopedie di piccolo formato. Ne nascerebbe un complesso poco più
interessante di Piedigrotta : un misto di garibaldinismo, di mazzinianesimo, di
cafoneria e di truculento ateismo da museo antireligioso di Mosca, che
farebbe rimpiangere le declamazioni massoniche delle varie associazioni «Giordano
Bruno» di fine ottocento : insomma quel che v'è di più deteriore, di più
plebeo, di più provinciale, di più miserevole, di più sciagurato nella vita,
nel costume e nella politica italiana. È anche logico che una così tremenda
disfatta conduca a simili passi, ma ognuno che abbia mente e coscienza integri
e liberi, ha il dovere di avvertirne e segnalarne il pericolo e il danno.
Si incontrarono, dunque, nel
1848-49 con alquanta difficoltà, ma in modo risolutivo e fecondo, l'iniziativa
popolare secondo lo spirito europeo delle rivoluzioni nazionali e l'iniziativa
sabauda. Bisogna cogliere l'inizio di questo felice congiungimento subito dopo
le Riflessioni del D'Azeglio sugli Ultimi casi di Romagna.
Scriveva il D'Azeglio: «Lo scopo degli italiani in tutti i loro moti dal 1820 in qua, se ne
togliamo i fatti del 1821, è stato il sottrarsi ad abusi e patimenti locali e ciò isolatamente, senza molto pensiero dei loro vicini parimenti italiani;
e se in alcuni di codesti moti traspariva il desiderio di riordinare meglio
l'intera nazione, di spingere a scopo comune le forze comuni, questo desiderio
si è sempre mostrato, per dir così, in seconda fila e si è poi fatto tacere del
tutto appena si è temuto potesse far pericolare l'impresa che più premeva,
tutta a vantaggio locale. E gli italiani hanno avuto quello che meritavano pel
loro egoismo e per la miseria dei loro disegni». Consigliava opportunamente il
D'Azeglio «a mettere in prima fila la causa della nazione; in seconda quella
delle singole parti di essa». Con ciò non si faceva che «indicare un calcolo di
puro interesse, indicare la sola via che possa, presto o tardi, condurci ad
ottenere prima il bene di tutti, poi per necessaria conseguenza il bene di
ognuno».
Esaminava il D'Azeglio i mali della Romagna,
il cattivo governo, il disordine nell'amministrazione della giustizia, la
corruzione - nella amministrazione, ma anche scriveva: « E’ in Romagna una generazione di uomini
vile, oscura, di rotta e scellerata vita, usa all'ozio e al bagordo, alla
risse da taverne, che si grida devota al Papa, al suo governo, alla fede, alla
religione e con questo vanto si tiene sciolta d'ogni freno, di ogni legge,
stima lecita ogni violenza (forse la stima meritoria) purché sia contro uomini
che professano altre opinioni dalle sue: lo che, come ognun vede, è lo stesso
dire contro chiunque le sia odioso e nemico. Questa mala razza profittando del
continuo terrore che è nei governanti, si combina in conventicole oscure e vi
prepara supposte congiure, delazioni e peggio, vendette e assassini».
Si chiamava questa mala razza, nel 1845,
dei Sanfedisti e avrà poi altre denominazioni e altro colore, ma sempre continuerà nella congiura e
nell'assassinio (1).
Scriveva
ancora il D'Azeglio: «La città e il borgo di Faenza sono divisi da miserabile e
inveterato odio cittadinesco, avanzo probabilmente d'antico parteggiare. Ai
disusati e vecchi nomi di parte sono sottentrati oggidì quelli di liberali per
la città, di papalini pel borgo. Popolato questo d'uomini di bestiale ferocia,
pronti alla rissa e al sangue, è il luogo che può dirsi principal officina di
violenze, principal nido di quella scellerata genia che quivi ed a sua
imitazione nell'altre città di Romagna, provoca, batte, feriste, talvolta
uccide e sempre a man salva, coloro ch'ella dice liberali o frammassoni o
carbonari » (2).
Questa faziosità all'ombra dello
Stato e sotto la protezione della polizia e dei tiranni è il carattere,
distintivo purtroppo delle plebi italiane. Durante il fascismo essa si è
esercitata in pieno. Deriva da ciò la intolleranza, la difficoltà di tenere in
piedi degli ordinamenti liberali già denunciate dal Machiavelli.
A proposito delle Istorie fiorentine è stato già osservato
dalla critica romantica che nobiltà, borghesia, popolo divengono personaggi di
quel racconto. «Chi voglia conoscere la legge generale della libertà
democratica, i pericoli che la minacciano dentro e fuori, come essa si liberi dalla nobiltà del sangue per ricadere
sotto il dominio della nobiltà del danaro, come a questa succeda poi la
borghesia, alla borghesia il proletariato, al proletariato il principe, al principe
lo straniero ».
Se il carattere distintivo delle
repubbliche italiane è stato sempre il terrore e se il terrore rimane pur
sempre
la norma più propria delle tirannie, segno è
che in Italia vi fu sempre difetto di libertà dall'età di Roma alla fortunata
convergenza, già segnalata, dei moti popolari con la iniziativa costituzionale
della dinastia sabauda. Dopo il libretto sui casi di Romagna il. D'Azeglio si
pose a stringere questo rapporto tra Carlo. Alberto e la Rivoluzione e
nonostante la cattiva prova del 1848-49, quel rapporto fu mantenuto, fu anzi
rinsaldato e portato, con il Cavour, al suo massimo splendore. Cavour ne fece
un elemento fondamentale della più vasta trasformazione europea; inserì la
rivoluzione italiana nel quadro della diplomazia e delle guerre del tempo. Così
si giunse alla proclamazione del nuovo Regno a consacrazione dell'unità della
Penisola. E ci pare inutile discutere qui se l'unità fu compiuta o incompiuta;
perfetta o imperfetta. Certo i federalisti e i repubblicani la trovarono incompiuta,
così come, i borbonici e i papalini la trovarono demagogica e satanica. Rimane
pur sempre vero, nonostante le critiche di quelle correnti avanzate o
retrograde, che l'Italia si mise al passo con le altre nazioni europee e
progredì visibilmente con esse in ogni settore della vita nazionale; nella
cultura e nelle opere, nell'elevazione del proletariato come nell'affermarsi di
una fiorente industria e di una progredita agricoltura. L'Italia liberale e
parlamentare, tra il 1861 e il 1915, si presenta agli occhi dello studioso del
nostro passato; come un'oasi di serenità, di pace, di civile progresso e di
ordinata libertà che tutti vorrebbero veder rifiorire. Su questo giudizio non vi
colo perché era allora troppo visibile il
beneficio della libertà.
(1)
Si vedano a un secolo di
distanza, in questa estate del 1945, l'assassinio dei Conti Manzoni e dei
familiari con centinaia di altri proprietari e rurali. E la stampa libera dei
C.L.N. nasconde e tace.
(2) Da questa gente vennero fuori i Mussolini padre e figlio a
sfogare i loro tristi istinti. Riuscì il figlio Benito ad appaltare prima
l'opinione socialista, poi l'opinione nazionale e patriottica. E arrivato,
in sella ridusse tutta la nazione sotto il suo dominio. Gli italiani dovrebbero
diffidare di uomini rozzi ed elementari che mettono le idee generali a servizio
delle proprie ambizioni e del proprio torbido istinto ed ecco invece, dopo la
caduta di Mussolini, il partito che potrebbe legittimamente aspirare al potere,
scegliere a capo un mediocre seguace del predappiese, il romagnolo Nenia', nato
proprio nella Faenza descritta dal D'Azeglio.
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