di Aldo A. Mola
Il Re e i suoi ministri: Cavour, Casati,
Rattazzi...
La storiografia è stata
ingenerosa nei confronti di Vittorio Emanuele II. È comprensibile. Il primo Re d’Italia
si attirò l’odio inestinguibile dei laudatores
degli Stati preunitari, soprattutto i borbonici, dei papisti, dei
tardofederalisti, dei veteromazziniani, dei proto e postsocialisti e poi di
quanti, passeggiando nei corridoi di biblioteche e di chiostri, spiegarono che,
loro sì, avrebbero fatto l’Italia meglio di quanto seppero farla “Monsù Savoia”
e i suoi generali e ministri, rudi e buzzurri.
Si dimentica o viene lasciato sotto traccia
che per unire l'Italia Vittorio Emanuele II gettò tutto sul tavolo della
storia. Il colloquio di Plombières tra Cavour e Napoleone III il 20-21 luglio
1858 fu importante, ma va ricordato che esso prese corpo solo con la firma del
trattato di alleanza tra regno di Sardegna e impero di Francia sottoscritto a
Torino il 26 gennaio 1859 dal principe Gerolamo Napoleone, suggellato dalle
nozze tra l'ultimogenita del Re, Clotilde, e il napoleonico “Plon-Plon”. Va
aggiunto che sin dalla genesi dell'alleanza il Re accettò di cedere alla
Francia non solo la contea di Nizza ma anche la sua originaria Savoia: un
sacrificio che non era solo di chilometri quadrati ma nelle scelte di quanti
dovettero optare tra nuova cittadinanza e memoria di secoli di storia.
Riconoscere la centralità del Re non
comporta alcuna sottovalutazione del ruolo svolto da Cavour, che rimase il suo
punto di riferimento. Significa però constatare che Re Vittorio fu sempre il
garante personale della continuità dello Stato in un’epoca nella quale era
normale che i ministri cambiassero mentre le decisioni supreme spettavano a
imperatori e re. Fu Vittorio Emanuele, non Cavour, a capire che il regno di
Sardegna non poteva continuare da solo la guerra contro l’Austria e a
sottoscrivere “per quello che lo riguardava” l’armistizio di Villafranca (11
luglio 1859) deciso da Napoleone III e Francesco Giuseppe. Con quella adesione
non tradì la causa, l’unificazione italiana, che non rientrava negli obiettivi
immediati di nessuno dei suoi ministri, a cominciare da Cavour, ma ne consolidò
le premesse, conscio che il Regno di Sardegna doveva muoversi negli spazi via
via permessi dal concerto europeo. Ogni spostamento di confini esigeva il
consenso delle potenze e non doveva generare “rivoluzioni”.
Nel piccolo e
ancora informe regno sardo-lombardo il governo La Marmora-Rattazzi in pochi
mesi varò leggi poi estese a quello d’Italia e rimaste in vigore per molti
decenni, come la riforma della scuola di Gabrio Casati e quella di comuni e
province dovuta a Urbano Rattazzi. Il Re fu il cardine della politica estera
imperniata su rapporti personali. Non esitò a valersi anche di reti
cospirative. I commissari e i dittatori nei ducati padani e nel granducato di
Toscana godevano della fiducia del sovrano. “Italia e Vittorio Emanuele” era
l’insegna della Società Nazionale di Daniele Manin, Giorgio Pallavicino
Trivulzio, Giuseppe La Farina e soprattutto di Giuseppe Garibaldi, che,
generale dal 1859, sbarcato in Sicilia, a Salemi si proclamò dittatore in suo
nome.
Perché “II”?
Vittorio Emanuele
deluse Francesco Crispi e i tanti che alla proclamazione del regno volevano che
mutasse l’ordinale Secondo in Primo perché Re della Nuova Italia. Avevano le
loro ragioni. Il cambio comportava una cesura. Avrebbe conferito al Parlamento
un ruolo costituente, almeno per evidenziare un “prima” e un “poi”. Voleva
anche far intendere che il Re non aveva fatto tutto da solo. Ma anche la
continuità aveva i suoi fautori, e prevalse. La legge istitutiva del regno fu
un capolavoro di equilibrismo: «Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi
successori il titolo di Re d’Italia» (14 marzo 1861). Il sovrano divenne Re del
Paese che possedeva e rimase tale «per grazia di Dio», a norma dello Statuto,
legge «fondamentale, perpetua ed irrevocabile della monarchia». Per la legge 17
aprile 1861 Vittorio Emanuele II firmò leggi e decreti come «Re per grazia di
Dio e volontà della nazione Re d’Italia». L'evocazione della nazione fu
l'atteso riconoscimento del concorso dei “popoli d'Italia” alla realizzazione
dell'impresa che fino alla sua vigilia sembrava impossibile. Per la prima volta
nella storia, inclusa quella “augustea” che non comprese le tre grandi isole,
l'Italia era uno Stato unitario, indipendente, sovrano. Riconosciuta anche
dall'Impero austro-ungarico, suo nemico storico, nella conferenza diplomatica
di Londra (1867) essa sedette a pieno titolo nella Comunità internazionale.
Per ascendere a Re d’Italia
Vittorio Emanuele debellò sovrani e annesse terre dello Stato pontificio: le
Legazioni dell’Emilia Romagna prima, Marche e Umbria poi (“fate, ma fate in
fretta” suggerì Napoleone III agli emissari di Re Vittorio, che lo informarono
dell'imminente invasione). Il conflitto però non rimase circoscritto alla sfera
del potere temporale. Investì il primato della chiesa nella vita pubblica. Da
scontro con il papa-re divenne contesa con il Pontefice. Vittorio Emanuele II
era e fu sempre figlio devoto della chiesa, ma non poté impedire che il governo
imboccasse la strada della secolarizzazione della società. Sin dalle leggi
Siccardi il sovrano entrò in conflitto con Pio IX, che rispose con le armi in
suo possesso: non esitò a scomunicare il re, i suoi ministri e l'intera
dirigenza statuale.
Malgrado
l'interdetto pontificio, il Re ora assecondò ora non ostacolò l’azione di
quanti mirarono a risolvere la questione romana in maniera sbrigativa:
lasciando briglia sciolta, almeno in primo tempo e troppo a lungo, a iniziative
militari. Fu il caso dei governi presieduti da Urbano Rattazzi nel 1862 e nel
1867. In entrambi i casi Garibaldi organizzò spedizioni militari nella
convinzione di avere il tacito avallo del sovrano e l'assenso del governo. Nel
1862 dallo sbarco a Palermo al suo passaggio in Calabria trascorsero settimane,
durante le quali il generale proclamò in tutti i modi il suo proposito: «Roma o
morte.» Moltiplicò logge massoniche per iniziarvi i suoi seguaci. Il drammatico
scontro sull’Aspromonte nacque dall’ambiguità e dall’illusione di porre ancora
una volta l’Europa dinnanzi al “fatto compiuto”. Altrettanto avvenne nel 1867,
con il tragico epilogo di Mentana. Entrambe le volte il governo dovette
procedere all’arresto del generale rischiando di compromettere l’immagine di
Vittorio Emanuele II sia dinnanzi ai democratici, sia agli occhi dei governi
esteri, indotti a considerare l’Italia causa permanente di crisi anziché
garanzia di stabilità: l’opposto di quanto ci si era attesi dal riconoscimento
del regno. All'indomani della sconfitta di Napoleone III a Sedan da parte dei
prussiani di Bismarck (2 settembre 1870) il governo Lanza-Sella ordinò
l’assalto e l’espugnazione di Roma proprio per scongiurare il peggio:
un’insorgenza di garibaldini o, peggio, di mazziniani, che avrebbe causato
l’intervento militare internazionale come nel 1849. Anziché coronamento
dell’unità Roma rischiava di fare da detonatore di un ventennio di
contraddizioni. Perciò il governo s’affrettò a farvi celebrare il plebiscito
che ne avallò l’annessione alla corona sabauda.
Da quel momento
Vittorio Emanuele II si trovò più alto e più solo.
Le aperture “a sinistra” e il ricordo di Isacco
Artom
Il crollo di Napoleone
III e l’avvento della Terza Repubblica francese generò nuove ansie. L’Italia
aveva bisogno di sicurezza sul debolissimo confine con l’Impero d’Austria. La
Triplice alleanza difensiva con Berlino e Vienna fu stipulata nel 1882, un anno
dopo l’imposizione francese del protettorato sulla Tunisia. Essa era però “
in nuce” sin dal 1870, quando la proclamazione della Terza
repubblica Oltralpe alimentò le speranze al di qua e in tanti ripresero a
cospirare contro la monarchia. Ancora una volta il Re mise in gioco la Casa. Il
secondogenito, Amedeo duca d’Aosta, già preconizzato Re di Grecia, accettò la
corona di Spagna a conclusione di una complessa trama condotta in porto anche
grazie alle relazioni segrete dirette tra il sovrano e politici eminenti quali
il generale Prim, àuspici alti dignitari massonici. Il regno di “don Amadeo
Primero” durò poco più di un anno. Fu però sufficiente a mostrare che i Savoia
si accollavano responsabilità per la conservazione della pace europea. Maria
Pia, una delle figlie di Vittorio Emanuele II, era regina del Portogallo. Nel
1873-75 Vittorio Emanuele II compì visite di Stato a Vienna e a Berlino e ne
venne ricambiato.
Morto Giuseppe Mazzini (1872), la Sinistra
storica si separò nettamente dai repubblicani, le cui speranze di riscossa si
affidavano a crisi interne gravissime che nessun patriota si augurava. Dal 1867
autorevoli esponenti della Sinistra, come Agostino Depretis e Michele Coppino,
entrambi massoni, avevano fatto parte del governo. Con l’avanzata nelle
elezioni del 1874 la Sinistra risultò candidata a guidare il Paese. Le guerre
per l’unità e l’indipendenza erano definitivamente alle spalle. Mai dimentico di
Trento e di Trieste, anche Garibaldi, l’antico condottiero della Rivoluzione,
dedicava le residue energie a trasformare Roma in città moderna: argini del
Tevere, un porto commerciale, un’ampia area industrializzata... Nel 1875 andò
in visita al Re, che lo accolse al Quirinale avendo a fianco il generale
Giacomo Medici, l’eroe del Vascello.
Alla caduta del governo Minghetti-Visconti
Venosta (18 marzo 1876) Vittorio Emanuele non esitò a conferire la presidenza
del consiglio a Depretis. Lo storico Walter Maturi ha scritto che quello fu il
suo “ultimo grande atto politico”. Il Re provò che il Risorgimento era compiuto
e la Nuova Italia era unita attorno alla Corona, per la realizzazione della
“missione” che Quintino Lanza aveva enunciato dall'annessione di Roma: il
trionfo della Scienza. Nel 1877 la Sinistra riorganizzò le proprie file: fissò
i termini entro i quali dovevano contenersi le tenzoni parlamentari. Le
possibili crisi di governo non avrebbero più investito le istituzioni.
Il ricordo più commosso e penetrante del
“padre della patria” venne confidato da Isacco Artom, antico segretario di
Camillo Cavour, al massone Beniamino Manzone, un professore originario di Bra,
nel Cuneese, chiamato a Roma nel 1895 per fondare
e dirigere una rivista storica del Risorgimento italiano nell’imminenza del
quarto di secolo da Porta Pia. Il Venti Settembre 1895 vennero scoperti al
Gianicolo il monumento di Giuseppe Garibaldi a cavallo e in piazza Cavour
quello dello statista torinese. Artom ricordò a Manzone che le relazioni tra Re
Vittorio e Cavour “pur troppo” non sempre erano state cordiali, ma il Re non
esitò mai a fare il primo passo per riconciliarsi, anche al prezzo delle “sue
simpatie personali”. Aveva quell’alto senso dello Stato che troppo a lungo la
storiografia ha sottaciuto. «La morte del Conte troncò pur troppo
prematuramente quella provvidenziale collaborazione d’un grande Sovrano e d’un
grande uomo di Stato, spettacolo così raro nella storia delle nazioni […].
Morto Cavour, Re Vittorio rimase la sola incarnazione dell’unità italiana. È
giusto proclamarlo altamente […] Egli non esitò mai a compiere arditamente la
sua grande missione storica. Ricordo un’udienza che egli mi accordò al mio
ritorno dalla Danimarca, dove ero stato suo inviato. Era l’epoca infelicissima
seguita a Mentana. Mi accolse con grande affabilità. Nel cuor dell’estate,
dall’aperta camicia, si scorgeva il suo fulvo petto leonino. Mi strinse con
forza la mano e mi congedò dicendomi: Non dubitate, fra breve saremo a
Roma!.»
Mantenne la parola e suo figlio Umberto I
proclamò Roma “conquista intangibile”.
Per cementare l'unità nazionale: le
“nobilitazioni”
Per cementare l'unità nazionale il Re si valse
dell'opera del “suo” governo e delle Camere, che per statuto compartecipavano
alla legiferazione. In pochi anni i governi presieduti da Agostino Depretis,
Benedetto Cairoli e Francesco Crispi compirono miracoli. Ancora vivente Re Vittorio,
Michele Coppino ottenne la scuola obbligatoria e gratuita. Il suo successore
all'Istruzione, Francesco De Sanctis, impose l'edificazione di scuole e
palestre e l'educazione fisica femminile. Le condizioni degli insegnanti, come
di tutti i pubblici impiegati, vennero migliorate. La rete ferroviaria ebbe
nuovo impulso. Dopo la devastante epidemia di colera (1867) furono gettate le
basi della prima legge sanitaria del regno voluta da Crispi e da Luigi
Pagliani, nativo di Genola (Cuneo), che istituì i medici e i veterinari
condotti.
Re Vittorio colse il desiderio profondo di
“riconoscimento” dei cittadini che si mobilitavano a sostegno dello Stato
Nuovo. Riordinò pertanto gli ordini cavallereschi: quello della Corona
d'Italia, meramente civile, suddiviso in cinque classi (cavaliere, cavaliere
ufficiale, commendatore, grand'ufficiale, gran croce), quello Militare e quello
religioso-cavalleresco della Casa, l'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, con
identico impianto. Tutto era stato previsto dal Re Magnanimo. Lo Statuto
albertino sancì «Il Re può creare altri ordini e prescriverne gli statuti» e
conferire altresì «nuovi titoli di nobiltà» (artt. 78-79). Poiché la Nuova
Italia non riconobbe le onorificenze attribuite
dai sovrani preunitari, le nuove “ordinazioni” si susseguirono a ritmo
serrato a beneficio di magistrati, ufficiali, sindaci, presidenti di consigli
provinciali, notabili, imprenditori di successo, segnalati dalla catena
ministeri-prefetti.
Particolarmente sollecito fu l'adeguamento del Regio Senato ad assemblea
propriamente nazionale. Dal febbraio 1860 si susseguirono imponenti “infornate”
di nuovi patres che, a giudizio unanime, immisero nella Camera Alta gli
esponenti più autorevoli del patriottismo degli Stati preunitari. Tra i
Lombardi ed emiliani figurarono Giorgio Pallavicino Trivulzio e Manfredo Fanti.
Fra i toscani spiccarono Gino Capponi, Raffaello Lambruschini, Cosimo Ridolfi.
L'arabista Michele Amari aprì l'infornata di 56 senatori dell'Italia
meridionale, seguito da Ruggero Settimo e Benedetto Paternò Castello di San
Giuliano. Altrettanto avvenne con l'annessione del Veneto e di Roma. Nominati
senatori Giuseppe Verdi, Aleardo Aleardi, artisti e scienziati, Re Vittorio
conferì il laticlavio ad antichi cospiratori del 1821, come Giambattista
Michelini, al garibaldino Vincenzo Sprovieri e al poeta Giovanni Prati.
Ma vi
fu un terreno sul quale Re Vittorio si mosse con libertà di scelta e singolare
lungimiranza: il conferimento dei Collari di Cavalieri della Santissima
Annunziata (classe unica), comportante il rango di “cugino del re”. Mentre
Carlo Alberto ne aveva insignito esclusivamente cattolici, il 13 luglio 1849
suo figlio conferì il primo Collare a Luigi Napoleone Bonaparte, il presidente
della Repubblica francese, che, carbonaro e cospiratore da giovane, aveva
appena annientato la Repubblica Romana di Giuseppe Mazzini, Armellini e Saffi, difesa
dall'indomito Garibaldi. Ne fregiò poi i Re di Spagna e Portogallo, principi
luterani, Gerolamo Bonaparte, già Re di Westfalia e massone, e vari granduchi
di Russia, ortodossi. Tra i regnicoli spiccarono Cavour e il fedelissimo
Salvatore Pes di Villamarina. La vera svolta giunse il 24 settembre 1861,
quando, da poco proclamato Re d'Italia, conferì il Collare all'imperatore di
Turchia, cui seguirono lo scià di Persia e il bey di Tunisi, sino al kedivé
d'Egitto, Ismail Pacha: tutti islamici. Il riferimento al culto della
Santissima Annunziata cedette il passo alla valenza politica del rango di
“cugino del re”. Il sovrano era lo Stato. Da Roma, come già il papa, anche il
Re guardò al mondo. L'Italia aveva interessi prioritari: il Mediterraneo
centro-orientale, la rotta da Suez alle Indie e oltre, il Medio Oriente… Dopo
un anno di regno, Umberto I allargò il compasso. Creò “cugino” Motsu-Hito,
imperatore del Giappone. L'Italia stava fronteggiando il rilancio della
sericoltura dopo anni disastrosi. Ancora priva di colonie e di “basi”, a
differenza degli altri Stati europei, inclusi i Paesi Bassi, aveva urgenza di
ottenere protezione per le proprie navi. Nata da poco, quell'Italia giù
guardava lontano.
Aldo A. Mola
La salma del Re.
Al Pantheon o al Campidoglio?
Il 9 gennaio 1878 Vittorio Emanuele II morì
dopo breve malattia polmonare. Aldo G. Ricci ha ricostruito fedelmente la
missione svolta da don Valerio Anzino per amministrargli il viatico della buona
morte, malgrado gli intralci frapposti da alcuni ecclesiastici rigoristi e
interferenze dell'archiatra di corte. Nessuno era pronto al drammatico evento.
Il Re si congedò dal figlio commettendogli il “brut fardèl” della Corona.
Iniziò una breve, serrata disputa sulla destinazione della salma. Quando il 15
gennaio si seppe che il governo intendeva collocarla al Pantheon, come
documenta Alessandro Liviero nell'imponente “Le origini della Guardia d'Onore
alle Reali Tombe del Pantheon, 1859-1878” (BastogiLibri, 2024), dal Piemonte i
fautori di Superga levarono proteste sdegnate.
Altri,
sempre da Torino, respinsero duramente la scelta. La “Gazzetta del Popolo”,
diretta da Giovanni Battista Bottero, scrisse che il Panteon (sic!) è il tempio
eretto agli dei dell'Olimpo da un generale predatore (Menenio Agrippa) favorito
di Augusto e «sequestrato a favore della vergine dal governo dei papi»: un
luogo umido, esposto alle esondazioni del Tevere, ristretto e inadatto a
manifestazioni solenni. Se proprio Roma doveva conservare le spoglie del Gran
Re, meglio allora il Campidoglio e se non si poteva toccare la piazza
michelangiolesca, a peggio andare bisognava ripiegare sull'Ara Coeli, una
“nuova Superga” per i Re d'Italia. L'autore non aggiunse che quel tempio era in
dotazione dei francescani, l'ordine di fra' Giacomo da Poirino che, avendo
assistito Camillo Cavour morente, era stato chiamato a rapporto da Pio IX e
duramente sanzionato.
“Fare
l'Italia” era un'impresa ancora ardua. Ma le manifestazioni di cordoglio per la
morte del Re Galantuomo provarono che lo Stato era sulla buona strada.
Nessun commento:
Posta un commento