La gioventù
universitaria fu unanime per l’intervento. Con tutto ciò la crisi parlamentare
con le dimissioni di Salandra, si mantenne nella più rigorosa costituzionalità.
Il Re consultò Boselli, Sonnino, Carcano, Marcora e
Giolitti. Quasi tutti, meno il Giolitti (1), ritennero che la Corona dovesse
confermare l'incarico a Salandra.
E non si
poteva, infatti, dati i recenti impegni internazionali, battere altra via.
L'episodio
è però significativo. Per la prima volta, dal 1861, il Parlamento italiano è
costretto a subire la iniziativa politica della piazza. Le regole del giuoco
sono rispettate, ma la sostanza è profondamente vulnerata.
Né conta
se questo fu un bene o non fu un male. Verrà giorno in cui un giuoco simile
sarà assai nocivo.
Nella
grande generalità, la stampa esaltò le manifestazioni popolari e la decisione
sovrana di confermare all'on. Salandra l’incarico di costituire il Gabinetto,
nel quale entrò Sonnino, Ministro degli Esteri rimasto a quell’ufficio per
tutta la durata della guerra. Ma non mancò neppure allora chi parlò delle
agitazioni popolari nelle città, come dimostrazioni di « quaranta o
cinquantamila dementi e malfattori » (2).
Si ebbe
allora per la prima volta nella storia del nuovo Regno, una intimazione alla
Corona che del restoera favorevole alla guerra : la prima intimazione di
Mussolini. Era costui un agitatore violento del socialismo rivoluzionario che
dal 1908 si era fatto luce, con atteggiamenti di tribuno giacobino, in quel
partito, conquistandone il giornale e la direzione politica. In occasione
dell'attentato di Alba a Re Vittorio aveva scritto un aspro e villano articolo
contro la monarchia; nel 1911-12 aveva capeggiato movimenti e disordini per
impedire la partenza dei soldati per la Libia; nel 1914 aveva scatenato il moto
della settimana rossa con l'esperienza delle effimere repubblichette
marchigiane.
Espulso
dal socialismo, alla fine del 1914, abbandonava la direzione dell’Avanti! e
fondava II Popolo d’Italia ove iniziava, con la stessa
violenza di linguaggio adoperata fino al giorno prima contro la borghesia,
un’aspra campagna contro gli antichi compagni socialisti.
Apriva
pure, sin dal primo articolo, una vivace campagna per l’intervento. Il brusco
trapasso dall’estremo neutralismo all’interventismo venne da più parti
attribuito a segreti e non confessabili motivi. A noi pare che in tempi così
agitati come quelli che andiamo descrivendo, uomini della natura di Mussolini,
bramosi solo di primeggiare e di raggiungere il potere, siano condotti a mutare
di bandiera e di compagni, per unaspinta dell’istinto e per un segreto
avvertimento del loro spirito.
Poco
attaccati alle idee, ai sistemi e alle dottrine che non conoscono, lontani
dallo studio come da ogni serio lavoro, essi non sono che degli agitatori e dei
tribuni. Dinnanzi alle folle si valgono dell’uno o dell’altro motivo: la patria
o l’internazionale; Garibaldi o Marx; la guerra o la diserzione, Dio o il
diavolo, con uguale indifferenza e con uguale calore. Si tratta di scegliere il
momento, l’ambiente e il luogo. L’interessante e sfruttare il quarto d’ora
favorevole per ottenere il successo, per capeggiare un movimento, per appaltare
un attimo della volubile opinione generale e farsene esponente ed araldo. La
pronta facoltà di assimilazione e di imptovvisazione degli italiani, così di
frequente scambiata con la cultura, giova ad uomini cosi fatti. Le folle danno
loro credito e vi è sempre qualche illuso o qualche speculatore che mette i
fondi per un giornale.
La
cultura dei Mussolini è fondata sugli opuscoli di propaganda. Essi vi
aggiungono il fuoco dell’estroso temperamento e il gusto del paradosso; ma
soprattutto l’acre piacere dell’invettiva e dell'attacco sanguinoso nella
polemica personale. È una corrida brutale e selvaggia. da arene messicane, ma
in Italia continua ad avere successo e piace alle folle.
In
qualunque altro paese uomini così fatti sarebbero tenuti al bando: potrebbero,
sì, agitarsi per proprio conto, ma non commuoverebbero nessuno e sarebbero
considerati dei vagabondi, degli epilettici o dei maniaci.
Nella
miseria del nostro paese e nel suo clima particolare trovano credito; folle
sempre nuove di illusi si fanno loro d'attorno; i salotti si aprono alla
novità; i letterati e gli intellettuali temono di non parere aggiornati e si
affrettano a far loro credito; gli industriali subiscono l'inevitabile ricatto,
le autorità fanno loro dei sorrisi. Per alcuni anni Mussolini ha tenuto in
Svizzera durante la sua emigrazione, gli stessi discorsi ripresi poi a Forlì
nel 1908. Ma in quella Confederazione è stato espulso dall'uno all'altro
Cantone ed è stato considerato nulla più che un vagabondo, un mendicante o un
maniaco pericoloso: a Forlì è diventato un uomo politico e un organizzatore; a
Milano un capo partito; a Roma un fondatore di Impero. Poi le terribili
vicende, venute di fuori, hanno ridato agli uomini e alle cose le loro esatte
proporzioni.
Ma
intanto l'Italia è andata distrutta. Un agitatore non ha bisogno di un passato
e neppure di titoli di studio o di speciali referenze. È sufficiente che egli
abbia il gesto, la parola, Io sguardo, il fisico del suo ruolo. A un applicato
di un Ministero si domanda la licenza liceale, ma ad un capo politico nessuno
può domandare che cosa ha fatto, quali studi ha compiuto, di quale lavoro è
capace. Tanto meglio se ha qualche precedente penale: esso testimonia di un
forte temperamento. Ora non si domanda neppure se un capo partito ha la
cittadinanza italiana. Per un paese invaso da tutte le parti è chiaro che una
simile domanda sarebbe del tutto indiscreta.
Nessuno
può domandare che si acceda ai partiti e alle cariche direttive con regolari
concorsi, ma solo sarebbe desiderabile un livello di educazione morale e
politica che scartasse dai gradini del potere politico i parolai, i fannulloni,
gli istrioni, i violenti, i profittatori.
Questa
pretesa sembra assurda in Italia ove la carriera politica sta per confondersi
con il brigantaggio.
Mussolini,
passato, come abbiamo detto, all’interventismo, fondò, nel gennaio 1915, i
«fasci di azione rivoluzionaria per l’intervento» e lanciò un manifesto nel
quale si affrettò, puntando grosso, a prendere a partito la Monarchia con
l'intimazione: «Guerra o rivoluzione ». Queste sono le origini più genuine del
fascismo: origini sempre rivendicate da Mussolini. La Monarchia nel suo
pensiero era accettata, anzi tollerata, purché l’aiutasse a realizzare un
programma di partito e poi si sottomettesse al suo arbitro di dittatore. In
caso contrario la Monarchia doveva essere rovesciata dalla rivoluzione dei
fasci.
Ventotto
anni più tardi Mussolini, tornando alle origini, farà con l’aiuto tedesco la
sua rivoluzione antimonarchica e si proclamerà capo della repubblica di Salò.
Lo
sviluppo del fenomeno ha una sua logica e una sua coerenza, ma qui preme di
rilevare che questo torbido fermento tirannico e rivoluzionario, sanguinario e
intollerante nasce in Italia dal socialismo e dal popolo e non dalla «reazione
monarchica». Il metodo della intimidazione, nella vita politica italiana, sui
massimi poteri dello Stato incominciò allora : esso si esercitò contemporaneamente
sulla Corona e sul Parlamento.
I
parlamentari nel 1915 si arresero subito e si trassero in disparte. Dal 1861
sino a quel momento erano stati segnalati vari difetti del sistema
parlamentare: troppo frequenti le crisi di Governo, troppo numerosi e frazionati
i partiti e mal definiti i loro programmi; troppo generici e troppo accesi i
dibattiti, quasi sempre ed esclusivamente politici in una età tutta economica e
tutta tecnica: facile, quindi, il distacco del paese legale dal paese reale con
conseguenze gravi per il prestigio e per l'influenza del Parlamento.
Tutti
questi difetti e altri ancora si erano a mano a mano rilevati, ma la sovranità
della rappresentanza popolare non era stata mai discussa e tanto meno
minacciata.
Nel 1915
questa tradizione fu rotta, ma le regole del giuoco furono rispettate e il
dissidio fu sopito almeno temporaneamente. Con tutto ciò il Parlamento, nota G.
Volpe nel suo libro Il popolo italiano tra la pace e la guerra, si considerò
ferito e con lui tutte le persone che lo componevano e lo stesso sistema di cui
esso era centro. La svalutazione del Parlamento era cominciata dopo le elezioni
del 1913 per iniziativa dell'estrema sinistra. Si affermava da quella parte che
Giolitti aveva frodato il suffragio universale e che la rappresentanza, nata
dalle elezioni, era falsa. Un ordine del giorno del gruppo parlamentare
socialista aveva, a fine novembre 1913, detto che « bisognava chiedere conto al
Governo della sua condotta e che bisognava impedire il funzionamento di una
Camera così fatta». La minaccia era stata pronunciata a sinistra, ma essa
veniva effettuata diciotto mesi dopo, dalle correnti interventiste. Anche la
stampa fu, con i suoi organi più diffusi e autorevoli, nel maggio 1915, per
l’intervento e contro il Parlamento.
L’opinione
pubblica venne quindi in contrasto con la rappresentanza nazionale e a un certo
momento il Re dove scegliere tra l’una e l’altra. Il Sovrano confermò Salandra
al potere, ma dal punto di vista costituzionale tutto si svolse con la massima
correttezza avendo poi. gli esponenti della maggioranza giolittiana accettato
unanimemente Salandra e approvata la sua politica.
Votarono,
infatti, a favore del Governo Salandra, sia i giolittiani che i cattolici. La
rinunzia di Giolitti a costituire un Gabinetto in una atmosfera così infiammata
fu il segno della rinuncia del neutralismo alla lotta.
Tutti
giudicarono saggia e illuminata la scelta del Re e il suo prestigio se ne
giovò. Ma questo avvenne, naturalmente, perché la guerra fu vinta. Se la guerra
fosse stata perduta la corrente neutralista, sconfitta nella primavera del
1915, avrebbe accusato la Corona di avere risolto a proprio vantaggio e a
favore dei «circoli militari e reazionari» la crisi parlamentare del maggio.
L’equilibrio
dei poteri costituzionali dello Stato rimase scosso e alle manifestazioni
politiche per l’intervento se ne aggiunsero altre più propriamente teppistiche.
Esse trovarono anche allora a Milano la sede più adatta.
Si
tendeva colà a sostituire l’azione popolare all’iniziativa. del Governo
rispetto ai sudditi nemici ritenuti spie e traditori. Vi furono più giorni di
disordini e due notti di incendi e di rapine: infine il Governo dovette
sostituire il Prefetto, il Questore e il Comandante del Corpo d’Armata. «Scene
sinistre — scrive uno storico pur fautore acceso dell’intervento — che
ripugnarono agli italiani migliori, anche caldissimi della guerra» (3).
(1)
Giolitti consigliò al Re Marcora o Carcano o Boselli o — disse proprio così —
uno qualunque.
(2) Il
Mattino di Napoli, 14 maggio 1915.
(3)
Questo fenomeno non è sfuggito a scrittori dichiaratamente antifascisti.
Sinibaldo Tino nel suo libro: Il trentennio fascista dà rilievo alla campagna
contro il Parlamento nella primavera del 1915 e scrive (pag. 29) : « La
insistente, ostinata e baldanzosa predicazione di accuse e condanne contro
l’idea, le funzioni e gli scopi dell’istituto se. dai poteri responsabili, fu
più che tollerata, favorita e secondata, dal paese fu accolta senza controllo e
senza soverchio approfondimento. Ma si rivelò la più fertile quanto funesta
seminagione di quella messe di contumelie e vituperii dalla quale il fascismo
attinse i mezzi e l’efficacia per procedere alla distruzione completa del
diritto elettorale..... .............
«
L’aperta violazione delle norme statutarie e dei diritti dei supremi organi
dello Stato fu la prima sopraffazione, un irrimediabile arbitrio, dai quali e
per i quali il programma iconoclasta del fascismo, che tenne a rivendicare come
iniziali successi la preparazione e lo svolgimento di quelle ”radiose giornate
di maggio”, trasse poi una delittuosa Influenza e attinse come da un saggio e
da una prova, le prospettive di ulteriori conquiste e la visione delle
successive esperienze ».
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