di
Aldo A Mola
Il
“mestiere” del Re
Nel 150°
della proclamazione del Regno d'Italia (2011) celebrazioni, convegni e
narrazioni si concentrarono su Mazzini, Garibaldi e Cavour. Vittorio Emanuele
II rimase in seconda fila. In molte regioni e all'estero non se ne parlò quasi
o per nulla. Eppure l'unificazione nazionale nacque grazie a lui. Per un
giudizio obiettivo, il Re Galantuomo, come anche fu detto, va collocato in una
visione panoramica nella sua epoca. Nel centenario dell'annessione di Fiume (1924),
che coronò il secolare cammino del Risorgimento, è doveroso riflettere sul
ruolo svolto dalla Monarchia Sabauda nell’avvento dell'Unità e
dell’indipendenza dell'Italia: due “carte di credito” concesse alla sua persona
dal “concerto delle grandi potenze”. Dopo complesse vicende e l'ipotesi di un
congresso internazionale per deciderne le sorti, Gran Bretagna e Francia,
all'epoca egemoni, imboccarono la scorciatoia: lasciare che gl’italiani
decidessero da sé, a patto però che il rappresentante della dinastia più antica
del continente se ne facesse garante. Era un Re costituzionale. Vittorio
Emanuele II gettò sulla bilancia della storia la Corona, il governo e il
parlamento bicamerale che lo sosteneva. Non era solo. Aveva alle spalle una
dirigenza vastissima e sperimentata che operava in nome della nazione italiana.
Il nuovo Stato non doveva essere succubo di potenze estere né esposto alla
possibile vendetta dell'impero d'Austria, escluso dal dominio diretto e
dall'influenza esercitata sull'Italia dal 1715, a parte la breve parentesi di
Napoleone I.
Per
comprendere come le grandi potenze finirono per accettare l’avvento della Nuova
Italia bisogna riflettere sul percorso seguito da Casa Savoia dalla
Restaurazione del 1814 al 1859-1860, gli anni decisivi. Ma anzitutto occorre
interrogarsi sulla peculiarità del “Re”, una persona “predestinata” dalla
nascita, anzi dalle nozze dei genitori, frutto di strategie matrimoniali
perfezionate nei secoli. Sin da bambino il sovrano viene educato al “mestiere
di Ee”. E' tale in ogni momento. La sua giornata può essere piena di noia o di
stravaganze, di esercizi fisici, studio, impegni di corte o personali. È sempre
quella di chi detiene la somma dei poteri per diritto ereditario e li trasmette
al successore. Tra le sue peculiarità vi è che non spetta a lui stabilire chi
ne assumerà la corona. L’erede gli è assegnato dalle leggi della Casa: un
figlio o il maschio prossimo in grado, a sua volta formato per “fare il Re”,
una “missione” assegnata dalla Storia.
Nei
centocinquant’anni dalla proclamazione del Regno, l’Italia ha vissuto tante
prove, anche dure, difficili, amare. La sua unità ha retto. Oggi è propugnata
anche da antichi avversari del suo avvento, come la Conferenza episcopale
italiana. Ha subìto e subisce critiche, anche severe e talvolta ingenerose, ma
nessuno Stato oggi ne mette in discussione la sovranità. L’Italia dunque c’è. I
suoi confini politici non coincidono con quelli geografici. Ma questo vale per
tutti i paesi del mondo, a cominciare da quelli d’Europa, che non furono
disegnati col righello su spazi indefiniti ma sono frutto di processi politici
e militari millenari. La Repubblica italiana odierna non ha più il limes raggiunto nel 1924, ma neppure quell’acquisizione
compensò le mutilazioni del 1860, quando il regno di Sardegna cedette Nizza
alla Francia. Al di là delle rettifiche di frontiera imposte dal trattato di
pace del 10 febbraio 1947 la realtà è chiara: l’Italia è uno Stato unitario,
indipendente e sovrano, come può esserlo nell'ambito della comunità
internazionale, fatta di alleanze, trattati, vincoli, devoluzioni e dal
riconoscimento di poteri sovranazionali, riconosciuti a vantaggio della sua
sicurezza.
Tutto ciò
conferma la grandiosità dell’opera realizzata da o nel nome di Vittorio
Emanuele II di Savoia, ultimo sovrano di Sardegna, primo capo di Stato della
Nuova Italia. Com’è scritto sulla sua tomba al Pantheon, egli fu e rimane il
“Padre della patria”. Quando venne pensata, quella formula sembrò timida. Non
si volle scrivere “Re d’Italia” per non spargere sale sulle ferite di papa Pio
IX, che non riconosceva la debellatio dello Stato pontificio
attuata da Vittorio Emanuele II nel 1859-1870. A distanza di tempo, constatato
quanto sia complesso tenere insieme il Paese, essa risulta più suggestiva e
pregnante di ogni altra. Poco conta se e quanto Re Vittorio abbia prefigurato
tutti i molteplici passaggi. Di certo si mise in campo di persona, mostrando
coraggio e determinazione, e condivise la meta, che non fu un mero
ingrandimento dei domini della Casa, ma rispose alle attese di varie
generazioni di patrioti: dall’illuminismo di fine Settecento ai liberali
costituzionali del 1820-1831, dalle sette segrete ai protagonisti della prima
guerra per l'indipendenza.
Vittorio
Emanuele II ascese al trono il giorno della sconfitta a Novara (23 marzo 1849),
quando sembrava che tutto fosse perduto. Suo padre, Carlo Alberto, battuto sul campo dagli austriaci, si riscattò con l’abdicazione e l’immediata partenza per
l’estero. Padre e figlio non si videro più. Il sacrificio degli affetti
personali è tra i prezzi della Corona. Il regno di Sardegna era isolato. Dieci
anni dopo, però, nell’aprile 1859 re Vittorio
scese in guerra contro l’Impero d’Austria. Aveva a fianco l’Imperatore
dei Francesi, Napoleone III, e prevalse. Mostrò che i piemontesi sapevano
battersi. Due anni dopo, il 14 marzo 1861, il parlamento lo proclamò re
d’Italia. Il 29 dicembre 1870, tre mesi dopo la “breccia di Porta Pia”, entrò
in Roma. In due decenni la carta politica dell’Italia era cambiata
completamente. Nel 1848 vi si contavano otto Stati. Nel 1870 ve n’era uno solo,
quello d’Italia. Trento e Trieste continuavano ad appartenere alla corona
d’Austria, ma non avevano il rango di regno, com’era stato il Lombardo-Veneto
con Napoleone e lo stesso Impero asburgico.
La formazione del “Re guerriero”
Dalla nascita
Vittorio Emanuele venne preconizzato Re di Sardegna. A Torino regnava Vittorio
Emanuele I, settimo dei dodici figli di Vittorio Amedeo III e di Maria
Antonietta di Borbone (Casa di Spagna). Il primogenito, Carlo Emanuele IV dal
1802 era stato costretto a ridursi Re in Sardegna. Dedito a pratiche
devozionali, abdicò a favore di Vittorio Emanuele che nel 1814, alla caduta di
Napoleone I, fu restaurato sugli Stati di Terraferma, e ottenne l’intera Liguria.
Da Maria Teresa d’Asburgo-Este, Vittorio Emanuele I ebbe cinque figlie e un
maschio, morto nel 1799 a soli tre anni. In Casa Savoia valeva la legge salica,
cioè la successione di maschio in maschio secondo le patenti emanate da
Vittorio Amedeo III nel 1780-1782 regolanti le nozze dei principi del sangue,
ottimamente illustrate da Andrea Borella nell'“Annuario della Nobiltà Italiana”
(2015-2020). La Corona era dunque destinata a suo fratello minore, Carlo
Felice. Nel marzo 1821 Vittorio Emanuele I abdicò per non concedere la
costituzione vigente in Spagna, chiesta dai “liberali” (aristocratici, militari
e autorevoli borghesi) e già introdotta nel regno delle Due Sicilie. In attesa
che Carlo Felice rientrasse da Modena, ove era ospite del cognato, la reggenza
fu assunta da Carlo Alberto (1798-1849), discendente da Tomaso di Savoia,
principe di Carignano, figlio di Carlo Emanuele I, duca dal 1580 al 1630.
Questi concesse la costituzione con la riserva dell'approvazione del Re e la
conferma della libertà dei culti ammessi, contrariamente a quanto previsto
dalla Carta spagnola, ma poi non condivise la “rivoluzione piemontese”
capitanata da Santorre di Santarosa. Su ordine perentorio di Carlo Felice, il
principe lasciò il Piemonte alla volta della Toscana il cui granduca era un
Asburgo. Sposato con Maria Cristina di Borbone (ramo Due Sicilie), il nuovo Re
di Sardegna non aveva eredi diretti. Il maschio prossimo era Carlo Alberto, suo
parente di tredicesimo grado, il cui diritto al trono era stato in discussione
nei primi tempi della Restaurazione non tanto perché i genitori avessero
mostrato simpatie per la Francia rivoluzionaria e perché era stato conte
dell'impero napoleonico, quanto perché il Regno di Sardegna faceva gola a
tutti. Però la devoluzione della sua corona a Vienna avrebbe portato l'impero
asburgico a confinare con la Francia: motivo scatenante di una nuova guerra per
l'egemonia europea. L’impero russo, la Gran Bretagna, la Prussia e persino la
piccola Svizzera per molti motivi non sarebbero stati a guardare, non tanto per
mire dirette sui domini sabaudi ma per i danni derivanti dall’ingrandimento
dell’una o dell’altra potenza continentale. Proprio i princìpi cardinali del
Congresso di Vienna (1815), cioè il ripristino del legittimismo e l’equilibrio
tra le potenze, spianarono la via al riconoscimento di Carlo Alberto quale
principe ereditario.
Dopo i fatti
del Ventuno, Carlo Alberto rimase “sotto osservazione”. Carlo Felice fu
scostante nei suoi confronti. Era però anche il modo più sicuro per tenere la
Casa al riparo da interferenze esterne. La formazione dei figli di Carlo
Alberto, Vittorio Emanuele e Ferdinando, divenne un affare di Stato. Il primo
nacque a Torino il 14 marzo 1820, il secondo il 15 novembre 1822. Pochi mesi
dopo la nascita del primogenito, la sorella di Carlo Alberto, Maria Elisabetta,
andò sposa all’arciduca d’Austria, Ranieri d’Asburgo. La strategia matrimoniale
procedeva su spazi vastissimi, in secolari, come ricorda il dovizioso “Album di
famiglia. I Savoia e le Case Reali di Francia” curato da Gustavo Mola di
Nomaglio (Centro Studi Piemontesi, 2023).
Rientrato dal lungo forzato soggiorno in
Toscana (maggio 1824), Carlo Alberto affidò i figli a due savoiardi, la
governante Nicoud e il sacerdote Andrea Charvaz, poi vescovo di Pinerolo e
Cavaliere della SS. Annunziata. Con la
Consorte, Maria Teresa d'Asburgo-Lorena, si occupò personalmente della loro
educazione. Tradusse dal tedesco i Contes moraux pour l’enfance. Nel
1830 Carlo Felice nominò governatore dei giovani principi il cavaliere Cesare
Saluzzo di Monesiglio e suo vice Giuseppe Gerbaix de Sonnaz, integrati da un
sottogovernatore e da un viceprecettore, padre Lorenzo Isnardi, appartenente
alla congregazione degli scolopi, noti per aperture “liberali”. La giornata dei
principi non era oziosa. Dalle 5 del mattino alle 9 di sera si susseguivano devozioni,
lezioni, studio, esercizi fisici, incontri protocollari e un’ora con la Regina,
talvolta con il padre.
Vittorio
Emanuele non brillò negli studi. Si applicava poco e male. Nel 1832 gli
esaminatori scrissero: “può dirsi […] non abbia saputo niente di niente”. I
principi studiavano religione, grammatica e letteratura francese e italiana,
lingua latina, economia, nozioni di fisica, chimica e agronomia, geografia,
arte militare e strategia, storia della Casa. I docenti erano tutti di
prim’ordine, destinati a cattedre universitarie, se già non le ricoprivano:
Angelo Sismonda, Giuseppe Dabormida, Agostino Chiodo, il grecista Boucheron e
Carlo Sobrero, colonnello d’artiglieria, zio di Ascanio, inventore della
nitroglicerina e a sua volta zio della moglie di Giovanni Giolitti, Rosa. A
differenza del fratello minore, il principe ereditario prestava scarsa attenzione,
non memorizzava, si mostrava svogliato, ricordava poco. Ma si destava quando si
parlava d’armi e di storia dei Savoia, di sistemi difensivi, fortificazioni,
battaglie, armi, cavalli...
Riforme e Statuto
Nell’agosto 1847 il ventisettenne Duca di
Savoia sedette per la prima volta nel Consiglio della Corona. Dall’elezione di
Pio IX (1846) l’Italia era percorsa da aperte pulsioni liberali. Massimo
d’Azeglio aveva pubblicato il Manifesto per un’opinione nazionale. La borghesia
premeva per le riforme. Al conte di Castagnetto il duca confidò che bisognava
mettere un freno e avvertì: “Vedo che la repubblica s’avvicina”. Non sbagliava.
Nell’autunno 1847 Carlo Alberto concesse libertà di stampa ed elezione dei consigli
comunali e divisionali, ma sindaci e intendenti di province e di divisioni
rimasero di nomina regia. In poche settimane fiorirono quotidiani di tutte le
tendenze. La gara per le elezioni assorbì entusiasmi che diversamente si
sarebbero riversati in altre direzioni e avrebbero messo in discussione le
prerogative della monarchia. Nel gennaio 1848 la pressione crebbe di tono. L’8
febbraio Carlo Alberto annunciò l’imminente promulgazione dello Statuto: una
decisione che divise la corte tra chi la riteneva un passo saggio e ponderato,
una concessione anziché un cedimento, e chi la considerava invece anticamera di
rivolgimenti incontrollabili. Tra i motivi di allarme nelle file dei moderati
vi fu la violentissima campagna di opinione contro la Compagnia di Gesù,
accusata di complottare ai danni dello Stato. I gesuiti furono costretti a
lasciare il Regno. Il 17 febbraio un Regio editto riconobbe parità di diritti
civili e politici ai valdesi. Seguì la piena parificazione degli ebrei.
La svolta
vera però venne dall’estero. Il 22 febbraio Parigi insorse. Luigi Filippo, il
Re borghese, riparò in esilio. Nacque la Seconda Repubblica. Per il Piemonte fu
un giorno difficile. Anche il moderato Camillo Cavour, che avanzava dubbi sul
Senato di nomina regia e vitalizio, capì che non si poteva andare molto oltre
lo Statuto, elargito motu proprio anziché estorto. Il pilastro portante della
monarchia rimaneva l’Armata: ufficiali orgogliosi di secoli di fedeltà alla
Casa e ai suoi simboli, a cominciare dall’Azzurra Coccarda.
Il 4 marzo il re promulgò lo Statuto. Da
consultiva la monarchia divenne rappresentativa. Il 23 Carlo Alberto dichiarò
guerra all’Impero d’Austria. Vittorio Emanuele, comandante di una divisione di
riserva, fece brillantemente la sua parte, mostrando tempra generosa e pugnace,
da Pastrengo (30 aprile 1848) a Custoza (23 luglio) e, alla ripresa del
conflitto (marzo 1849), a Mortara e Novara. Nella battaglia le perdite degli
asburgici furono superiori alle piemontesi, ma l’Impero asburgico, pacificato
dopo mesi di rivoluzioni e la feroce repressione dell’insurrezione in Ungheria,
aveva riserve immense mentre il Piemonte era allo stremo. Il Re abdicò e partì
per l'esilio. Vittorio Emanuele ebbe la Corona, senza alcuna cerimonia. Carlo
Alberto morì a Oporto a fine luglio, volgendo le ultime parole ad Alessandro
Riberi, il medico inviatogli dal padre: “Vi voglio bene, ma muoio”.
“Italia
e Vittorio Emanuele”
Vittorio
Emanuele disprezzava quanti discutevano mentre lo Stato era in pericolo.
L’insorgenza di Genova fu repressa duramente. I governi non avevano dato prove
brillanti. Il parlamento neppure. I problemi erano immensi. Anzitutto la
stipula del trattato di pace con l’Austria che pretendeva un’indennità di
guerra di 200 milioni e di occupare la cittadella di Alessandria con 20.000
uomini e 2.000 cavalli a carico del vinto. Il re sostituì Gabriele de Launay,
generale notoriamente reazionario, con Massimo d’Azeglio, facendo così
intendere che la corona contava sul sostegno dei liberali. Aveva bisogno di
mostrare la compattezza del Paese. La Camera, però, anche con le elezioni del 15
luglio 1849 rimase teatro di dispute improduttive. Azeglio fece scudo al re,
che la sciolse e con il proclama del 20 novembre, firmato dal sovrano, esortò a
eleggere deputati consapevoli dell’emergenza. Fu ascoltato. Il 5 gennaio 1850
il trattato di pace con l’Austria fu approvato. Il “Piemonte” poté iniziare a
risalire la china.
Da molti
l’iniziativa del Re viene bollata come indebita ingerenza nelle scelte dei
cittadini. I critici del monarca non dicono se quella Camera, eletta da una
quota modestissima di cittadini, rappresentasse davvero gli interessi generali
e permanenti della popolazione né quale sarebbe stata la sorte del regno se il
trattato non fosse stato approvato. Nel 1850 il “Piemonte” non aveva amici e
neppure alleati. Non solo. È vero che era asilo di politici scampati alla
repressione negli Stati i cui sovrani avevano strappato le costituzioni
concesse nel 1848, ma essi erano una pattuglia rispetto a quanti all'estero
guardavano con sospetto Torino, considerata centrale di destabilizzazione
politica. Pesavano soprattutto le leggi contro i privilegi del clero e il
conflitto tra il governo e il potere ecclesiastico, culminato nell’arresto dell’arcivescovo di Torino, Luigi Fransoni,
tradotto nel forte di Fenestrelle ed espulso dal regno benché Collare
dell’Annunziata e quindi “cugino del re”.
Vinte alcune
battaglie, Azeglio perse la guerra. Fallì la sua proposta di legge sul
matrimonio civile, preludio al riconoscimento del divorzio. Il quarantenne
Camillo Cavour s’intese con l’esponente di spicco della sinistra pragmatica,
Urbano Rattazzi (nacque il “connubio” di “centro-sinistro”) e subentrò ad
Azeglio, che il re tentò invano di sostituire con un ministero cattolico
moderato (Cesare Balbo e Ottavio di Revel). Asceso a presidente del Consiglio,
Cavour intrecciò politica estera (alleanza con Gran Bretagna, Francia e impero
turco contro quello russo: la guerra di Crimea) e abolizione degli ordini
contemplativi. A differenza della sinistra di Rattazzi, il re era favorevole
alla guerra, ma contrario alla politica ecclesiastica di Cavour, che si dimise
quando il vescovo di Casale, Luigi Calabiana, propose di versare al governo un
milione di lire a sostegno del “basso clero” in cambio dell’incolumità dei
conventi. Il Re esitò. Era sgomento per la morte repentina della regina madre,
della moglie, del fratello Ferdinando e dalla malattia, risultata incurabile,
dell’ultimogenito, il duca del Genevese. Stava per cedere ai clericali. Però
anche Azeglio, che nutriva poca simpatia per Cavour, lo esortò “con le lagrime
agli occhi e inginocchiato ai suoi piedi” a riprendere il programma liberale.
Vittorio Emanuele non trovò nessuno disposto a sacrificarsi in cerca di una
maggioranza. Cavour tornò presidente: espressione del Parlamento, non della
sola volontà del sovrano. Il re ne guadagnò, perché da quel momento fu il
governo a rispondere al Paese. Nondimeno le decisioni supreme, politica estera
e conseguentemente la guerra, rimasero nelle mani del sovrano.
La Società
Nazionale, formata da antichi cospiratori e patrioti intemerati, ne fece la
stella polare della rinascente Italia. Alcuni continuarono a seguire Giuseppe
Mazzini. Giuseppe Garibaldi, secondo a nessuno, alzò invece l'insegna “Italia e
Vittorio Emanuele”. Il R
e rispose alle attese dei conservatori, per i quali
egli rappresentava la Dinastia; dei liberali di varia osservanza; di migliaia
di sacerdoti che avevano letto e condiviso Vincenzo Gioberti e inneggiato a Pio
IX; e dei giovani che credevano nella fratellanza dei popoli d'Italia.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA.
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