Settembre 1920: un centenario dimenticato
di Aldo A. Mola
Governo di “okkupazione”
Studenti che si dichiarano “di sinistra” annunciano manifestazioni contro il disastro della Scuola. Verosimilmente contro questo governo, che è il più “a sinistra” della storia d'Italia dal 1861 a oggi. Niente di nuovo sotto il sole. Lo scorso anno, quando a scuola il sabato andavano in pochi, ogni venerdì gli studenti marciavano per Greta. Ora accampano altri motivi. Ma contro chi? Okkuperanno aule a rischio di contagio? Comunque non sono né saranno i soli.
Qui tutti okkupano. L'esempio vien dall'alto. Anzitutto il governo, il sottogoverno, gli “esperti” e il corteo interminabile dei loro ben remunerati portavoce e fornitori, accucciati su tutti i divani, le poltrone, le sedie e gli stuoini possibili. Okkupano anche rimanendo in piedi, con e senza mascherine, generalmente nere in attesa di quelle viola per l'Avvento. Se del caso, si fanno incastonare rotelle sotto i calcagni (Azzolina e Arcuri sono specialisti) e così possono volteggiare su se stessi. Mentre dilaga la disoccupazione, i tre partiti e mezzo oggi al governo (l'estrema sinistra, il papocchio sedicente Democratico, Italia viva e il pasticciaccio brutto che di nome fa Cinque stelle) “okkupano” e dichiarano che continueranno a farlo alla faccia dei voti che tra una settimana gli italiani deporranno nelle urne per le regionali e il referendum. Sono gli Unti dell'Okkupazione e anche della sotto-occupazione ingigantita con oboli d'ogni genere: redditi di cittadinanza, di questo e di quello. Tanto chi paga sono gli italiani, a cominciare da quelli che sono così gonzi da continuare lavorare, a pagare le tasse e si concedono la debolezza di credere che ancora esista lo Stato di diritto.
La lunga gestazione del caos postbellico
Forse proprio perché l'attuale governo è il più “sinistro” della storia d'Italia, né Sua Emergenza Conte né i suoi sponsor, seguaci e segugi si sono prodotti (per ora) in inni e canti per ricordare l'Occupazione delle fabbriche del settembre 1920.
Eppure nel centenario quel fattaccio merita memoria: fu la sortita di estremisti di tutti i tipi e generò la catastrofe della “rivoluzione rossa”. Sino a pochi anni orsono motivo di cortei, fiaccolate e bandiere rosse al vento, l'occupazione delle fabbriche oggi è un ricordo scomodo, sbiadito.
Ma vediamo come andarono le cose. Fine agosto 1920. La trattativa tra imprenditori e Federazione Italiana Operai Metalmeccanici (Fiom) per il rinnovo del contratto nazionale dei salari si arenò. Gli industriali erano alle prese con la conversione dalla produzione di guerra a quella “di mercato”. Per anni il governo aveva elargito somme gigantesche per armare il Paese. Anziché pochi mesi, come avevano sognato il presidente del Consiglio Antonio Salandra (Troia, 1853 -Roma, 1928) e il ministro egli Esteri Sidney Sonnino, l'Italia rimase in guerra tre anni e mezzo. Le Emergenze si sa quando cominciano, non quando finiscono. Si vede subito chi le paga, meno chi ne approfitta. In un convegno a Padova il generale di corpo d’armata della Guardia di Finanza, Luciano Luciani, storico di vaglia, disse lapidariamente che a soffrirne furono soprattutto contadini, montanari e meno abbienti. Se ne giovarono i “pescecani”.
Dopo il disastro di Caporetto (ottobre-novembre 1917) il ministero presieduto da Vittorio Emanuele Orlando, con il lucano Francesco Saverio Nitti al Tesoro, non badò più a spese. In breve il debito pubblico schizzò da 14 miliardi (quanti ne aveva accumulati dal 1861 al 1915) a oltre 90. Resistere sul Piave voleva dire rifare di sana pianta l'artiglieria e investire nell'aviazione, micidiale “cavalleria dell'aria”. Gli altri Stati in guerra fecero altrettanto. Infine, prevalse la regola di Londra: “Se non perdiamo la guerra, vinciamo”. L'Italia fu tra i vincitori; ma a prezzo altissimo. Non aveva la compattezza secolare di Gran Bretagna e Francia, né le risorse degli Stati Unti d'America. Tuttavia resse, a differenza degli Imperi che via via crollarono per consunzione interna, a cominciare da quello turco, colosso dai piedi d'argilla: una bolla di contraddizioni fra modernizzazione dell'apparato militare e oscurantismo islamico, ieri come oggi.
Tensioni, dunque, tra “padroni” e “proletariato”, come all'epoca si diceva. Dinnanzi all'ostruzionismo del sindacato operaio, il 30 agosto 1920 la “Romeo” di Milano decise la “serrata” dello stabilimento. Chiuse i battenti in attesa che i salariati scendessero a miti consigli. In risposta la Fiom ordinò l'occupazione di centinaia di fabbriche meccaniche e metallurgiche.Tra il 1° e il 4 settembre il moto dilagò in tutt'Italia. Si concentrò soprattutto nel triangolo industriale Milano-Torino-Genova. Come documentò Piero Bairati, storico libero da paraocchi ideologici, gli industriali era ancora in fase ascendente. Gli scioperi erano aumentati del 120% in un anno, ma il padronato l'aveva messo nel conto. Durante la guerra migliaia di fabbriche e di imprese anche artigianali erano state dichiarate ausiliarie e la manodopera (in buona parte femminile) era stata “militarizzata”. Come negli altri Paesi, incluse Gran Bretagna e Francia, gli scioperi vennero puniti come sabotaggio. Era scontato che dopo la Vittoria i rapporti mutassero. Nell'ultimo anno il governo promise di assegnare ai contadini nullatenenti i latifondi incolti, quasi l'Italia centro-settentrionale non fosse da secoli un Paese di medie e piccole proprietà agricole, semmai troppo frazionate e sovrappopolate. Il mito però prevalse sulla realtà.
Nel novembre 1919 il rinnovo della Camera mostrò la profonda lacerazione tra partiti e istituzioni. Nel 1914-1915 i socialisti si erano arroccati sulla formula “né aderire (alla guerra) né sabotare”. Né sì, né no (un po' come oggi sul taglio dei parlamentari e sul MES). Nell'agosto 1917 però, come ricorda il colonnello Carlo Cadorna in “Caporetto? Risponde Luigi Cadorna” in stampa per BastogiLibri, il governo consentì a militanti bolscevichi russi di irrompere proprio nelle aree industriali (a Torino, in specie), liberi di propagandare la rivoluzione. Poi quattro “socialisti” italiani andarono in missione in Russia per vedere che cosa vi stesse effettivamente accadendo. Non conoscevano il russo e i russi non capivano l'italiano. Gesticolarono e furono applauditi. Al ritorno non dissero quel che avevano veduto. Ormai, del resto, parlavano i fatti: l'assalto dei leninisti al Palazzo d'Inverno, la pace con la Germania senza compensi territoriali “né riparazioni”, la liquidazione cruenta dello zar, della sua famiglia, dell’aristocrazia e dell’odiata borghesia. I “dieci giorni che sconvolsero il mondo” (John Reed) smentirono il “calendario trinitario” del marxismo austro-germanico: industrializzazione, formazione del proletariato, rivoluzione. In Russia Lenin balzò oltre la fase intermedia, sino a quel momento ritenuta indispensabile: dalla non remota abolizione della servitù della gleba a “comunismo+elettricità”. La storia aveva più fantasia degli storici, come osservò Leo Valiani. Ripartiva da Napoleone: “on s'engage, et puis on voit”. Dopo anni di guerre tra Armata Rossa e armate Bianche, grazie anche alla “distrazione” degli Stati Uniti d'America, il cui presidente, Woodrow Wilson, nei Quattordici punti del gennaio 1918 fece largo credito alla sua “normalizzazione”, la Russia di Lenin esercitò un enorme fascino sui socialisti italiani e a beneficio delle correnti anarco-sindacaliste che in ogni sommovimento intravvedevano uno spiraglio della società senza altari né classi, senza “ordini” né vincoli di sorta. Perciò Lenin ritenne che l'unico rivoluzionario italiano fosse Gabriele d'Annunzio, con una spruzzatina di Alceste De Ambris e della sua celebrata Carta del Carnaro.
Tentazioni ideologiche e immaginarie a parte, dopo il successo elettorale del novembre 1919 la sinistra italiana rimase divisa in Gruppo parlamentare socialista (frammentato e niente affatto univoco, antimonarchico, antimilitarista, quasi l'Italia avesse perso la guerra, e privo di un programma realistico), Partito parlamentare (suddiviso in correnti che si odiavano) e Confederazione generale del lavoro. In un paio d'anni gli iscritti ai sindacati crebbero da uno a quattro milioni di iscritti. La sua punta di diamante sempre più divenne la Fiom.
Consigli di fabbrica e “Ordine Nuovo” di Antonio Gramsci
Dal 1920 conquistarono spazio crescente i Consigli di fabbrica (traduzione italiana di soviet) proposti in specie dal settimanale e poi quotidiano “Ordine Nuovo”. Nel suo centenario, il primo numero (1° maggio 1919) è stato ristampato in 250 esemplari dalle benemerite Edizioni Viglongo, fondate da Andrea Viglongo (1900-1986) che vi visse la sua “gran giornata” a fianco di Antonio Gramsci, Angelo Tasca, Palmiro Togliatti e Umberto Terracini. Il vero nemico degli ordinovisti non erano i governi Orlando-Sonnino, ormai allo stremo, o Nitti, condannato a vivere alla giornata, né il partito popolare di don Sturzo, i nazionalisti (vociferanti ma numericamente esigui) e, meno ancora, i neonati fasci di combattimento dell'ex socialmassimalista Mussolini. Il loro spauracchio era Giolitti, il pacato e pragmatico statista liberale che nel maggio 1920, settantottenne, era tornato per la quinta volta a capo del governo.
Nel marzo-aprile i Consigli di fabbrica ispirati da “Ordine Nuovo” occuparono il cotonificio Mazzonis di Pont Canavese, le Officine Miani-Silvestri a Napoli e molti stabilimenti “di bandiera” in Liguria: Ansaldo, Piaggio, Odero, Ilva... La CGL si sfilò. A Torino venne dichiarato il mitico “sciopero delle lancette” per reazione contro il licenziamento da parte della Fiat di tre operai che avevano protestato contro l'introduzione dell'ora legale, che per un giorno costrinse a un'ora di lavoro in più. Gli industriali risposero con la serrata. La protesta rientrò. Ma era solo la prova generale.
Nell'estate la guerra russo-polacca giunse alla partita finale: l'Armata Rossa di Lenin, comandata da Tukacevskij, avanzò sino alla Vistola ma venne fermata alle porte dei Varsavia e costretta dal generale Weygand a mortificante ritirata (15-16 agosto). Ancora una volta i polacchi salvarono l'Europa centro-occidentale. Ma le frange rivoluzionarie dei partiti socialisti di quei paesi furono mobilitate per impedire ogni aiuto ai polacchi e scatenare il caos all'interno dei rispettivi stati.
Fuori tempo massimo, in risposta a una nuova serrata degli industriali i Consigli di fabbrica ordinovisti deliberarono la già citata occupazione delle fabbriche, che non fu affatto irenica né priva di episodi truci, pudicamente cancellati dalla “memoria ufficiale”.
Il 5 settembre Gramsci scrisse: “Le gerarchie sociali sono spezzate, i valori storici sono invertiti, le classi strumentali sono diventate classi dirigenti, si sono poste a capo di se stesse, hanno trovato in se stesse gli uomini rappresentativi, gli uomini da investire del potere di governo, gli uomini che si assumono tutte le funzioni, che di un aggregato elementare e meccanico fanno una compagine organica, una creatura vivente”. Confondeva i sogni con la realtà.
Giolitti, il Grande Vecchio della democrazia liberale
Giolitti rimase impassibile. Quando Giovanni Agnelli gli chiese di cacciare gli operai dalle fabbriche, rispose che era pronto a farle bombardare: gli industriali capirono che proprio non era il caso.
Come previsto dallo Statista, l'occupazione si esaurì. Il 19 settembre la sala del Consiglio dei ministri al Viminale fu inaugurata da una seduta davvero singolare: da una parte i rappresentanti della Confindustria (Conti, Crespi, Falck, Ichino, Pirelli e Olivetti), dall'altra quelli della CGL (D'Aragona, Baldesi e Colombino) e della FIOM. Il 16 settembre la “base” dell'accordo era stata stilata dal massone Gino Olivetti per gli industriali, a contatto con sindacalisti “rossi”, e fatta propria dal ministro del Lavoro, Arturo Labriola, “fratello” pure lui, come Vittorio Valletta. Il 27 settembre, deposta l'illusione di esserne padroni, gli occupanti lasciarono le fabbriche per rientrarvi da operai. A parte miglioramenti salariali e altri benefici (ferie, indennità per licenziamenti, retribuzione delle giornate lavorate durante l'occupazione...), l'accordo previde una legge istitutiva di commissioni di controllo sindacale nella gestione delle fabbriche: ma sulle condizioni del lavoro, non sulla loro gestione. La proprietà non fu messa in discussione. Il disegno di legge si perse per strada, come le “terre ai contadini” e altre promesse dei tempi difficili.
Con il Trattato di Rapallo Giolitti chiuse la vertenza sul confine italo-jugoslavo e a tra dicembre e gennaio liquidò la Reggenza di d'Annunzio a Fiume. Dall'occupazione delle fabbriche la rivoluzione uscì sconfitta. Peggio. A chi gli chiedeva di motivare la condotta del governo, in Senato (formato da uomini dello Stato, alti gradi militari e roccaforte del potere economico, non da poetini venticinquenni) Giolitti spiegò che non poteva impedire l'occupazione di 600 fabbriche, talvolta con migliaia di operai, con altri 500.000 lavoratori pronti a muoversi in soccorso degli occupanti, se questi fossero stati attaccati dall'esercito. Sgomberare le fabbriche con la forza avrebbe comportato la “guerra civile”. Parole rotonde. Ma Luigi Albertini, già sicofante dell'intervento dell'Italia nella Grande Guerra, lo bollò quale “bolscevico dell'Annunziata”, ironizzando sul fatto che dal 1904 lo Statista era “cugino del Re”.
In effetti alcuni industriali cominciarono a ritenere che avevano ragione gli agrari a usare squadre di ex arditi per sconfiggere le Camere del lavoro e i “rossi”. Ma i più continuarono a ritenere che le tensioni erano fisiologiche, come lo erano stati i grandi scioperi d'inizio secolo, lo sciopero generale del settembre 1904, quelli contro la guerra in Libia (guidati da repubblicani e socialrivoluzionari come Nenni e Mussolini).
Il mito e i suoi frutti velenosi
La sconfitta dell'occupazione ebbe due frutti tossici. Il primo fu la scissione del PSI. Al congresso di Livorno (gennaio 1921) dal tentacolare Partito socialista si spiccò la frangia ordinovista, che dette vita al Partito comunista d'Italia, sezione locale della terza internazionale: leninista assai più che marxista, suggestionato da Louis Blanc e Georges Sorel e fascinato da Giovanni Gentile anziché da Antonio Labriola, il PC d'Italia nacque e rimase minoritario e settario, come mostra la vicenda di Angelo Tasca e degli altri suoi maggiorenti via via radiati (e a volte eliminati dalla faccia della terra).
L'altro frutto velenoso fu il mito dei Consigli di fabbrica e di cascina, rifiorito nel 1944-1946, anche per suggestioni affiorate tra le pieghe della Carta di Verona della Repubblica sociale italiana e dalla legislazione della RSI passata in rassegna nei due poderosi volumi curati da Francesca Romana Scardaccione per l'Archivio Centrale dello Stato (2002).
Rimasto sotto traccia per un ventennio, quel mito esplose nel 1968. Si cominciò con le okkupazioni delle scuole e delle Università, con tutti gli aspetti folkloristici di una piccola borghesia dedita alla rivoluzione amatoriale, cui seguirono Potere Operaio, Lotta Continua, la lunga scia di sangue dei “compagni che sbagliavano” e gli anni di piombo. L'ultimo ad agitare il mito dell'okkupazione fu Enrico Berlinguer dinnanzi ai cancelli della Fiat, malgrado già avesse proposto il compromesso storico, caldeggiato l'euro-comunismo e prese le debite distanze dall'oligarchia del Partito comunista sovietico.
Tornare alla normalità
Nel centenario del settembre 1920 il problema del Paese non è okkupare ma far ripartire la produzione, far funzionare davvero la Pubblica istruzione (nervo sensibile per chi ne fu ministro e ora osserva l'Italia dal Colle più alto), senza relegare milioni di bambini e ragazzi nel ghetto di chi vive in plaghe non collegate a internet da alcuna “banda”, né larga né stretta; restituire efficienza agli uffici e agli opifici che esigono la presenza fisica dei loro addetti, perché non basta un collegamento telematico per elevare un muro, sagomare un tondino, compattare un'autovettura..., né per mietere, raccogliere e immettere i prodotti agricoli sul mercato interno e internazionale.
Fra le tragedie incombenti sul Paese vi è il governo in carica, il più inetto, incoerente, sconclusionato, e quindi pericoloso, dal 1861 a oggi.
Motivo in più perché il 20-21 settembre prossimi i cittadini parlino con lo strumento a loro disposizione: il voto. A cominciare da un tondo “No” allo sconsiderato “taglio” dei parlamentari: apparentemente un capriccio pentastellato, in realtà un siluro contro le istituzioni, già pericolanti. Parrebbe davvero incredibile che certi “democratici” stiano al gioco, se non fosse che sono nipotini, forse inconsapevoli, del volontarismo ordinovista di un secolo fa.