di Salvatore Sfrecola
Il
24 ottobre 1917 il nostro esercito subì una sconfitta di enormi proporzioni,
tuttora al centro delle polemiche tra gli storici
Un
evento da ricordare per le molte ombre ma anche per le luci che risvegliarono
orgoglio nazionale e senso di appartenenza
ottobre
1917 nessuno aveva previsto un attacco nell’area di Caporetto, la cittadina, oggi
in Slovenia (Kobarid), nell’alta valle dell’lsonzo, sulla riva destra del
fiume, tra Tolmino e
Plezzo, dove si combattè fino al 27 novembre. In quei giorni le truppe italiane
dovettero abbandonare migliaia di chilometri quadrati, il Friuli e parte del
Veneto. A rischio la stessa Venezia che, infatti, si pensò di abbandonare. Una
sconfitta grave, definita anche «rotta», «disfatta» o «catastrofe», con uno strascico
di polemiche che ancora oggi impegnano molte pagine nei libri di storia.
L’attacco
non l’aveva previsto Luigi Cadorna, il comandante generale, «molto scettico»
sulla ipotesi di partecipazione germanica all’offensiva nemica che si immaginava
in preparazione ma che, a suo giudizio, si sarebbe concretizzata solo in
primavera, come disse al colonnello Angelo Gatti, che ne riferisce nel suo
prezioso Diario di Guerra: «Passiamo così l’inverno».
Eppure
i segnali di una imminente offensiva austrotedesca c erano stati, provenienti
da varie fonti (non solodai disertori che potevano apparire inviati ad arte), ignorati
dai servizi di informazione.
Li
avevano percepiti sia il generale Luigi Capello sia Re Vittorio Emanuele e ne
avevano informato Cadorna. Fu sottovalutato anche il significato dell’iniziale
cannoneggiamento la mattina del 21, tiri isolati ma con obiettivi precisi, come
osservò il Re che ritenne fossero destinati a saggiare la nostra capacità di
reazione, preludio del bombardamento che sarebbe iniziato alle 2 del 24
ottobre, inizialmente con i gas. Durò cinque ore,
«con grandissima intensità», scrive Gatti. Eppure non ne fu compresa la finalità.
«Nulla di importante» commentò il generale Pietro Badoglio.
I suoi cannoni, oltre 400, rimasero silenti. E gli fu sempre rimproverato.
Uno
dei tanti errori di percezione delle intenzioni degli austrotedeschi i quali
percorsero il fondovalle coperti dalla nebbia. Il fuoco delle batterie nemiche
aveva creato una breccia che permise il passaggio degli alpini del Wuttemberg
guidati da un giovane tenente destinato a una prestigiosa carriera militare.
Erwin Rommel. Futura «Volpe del deserto».
Lo
sbandamento fu generale. Nella confusione s'immaginava fosse necessario arretrare
sempre di più, dall’Isonzo al Tagliamento al Piave e forse all’Adige, al Mincio
o, se non fosse bastato, al Po. Una soluzione che avrebbe consegnato al nemico
Venezia e Milano, un autentico disastro per la coalizione. Dalla Pianura padana
sarebbe stata minacciata anche la Francia. Intanto nel Paese montano le
polemiche, le accuse di tradimento e disfattismo, soprattutto contro socialisti
e cattolici. Gli alleati, che s’incontrarono a Rapallo il 6 novembre in un
clima di sfiducia nei confronti dell’Italia, chiedono la testa di Cadorna.
Ne
riferisce Gatti che dà conto dell’umiliazione subita. Infatti francesi e
inglesi «si riunirono fra loro, con esclusione dei nostri. Orlando, Sonnino.
Alfieri e Porro attesero così, alla porta come servitori, che gli altri
decidessero». Vittorio Emanuele Orlando era il presidente del Consiglio, Sidney
Sonnino il ministro degli Esteri, Vittorio Alfieri il ministro della Guerra e
Carlo Porro il sottocapo di Stato maggiore. Dovettero limitarsi ad ascoltare le
decisioni assunte. E se fu riconosciuto «che la difesa dell’Italia era anche
interesse alleato», con apporto di 4 divisioni francesi e di 4 inglesi (che poi
diventeranno 6 e 5), il primo ministro i nglese Lloy d George impose come
condizione «assoluta» la creazione di un Consiglio interalleato composto dai 3
presidenti dei Consigli dei ministri.
In
questa condizione di aperta sfiducia degli alleati per il nostro esercito, il
re «l’unico a non perdere la testa», come ha sottolineato Rai Storia, mai
tenera nei suoi confronti - volle si resistesse sul Piave. A Peschiera sul
Garda. L’8 novembre, dove aveva invitato i ministri ed i generali che si erano
incontrati a Rapallo, presenti Paul Painlevé. primo ministro di Francia, i
generali Ferdinand Foch e Henry Hugue Wilson e Lloyd George (che ce ne ha lasciato
la cronaca), il Re,. parlando in inglese e francese, si guadagnò «il rispetto
di tutti per la chiarezza e franchezza con cui fece il punto della situazione,
realisticamen-te». Lloyd George «ne rimase impressionato» (M. Silvestri. Caporetto
- Una battaglia e un enigma). Il suo ruolo fa determinante nel richiamare
l’impegno di ciascuno, senza retorica, tanto che cancellò dal proclama, che
Orlando gli aveva preparato, l’incipit enfatico che non era nel suo stile («Una
immensa sciagura ha straziato il mio cuore di italiano e di Re»). Invece
esordì: «Italiani, siate un esercito solo!»
Da
allora «Caporetto», nel linguaggio comune, evoca un fatto negativo gravissimo, una
sconfitta senza rimedi, la «disfatta per antonomasia», scrive Stefano Lucchini in
un libro, A Caporetto abbiamo vinto, che ricostruisce, «attraverso la viva voce
di protagonisti e testimoni, la drammatica successione dei fatti e il loro
impatto sull’opinione pubblica». Eppure, dopo le polemiche di quei giorni e
all’indomani della vittoria, si volle in qualche
modo
archiviare la sconfitta, rimuoverla dalla narrazione dell’Italia di Vittorio
Veneto». Ne è prova l’attribuzione del grado di Maresciallo d’Italia
contemporaneamente al generale sconfitto. Luigi Cadorna, ed al vincitore, Armando
Diaz.
E
se è vero che «a Caporetto non abbiamo vinto» è altrettanto vero che quella battaglia
ha segnato una svolta fondamentale, che ha posto le basi della ripresa delle
operazioni militari e della vittoria. Immediato fu il risveglio delle migliori
energie, della politica, delle forze armate e dell’intero popolo italiano. Fu
«uno scatto di orgoglio nazionale» (Pierre Milza, Storia d’Italia). Cambiarono
molte cose. Tutto quello che doveva cambiare da tempo. Dai rapporti tra il
governo e i vertici dell’esercito che, con il nuovo comandante generale,
Armando Diaz, divenne più moderno nell’organizzazione e credibile nelle
modalità d’impiego, anche agli occhi dei governi e degli Stati maggiori
alleati.
Le
cause della disfatta, come denuncia la conta dei caduti e dei prigionieri, la
vastità delle terre perdute e il numero dei profughi, furono essenzialmente
militari, come fu evidente di lì a breve anche dalle prime risultanze della commissione
d’inchiesta.
Cause
individuate nella inadeguatezza della cultura di guerra dei comandi, ancorati a
concezioni superate, come l’attacco allarma bianca. L’aveva codificato il
comandante generale Cadorna: attacco frontale e intervento aggirante della
cavalleria, nonostante fosse ormai acquisito il ruolo residuale di questa Arma
dopo che l’invenzione della mitragliatrice aveva reso improponibili le cariche di
lancieri e dragoni che con tanto onore avevano combattuto nelle guerre
dell’8oo.
Non
che i comandanti degli altri eserciti fossero più moderni. Esclusi i tedeschi,
che
avevano
maturato la consapevolezza delle nuove tecniche di guerra, i francesi avevano
subito perdite molto superiori alle nostre in assurdi, inutili assalti a
posizioni fortificate, come quelli al famoso «formicaio» nel film Orizzonti di
gloria di Stanley Kubrick, magistralmente interpretato da Kirk Douglas, un
valoroso colonnello alle prese con un generale idiota.
Giocarono
un ruolo essenziale negli eventi tragici di Caporetto non solamente la mancata
previsione dell’attacco e di misure adeguate in caso di ritirata, l’accertata confusione
nella catena di comando, la disorganizzazione di molti settori dell’esercito,
la sottovalutazione del previsto dispiegamento di divisioni tedesche tratte dal
fronte russo. Le comandava un valoroso generale prussiano Otto von Below, reduce
da molte vittorie e con provata capacità strategica. Con un piano di guerra originale
che rompe con la dottrina e le consuetudini dello sfondamento in orizzontale e
che farà meraviglie anche l’anno dopo contro gli anglofrancesi, sul fronte di Arras
- LaFère, nelle Fiandre.
Con
lui generali di prim’ordine, con carriere brillanti, come Albert von Berrer,
Herman von Stein e Konrad Krafft von Dellmesingen, che di quegli eventi ci ha
lasciato una descrizione particolarmente accreditata tra gli storici.
Il
resto è noto. Si contarono 35.000 tra morti e feriti, 300.000 prigionieri, 400.000
sbandati; la perdita di un’ingente quantità di armi, cannoni, mortai e mitragliatrici,
depositi di munizioni, automezzi e strutture del l’apparato logistico. Senza contare
il dramma delle popolazioni civili, un milione circa di profughi, l’abbandono
delle case, delle aziende, degli animali. Solamente la III Armata comandata da
Emanuele Filiberto duca d’Aosta si sganciò con ordine dal nemico. Fu così
pronta alla controffensiva di primavera tanto da meritare, nel bollettino della
Vittoria, il 4 novembre 1918,l’aggettivo di «invitta».
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