NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

martedì 17 novembre 2020

Io difendo la Monarchia Cap X - 4

 


Ai fini del nostro studio è inutile ricercare se la rivo­luzione del Risorgimento italiano sia anteriore o poste­riore alla rivoluzione francese. E’ ormai nozione comune che la rivoluzione italiana abbia inizio dal pensiero del Vico e si accentui nella seconda metà del settecento, do­po il trattato di Aquisgrana, e tragga vive fonti di ener­gia e incitamento ed esempio all'azione, dai principi della Rivoluzione e dalle armi e dalle guerre, di Napo­leone. Allo stesso modo non può esservi dubbio che essa entri nella fase conclusiva e si attui quando si incontrano il sentimento popolare italiano e l'iniziativa sabauda nel 1848. Si usa ricordare all'opposto, e perfino da Croce, l'esempio della repubblica partenopea e quello della repubblica romana. Ma la repubblica partenopea, cara al Croce, fu movimento assai più aristocratico e intellet­tuale che popolare. Il popolo anzi la soffocò. La repub­blica romana non visse e non poteva vivere se non risolvendo drasticamente l'antitesi con la Chiesa di Roma. Monarchia sabauda e Papato hanno invece potuto tro­vare e stabilire guarentigie reciproche o pattuire una stabile conciliazione. Una repubblica popolare in Roma, con il contorno folcloristico e rituale dei suoi duci e dei suoi demagoghi, con i suoi moti e la sua inevitabile re­torica, con le sue aride fonti culturali e il suo rituale massonico, contradice al magistero universale e inviola­bile della Chiesa: radice, oggi, e anima della civiltà cri­stiana e occidentale: la quale ha nel Nuovo mondo il suo più forte presidio e le sue più copiose fonti. Si è avuta una piccola anticipazione di quel che sarebbero i rapporti tra la repubblica e la Chiesa, nel mancato ufficio religioso in occasione della proclamazione della pace. Si può immaginare quel che avverrebbe quando la nuova Repubblica assumesse i suoi veraci connotati so­cialisti e popolareschi e la cultura e l'educazione morale dei Togliatti, dei Nenni, dei Lussu e. dei Pacciardi avesse modo di manifestarsi compiutamente in tutto il suo con­tenuto ateo e nelle viete rimasticature razionalistiche tratte da enciclopedie di piccolo formato. Ne nascerebbe un complesso poco più interessante di Piedigrotta : un misto di garibaldinismo, di mazzinianesimo, di cafone­ria e di truculento ateismo da museo antireligioso di Mo­sca, che farebbe rimpiangere le declamazioni massoniche delle varie associazioni «Giordano Bruno» di fine otto­cento : insomma quel che v'è di più deteriore, di più plebeo, di più provinciale, di più miserevole, di più scia­gurato nella vita, nel costume e nella politica italiana. È anche logico che una così tremenda disfatta conduca a simili passi, ma ognuno che abbia mente e coscienza integri e liberi, ha il dovere di avvertirne e segnalarne il pericolo e il danno.

Si incontrarono, dunque, nel 1848-49 con alquanta difficoltà, ma in modo risolutivo e fecondo, l'iniziativa popolare secondo lo spirito europeo delle rivoluzioni na­zionali e l'iniziativa sabauda. Bisogna cogliere l'inizio di questo felice congiungimento subito dopo le Riflessioni del D'Azeglio sugli Ultimi casi di Romagna.

Scriveva il D'Azeglio: «Lo scopo degli italiani in tutti i loro moti dal 1820 in qua, se ne togliamo i fatti del 1821, è stato il sottrarsi ad abusi e patimenti locali e ciò isolatamente, senza molto pensiero dei loro vicini parimenti italiani; e se in alcuni di codesti moti traspa­riva il desiderio di riordinare meglio l'intera nazione, di spingere a scopo comune le forze comuni, questo desi­derio si è sempre mostrato, per dir così, in seconda fila e si è poi fatto tacere del tutto appena si è temuto po­tesse far pericolare l'impresa che più premeva, tutta a vantaggio locale. E gli italiani hanno avuto quello che meritavano pel loro egoismo e per la miseria dei loro disegni». Consigliava opportunamente il D'Azeglio «a mettere in prima fila la causa della nazione; in seconda quella delle singole parti di essa». Con ciò non si faceva che «indicare un calcolo di puro interesse, indicare la sola via che possa, presto o tardi, condurci ad ottenere prima il bene di tutti, poi per necessaria conseguenza il bene di ognuno».

Esaminava il D'Azeglio i mali della Romagna, il cat­tivo governo, il disordine nell'amministrazione della giu­stizia, la corruzione - nella amministrazione, ma anche scriveva: « E’ in Romagna una generazione di uomini vile, oscura, di rotta e scellerata vita, usa all'ozio e al ba­gordo, alla risse da taverne, che si grida devota al Papa, al suo governo, alla fede, alla religione e con questo vanto si tiene sciolta d'ogni freno, di ogni legge, stima lecita ogni violenza (forse la stima meritoria) purché sia contro uomini che professano altre opinioni dalle sue: lo che, come ognun vede, è lo stesso dire contro chiunque le sia odioso e nemico. Questa mala razza profittando del continuo terrore che è nei governanti, si combina in conventicole oscure e vi prepara supposte congiure, de­lazioni e peggio, vendette e assassini».

Si chiamava questa mala razza, nel 1845, dei Sanfe­disti e avrà poi altre denominazioni e altro colore, ma sempre continuerà nella congiura e nell'assassinio (1).

Scriveva ancora il D'Azeglio: «La città e il borgo di Faenza sono divisi da miserabile e inveterato odio cittadinesco, avanzo probabilmente d'antico parteggiare. Ai disusati e vecchi nomi di parte sono sottentrati oggidì quelli di liberali per la città, di papalini pel borgo. Po­polato questo d'uomini di bestiale ferocia, pronti alla rissa e al sangue, è il luogo che può dirsi principal offi­cina di violenze, principal nido di quella scellerata genia che quivi ed a sua imitazione nell'altre città di Romagna, provoca, batte, feriste, talvolta uccide e sempre a man salva, coloro ch'ella dice liberali o frammassoni o carbonari » (2).

Questa faziosità all'ombra dello Stato e sotto la pro­tezione della polizia e dei tiranni è il carattere, distintivo purtroppo delle plebi italiane. Durante il fascismo essa si è esercitata in pieno. Deriva da ciò la intolleranza, la difficoltà di tenere in piedi degli ordinamenti liberali già denunciate dal Machiavelli.

A proposito delle Istorie fiorentine è stato già osser­vato dalla critica romantica che nobiltà, borghesia, po­polo divengono personaggi di quel racconto. «Chi voglia conoscere la legge generale della libertà democratica, i pericoli che la minacciano dentro e fuori, come essa si liberi dalla nobiltà del sangue per ricadere sotto il do­minio della nobiltà del danaro, come a questa succeda poi la borghesia, alla borghesia il proletariato, al prole­tariato il principe, al principe lo straniero ».

Se il carattere distintivo delle repubbliche italiane è stato sempre il terrore e se il terrore rimane pur sempre

la norma più propria delle tirannie, segno è che in Italia vi fu sempre difetto di libertà dall'età di Roma alla for­tunata convergenza, già segnalata, dei moti popolari con la iniziativa costituzionale della dinastia sabauda. Dopo il libretto sui casi di Romagna il. D'Azeglio si pose a stringere questo rapporto tra Carlo. Alberto e la Rivolu­zione e nonostante la cattiva prova del 1848-49, quel rapporto fu mantenuto, fu anzi rinsaldato e portato, con il Cavour, al suo massimo splendore. Cavour ne fece un elemento fondamentale della più vasta trasformazione europea; inserì la rivoluzione italiana nel quadro della diplomazia e delle guerre del tempo. Così si giunse alla proclamazione del nuovo Regno a consacrazione del­l'unità della Penisola. E ci pare inutile discutere qui se l'unità fu compiuta o incompiuta; perfetta o imperfetta. Certo i federalisti e i repubblicani la trovarono incom­piuta, così come, i borbonici e i papalini la trovarono de­magogica e satanica. Rimane pur sempre vero, nono­stante le critiche di quelle correnti avanzate o retrograde, che l'Italia si mise al passo con le altre nazioni europee e progredì visibilmente con esse in ogni settore della vita nazionale; nella cultura e nelle opere, nell'elevazione del proletariato come nell'affermarsi di una fiorente indu­stria e di una progredita agricoltura. L'Italia liberale e parlamentare, tra il 1861 e il 1915, si presenta agli occhi dello studioso del nostro passato; come un'oasi di sereni­tà, di pace, di civile progresso e di ordinata libertà che tutti vorrebbero veder rifiorire. Su questo giudizio non vi colo perché era allora troppo visibile il beneficio della libertà.

 

 

(1) Si vedano a un secolo di distanza, in questa estate del 1945, l'assassinio dei Conti Manzoni e dei familiari con centi­naia di altri proprietari e rurali. E la stampa libera dei C.L.N. nasconde e tace.

 

(2) Da questa gente vennero fuori i Mussolini padre e figlio a sfogare i loro tristi istinti. Riuscì il figlio Benito ad appal­tare prima l'opinione socialista, poi l'opinione nazionale e pa­triottica. E arrivato, in sella ridusse tutta la nazione sotto il suo dominio. Gli italiani dovrebbero diffidare di uomini rozzi ed elementari che mettono le idee generali a servizio delle pro­prie ambizioni e del proprio torbido istinto ed ecco invece, dopo la caduta di Mussolini, il partito che potrebbe legittimamente aspirare al potere, scegliere a capo un mediocre seguace del predappiese, il romagnolo Nenia', nato proprio nella Faenza de­scritta dal D'Azeglio.

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