Statua di Re Carlo Emanuele II a Novara |
di Aldo A. Mola
Un monumento a Carlo Emanuele II
Miracolo dell'Italia civile. Mentre molti
abbattono monumenti, cancellano nomi di piazze e di vie (come a Napoli quella
intitolata a Vittorio Emanuele III) e oscurano il passato con polemiche
strumentali, a Fossano viene scoperto il monumento a un Duca di Savoia di metà
Seicento. Non è il più famoso della sua Casata, quasi offuscato tra il nonno,
Carlo Emanuele I, e il nipote, Vittorio Amedeo II. Il primo dei due, al potere
dal 1580 al 1630, nel 1587 annesse il marchesato di Saluzzo e col trattato di
Lione se lo fece riconoscere da Enrico IV di Francia. A quel modo chiuse una
delle porte alpine solitamente usate dai Francesi, ai quali rimase aperta la
Castellata, in alta Valle Varaita, raggiungibile in forze solo poche settimane
d'estate. Vittorio Amedeo II visse a sua volta con l'arma al piede per
difendere lo Stato dal minace vicino d'Oltralpe. Luigi XIV ripetutamente lanciò
al di qua delle Alpi le sue armate, vittoriose a Staffarda nel 1690. I
marescialli del Re Sole, come Catinat, fecero “terra bruciata”. Tornarono in
Piemonte nel corso della guerra per la successione sul trono di Spagna, quando
Torino stessa fu a lungo assediata e infine liberata dalle forze congiunte del
duca e di suo cugino, Eugenio di Savoia: una vittoria che gli fruttò la corona
di Sicilia (lo ricorda una lapide murata all'interno dell'Abbazia di
Staffarda), successivamente commutata con quella di Sardegna.
Vicissitudini di un Duca di Savoia
Carlo Emanuele II (20 giugno 1634-12 giugno
1775), come si è detto, non fu il più fortunato dei duchi sabaudi. Orfano del
padre, Vittorio Amedeo I, a soli quattro anni, crebbe sotto l'occhiuta reggenza
della madre, Cristina di Borbone, sorella del re di Francia Luigi XIII, entrata
nella storia come Madama Reale, pronta sempre a interferire nella vita del
figlio, in tempi nei quali per un principe non esisteva separazione tra vita
pubblica e privata e i matrimoni erano questione di relazioni tra le due Case
perennemente in lotta per l'egemonia sull'Europa di terraferma: gli Asburgo
(d'Austria e di Spagna) e i Borbone di Francia.
Carlo Emanuele II non ebbe molte opzioni.
Sposata a otto anni Francesca d'Orléans, con la pace dei Pirenei (1659)
recuperò Vercelli ma “obtorto collo” dovette lasciare ai francesi Pinerolo, a
un'ora di cavallo dalla capitale. Suoi obiettivi furono l'accentramento del
potere nelle proprie mani con un graduale rinnovamento dei principali consiglieri,
la rivendicazione di titoli “di pretensione” ormai quasi solo nominali
(anzitutto le corone di Cipro e Gerusalemme), l'ingrandimento dello Stato in
Liguria. Mete invano agognate furono Savona e Genova, ove tentò la sorte con il
sostegno del patrizio genovese Raffaele Della Torre, ma fallì l'obiettivo e
temporaneamente perse anche l'enclave di Oneglia.
Alla scelta mercantilistica e alla speciale
benevolenza nei confronti degli ebrei di Nizza, raggiunti da correligionari
dalle Fiandre e dal Portogallo, il duca unì accorti passi negli accordi
commerciali con Lisbona (per accedere al Brasile) e con Londra (trattato di
Firenze, 1669).
Vedovo dal 1665 e sposata la cugina Maria
Giovanna Battista di Nemours, sin da giovane amatissima, ne venne assecondato
in tutte le principali azioni, compreso l'abbellimento di Torino (furono gli
anni di Guarini e di Castellamonte, geniale artefice di fortificazioni
militari), e incoraggiato a valersi di “borghesi” di grandi capacità
amministrative (fu il caso di Giambattista Truchi), “una sorta di Colbert
piemontese”, annota lo storico Valerio Castronovo, che però ne conclude il
profilo biografico con molte riserve sul mancato ingrandimento dello Stato e il
perdurante “vassallaggio” verso la Francia.
Nondimeno, va evidenziato, nei dodici anni di
esercizio effettivo del potere ducale (dal 1663 alla morte, quando aveva appena
41 anni) Carlo Emanuele II gettò le basi dell'esercito permanente di pace, come
riconosciuto da storici quali Claretta, Carutti e dalla Storia della
monarchia piemontese di Ercole Ricotti, punto di riferimento del più
autorevole storico dell'Esercito italiano, il generale di CdA Oreste Bovio.
L'istituzione
dei Granatieri: un corpo di élite...
Tra le istituzioni militari ideate da Carlo
Emanuele II e destinate a durare nei secoli spicca il Reggimento di Guardia (o
delle Guardie), costituito il 18 aprile 1659, il primo e più antico della
fanteria di ordinanza, incaricato di montare la guardia al palazzo del principe
in un'età ancora segnata da attentati alla vita dei sovrani, da “fronde” di
varia germinazione e gestazione (anche su pulsioni religiose: il duca brillò
per la devozione nei confronti della confessione cattolica, sublimata con
l'edificazione della Cappella della Santa Sindone) e mentre in Inghilterra ancora
era in corso l' “esperimento” di Cromwell, “lord protettore”.
La sicurezza del sovrano doveva fondare su basi
rupestri. Furono quelle assicurate appunto dalla Guardia che nel 1685 con
Vittorio Amedeo II vide crescere al proprio interno la specialità dei
lanciatori di granate, i Granatieri. Era un corpo di élite, formato da uomini
dotati di speciali qualità atletiche: statura elevata, forza muscolare, agilità
sul campo.
Dalla fondazione esso fu tutt'uno con secoli di
storia del regno di Sardegna e di quello d'Italia. I Granatieri legarono la
loro fama alla guerra difensiva contro la Francia, tra il 1792 e il 1797.
Quando Carlo Emanuele IV, lasciati gli Stati di Terraferma, si rifugiò in
Sardegna, ove la Casa svolse una politica indipendente, l'unico reparto
sfuggito allo scioglimento imposto dai francesi fu il Reggimento cacciatori
Guardie, che poi prese nome da quello costituito nel 1744 da Bernardino
Antonio Genovese, duca di San Pietro (“Reggimento di Sardegna”). Divenuto
Reggimento Guardie, esso fu comandato personalmente da Vittorio Emanuele I, il
Restauratore.
...nella Grande Guerra, a Fiume e oltre.
I Granatieri di Sardegna, come per semplicità
qui li denominiamo e ricordiamo, si batterono nelle guerre per l'indipendenza,
dal 1848-49 alla Grande Guerra: in quest’ultima, con una brigata di due
reggimenti, essi lamentarono ben 12.202 vittime tra morti e dispersi e 14.110
feriti.
Successivamente, sette Granatieri del primo
Reggimento, costretto a lasciare Fiume alla vigilia del trattato di pace
italo-austriaco del 10 settembre 1920, giurarono “sulla memoria di tutti i
morti per l'unità d'Italia: Fiume o morte! E manterremo, perché i granatieri
hanno una fede sola e una parola sola. L'Italia non è compiuta. In un ultimo
sforzo la compiremo”. Il loro appello a Gabriele d'Annunzio, sorretto anche da
trame di cui furono protagonisti i fiumani Antonio Vio e Attilio Prodam,
assecondati dal torinese Giacomo Treves, con il sostegno di Domizio Torrigiani
e di Raoul Palermi, fu accolto. Il Vate di sicuro non agì all'insaputa del
sovrano. Questo è però un aspetto della complessa vicenda fiumana tuttora poco esplorato, ma illuminato dal conferimento
a d'Annunzio del titolo di Principe di Monte Nevoso: fatto eccezionale,
trattandosi dell’unico rango principesco concesso in 46 anni di regno da
Vittorio Emanuele, che creò invece Paolo Thaon di Revel e Armando Diaz
rispettivamente duchi del Mare e della Vittoria.
I Granatieri si coprirono di gloria nei
conflitti successivi, dall'Etiopia alla seconda guerra mondiale e nella eroica
difesa di Roma contro i tedeschi nel settembre 1943, da porta San Paolo al
Campidoglio, preludio della lotta di liberazione che ebbe protagonista Giuseppe
Cordero Lanza di Montezemolo.
Ricostituito a Roma il 1° aprile 1948 come
Divisione di fanteria Granatieri di Sardegna, il corpo ha poi avuto
l'evoluzione in Brigata meccanizzata e ha partecipato a missioni di pace
(Somalia, Bosnia Erzegovina, Kosovo, Libano...) e all'operazione “strade sicure”, con interpretazione ampliata
del ruolo originario di Guardia: chi garantisce il Capo dello Stato fa
altrettanto per quanti rappresentano gli Stati esteri presso di lui.
L'omaggio di Fossano al fondatore dei
Granatieri
Vi è quindi motivo perché i Granatieri di
Sardegna siano sentiti quale parte integrante della storia secolare che unisce
il ducato di Savoia all'Italia odierna e perché i Granatieri stessi ricordino
il loro fondatore. Lo fanno domenica 29 agosto 2021 con iniziativa congiunta:
lo scoprimento del monumento del loro fondatore, Carlo Emanuele II, a Fossano
(Cuneo), presso il Castello prodigiosamente edificato in soli otto anni su
ordine del principe Filippo d'Acaja.
Comune dal 1236, città dal 1566 per decreto di
Emanuele Filiberto, diocesi dal 1592 (la quarta della Granda, dopo Alba,
Mondovì e Saluzzo e secoli prima di quella di Cuneo, con la quale è in corso la
“fusione”), Fossano ha una lunga e gloriosa storia politico-militare, civile ed
ecclesiastica. Da metà Ottocento ne furono protagonisti Giovanni Battista
Michelini, da un canto, e il vescovo integralista Emiliano Manacorda,
Alessandro Michelini, il barone Giacomo Tholosan, Salvatore Sacerdote, i
deputati Felice Merlo (primo presidente della Camera Subalpina), il generale
Ignazio Pettinengo Genova, il geniale Giovanni Battista Borelli, il conte
Falletti di Vllafalletto...
Principale snodo ferroviario tra Piemonte e
Liguria verso Savona, Fossano fu una “piazza grande”, contesa e ambìta. Ora
accanto al Castello il monumento di Carlo Emanuele II insegna che l'Italia ce
l'ha fatta e ce la può fare, all'insegna del senso civico, dell'onore e di
valori appresi dai suoi cittadini che si batterono per l'indipendenza, l'unità
e la libertà della Patria. I Granatieri aprivano la strada...: esercitarono un
Magistero che l'Italia odierna, proprio perché europea, sente l'attualità.
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