NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

martedì 3 gennaio 2017

Esercito e Brigantaggio. La Storia di un comune ribelle e del massacro di 44 Soldati Italiani.

L'articolo di Sergio Boschiero pubblicato su  "Storia in rete" novembre/dicembre 2011

Lo scorso settembre il Consiglio Comunale di Pontelandolfo, caratteristico paese del beneventano con poco più di 2.000 abitanti, si è attribuito lo status di “città martire”, nel ricordo della dura rappresaglia dell’Esercito Italiano, seguita all’eccidio di 44 giovani militari impegnati nella guerra al brigantaggio. Già il 14 agosto, per la commemorazione ufficiale del 150° anniversario della rappresaglia, il Comune ha avuto la partecipazione di Giuliano Amato in veste di Presidente del Comitato dei Garanti per i 150 anni dell'Unità d'Italia e di rappresentante del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Amato, a nome della Repubblica Italiana, ha chiesto ufficialmente scusa alla piccola comunità per i fatti del 1861. Ma cosa avvenne davvero 150 anni fa e perché si è voluto un atto pubblico riparatore?

Il paese si chiamava e si chiama Pontelandolfo, nell’alto Sannio, in provincia di Benevento. Nel 1861 era punto di ritrovo di briganti. Il 7 agosto 1861, celebrandosi a Pontelandolfo la Festa di San Donato, Protettore locale, il paese si risvegliò con il suono delle campane di tutte le chiese e la processione divenne per i briganti, accorsi a centinaia, l’attesa occasione per mimetizzarsi fra i fedeli e scatenare l’insurrezione contro lo Stato e le ancor giovani Istituzioni unitarie. I Briganti assalirono gli uffici municipali, la polizia e depredarono le botteghe. Riuscirono così ad annientarela presenza dello Stato e ad impadronirsi del paese. Anche due comuni limitrofi insorsero: Casalduni e Campolettere. Doveroso da parte delle Istituzioni dover intervenire e, alla guida del Luogotenente Luigi Augusto Bracci, vennero mandati 40 Bersaglieri del 36° Reggimento e 4 Carabinieri per ristabilire l’ordine nella zona. I soldati italiani giunsero l’11 agosto 1861 a Pontelandolfo e non trovarono, come ci si poteva aspettare, un paese assediato dai briganti ma un villaggio schierato coi briganti che - aizzato anche dal clero locale – accolse i militari attaccandoli. Isoldati dovettero ritirarsi a scopo difensivo nella torre medievale, simbolo di Pontelandolfo e unica testimonianza architettonica del castello edificato nel XIV secolo e distrutto da un terremoto nel giugno del 1688. Non riuscendo a sostenere la situazione decisero di ripiegare verso la limitrofa Casalduni, zona a torto ritenuta sicura. Questa scelta fu la loro condanna. Nello spostamento vennero attaccati dai briganti. Gli abitanti di Casalduni aspettavano imboscati l’arrivo dei militari e, forti per quantità, ci misero poco ad ottenere la loro resa e ad arrestarli. Poi ebbe inizio il massacro.

Soltanto un bersagliere riuscì a fuggire. Gli altri 39 soldati, i 4 Carabinieri e il Luogotenente Bracci vennero letteralmente fatti a brandelli con una ferocia inaudita. Rendendosi conto della reale situazione in cui versavano le zone sulle rive del Cerreto, il 13 agosto giunsero a Pontelandolfo e Casalduni - guidati dal Colonnello Pier Eleonoro Negri - 400 bersaglieri commilitoni dei militari massacrati due giorni prima. Lo scenario fu agghiacciante: esposti alle finestre delle case e addirittura nelle chiese vi erano i sanguinanti ricordi a testimonianza dell’eccidio perpetrato ai danni dell’Esercito Italiano. Non si trovarono i cadaveri dei soldati ma solo brandelli di essi. Il Tenente Bracci, agonizzante, venne assassinato da una donna che ne sfondò la testa a colpi di pietra per poi essere staccata. Il macabro trofeo era nella chiesa di Pontelandolfo, infilzato su una croce, orribile ex-voto sanfedista. Era troppo. Dopo la fucilazione di alcuni briganti, venne presa la drastica decisione di dare alle fiamme i due paesi. Il 14 Agosto 1861 tutta l’Irpinia guardò gli altissimi fumi dell’incendio di Pontelandolfo e di Casalduni, i due antichi paesi del Sannio diventati rifugio,malgrado i tanti onesti, dei briganti filo-borbonici e anti unitari. Era la dura rappresaglia dell’Esercito italiano di fronte al massacro di quasi cinquanta giovani soldati della nuova Italia, catturati a tradimento. C’erano fra loro Carabinieri e Bersaglieri che difesero la bandiera fino all’ultimo. Il Massacro dei nostri militari avvenne a Casalduni ma i soldati fuggivano da Pontelandolfo. Vi fu correità.

Scrive Carlo Alianello, autore di libri “reazionari” come L’Alfiere, L’eredità della Priora, I Soldati del Re - tutti caratterizzati da un avvincente stile letterario e pieni di passione borbonica – ne “La Conquista del Sud” (Milano, Rusconi, 1972): “il 7 Agosto 1861, a Pontelandolfo, per opera dell’arciprete Epifanio De Gregorio e dei reazionari locali, si fecero le solite cerimonie. Si alzò la bandiera bianco-gigliata dei Borbone, si bruciò in piazza la bandiera sarda (quella tricolore sabauda ndr) e il prete cantò il Te Deum, per festeggiare l’auspicato ritorno di Francesco II di cui si espose il ritratto.” E’ attendibile in questo caso la prosa di Alianello? Non c’è alcun dubbio, nessuno l’ha contestata.

Ma nelle cronache dell’insanguinato 1861 un altro scrittore presentò con un verismo asciutto gli avvenimenti che visse da vicino nella qualità di inviato speciale al seguito dell’Esercito italiano nella guerra contro il Brigantaggio. Questo scrittore è Marc Monnier e la sua opera più nota fu “Notizie storiche documentate sul Brigantaggio nelle provincie napoletane dai tempi di Fra’ Diavolo fino ai giorni nostri” (Firenze, G. Barbera editore - 1862). Marc Monnier era nato a Firenze nel 1829, studiò a Napoli, a Parigi, a Berlino, a Ginevra, dove insegnò lettere straniere e divenne rettore della locale prestigiosa università. Fu amante dell’Italia e di Napoli. Ha goduto della fama di essere sempre stato obiettivo nei suoi rapporti. Scrive Maria Grazia Greco, Autrice di una documentata recente pubblicazione intitolata “Il ruolo e la funzione dell’Esercito nella lotta al brigantaggio (1860 1868)”, prefazione di Aldo Alessandro Mola, nella collana curata dall’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito: “questo studio sistematico del brigantaggio rappresenta forse quanto di più obiettivo e fedele si possa trovare sulla essenza di questo fenomeno”. Ci troviamo di fronte ad una vera e propria dichiarazione di attendibilità del Monnier.

Dal capitolo VII, pagg. 96-97-98, questi gli argomenti trattati da Marco Monnier (op.cit.): La luogotenenza del Generale Cialdini – La reazione repressa – il brigantaggio diminuisce – storia di cannibali – Pontelandolfo e Casalduni – loro delitto e loro castighi.

[…] Il 7 agosto i briganti chiamati da cinque canonici e da un arciprete invasero Pontelandolfo, comune sulla destra del Cerreto, nelle montagne. Accolti con gridi di gioia, al ritorno da unaprocessione, saccheggiarono l’ufficio municipale, la polizia, il corpo di guardia, le botteghe, il precettore Filippo Lombardi, settuagenario, fu strappato dalle loro mani da sua moglie: entrarono di viva forza in casa del percettore Michelangelo Perugino, e dopo averlo ucciso, mutilato, spogliato, bruciarono la casa di lui e gettarono il cadavere nudo nelle fiamme. Ma questo non è nulla; tremila mascalzoni costituirono il governo: due villaggi vicini, Casalduni e Campolettere, insorsero.

Quattro giorni appresso, l’11 agosto, 40 soldati italiani e quattro carabinieri furono inviati a Pontelandolfo per arrestare i briganti nella loro fuga. Non ebbero la pazienza di attendere, volleroattaccarli. Tutto Pontelandolfo fu sotto le armi. L’Ufficiale italiano (Luigi Augusto Bracci, Luogotenente del 36°) e i suoi quarantadue uomini furono assaliti e dovettero rifugiarsi in una torre.

Dopo una vigorosa resistenza, ripiegarono sopra Casalduni […] Per via furono stretti e attaccati ai fianchi dalla gente di Pontelandolfo, poi arrestati da quelli di Casalduni, che eransi imboscati per attenderli. Circondati allora, sopraffatti dal numero, furono scannati tutti, eccetto un solo che ebbe il  tempo di gettarsi in una siepe e narrò poi questa orribile storia. Non fu una carneficina, ma un eccidio. I contadini erano 100 contro uno e volevano tutti il loro pezzo di carne. – non invento nulla, anzi cerco di attenuare. La mattina giunge il Colonnello Negri cogli italiani: chiesero dei loro compagni; fu loro risposto che avevano cessato di vivere: domandarono i loro cadaveri: non furono trovati: essi stessi li cercarono e sorpresero membra tagliate, brani sanguinosi, trofei orribili appesi alle case ed esposti alla luce del sole. Appresero che avevano impiegato otto ore a dare morte a poco a poco al tenente ferito soltanto nel combattimento. Allora bruciarono i due villaggi. “Giustizia è fatta contro Pontelandolfo e Casalduni” tale fu il dispaccio del colonnello Negri.”

Ancora sulla strage dei soldati da "Storia dei fatti di Pontelandolfo" del già sindaco di Pontelandolfo Ferdinando Melchiorre Pulzella (Edizioni Sannite, Morcone - 2004): “Il sindaco filo borbonico di Casalduni Luigi Orsini, che provvedeva i briganti di tutto quanto avessero bisogno, pagò alcuni di essi per far sorvegliare i soldati fatti prigionieri. E quando il Capo Brigante Angelo Pica si rivolse a  lui per chiedere cosa bisognasse fare dei prigionieri, rispose di fucilarli. Così quei poveri soldati caddero sotto colpi di fucile, di scure, di zappe e di pietre.”

La cronache di Monnier e di Melchiorre Pulzella trovano l’autorevole riscontro nei verbali del Regio Esercito, conservati dallo Stato Maggiore della Difesa. Il Capo dell’Ufficio Storico, Colonnello Antonino Zarcone, nella presentazione del libro di Maria Grazia Greco (op. cit.) scrive: “Fu una vera e propria guerra che venne condotta dai briganti, che spesso animarono anche gli animi e le armi della popolazione civile, contro i militari “rei” di essere servitori dello stato e di aver aggravato la già difficile situazione economica delle regioni del meridione. Nonostante gli errori e gli innegabili eccessi di violenza, subiti e, purtroppo, talvolta anche commessi, con le inevitabili, conseguenti polemiche sociali e politiche, ancora attuali, questa dolorosa pagina della storia del Regno d’Italia non deve e non può essere negata o dimenticata ma va approfondita e discussa sulla base di documentazione scientifica ed ufficiale”. Quanto scritto dal Colonnello Zarcone ben si adatta ai fatti di Pontelandolfo e Casalduni e, interrogato sui fatti specifici, il Capo dell'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'esercito ci ha confermato che leggendo i verbali dei fatti narrati riguardanti la rappresaglia ci si è attenuti ad una prassi - indubbiamente cruda e non accettabile ai giorni nostri - che ben rifletteva lo spaccato dell’epoca. E' tutto nero su bianco, nessun mistero o tentativo di censura sull'azione dell'Esercito.

Nelle zone meridionali dell’Italia il brigantaggio può farsi risalire alla dominazione spagnola,seguita alla pace di Cateau-Cambrésis (1559). Detta pace consentì di stabilire il governo diretto della Spagna sulla metà della Penisola, compresi i Regni di Napoli e la Sicilia.

Scrive lo storico Giorgio Spini: “Soffocatrice nel campo politico, la dominazione spagnola doveva rivelarsi assolutamente distruttiva dal punto di vista economico”. Spini scrive - sempre a proposito della Spagna - “nella sua ottusa rapacità militaresca, il governo spagnolo adoperava i propri domini altro che per spremere sempre nuovo denaro e per trarre soldati per le sue guerre. I Borbone ereditarono questa situazione e spesso si accordarono con i briganti, chiudendo un occhio sulle illegalità commesse”. Nell’estate 1828, regnando Francesco I, nel Cilento esplosero nuovamente proteste e richieste di una costituzione. Il Parroco del paese di Bosco (Salerno) era uno dei promotori di queste manifestazioni che si estesero ai paesi circonvicini. Da Napoli furono inviati ben 8.000 soldati, comandati dal Maresciallo Francesco Saverio del Carretto. Logicamente gli insorti furono sgominati ed in parte arrestati. Il 7 luglio il Paese fu interamente dato alle fiamme e fu sparso del sale sulle rovine. Numerosi gli insorti fucilati, a cominciare dal Don Antonio De Luca, parroco di Bosco. Altri 27 insorti furono decapitati e le loro teste esposte nella piazza. Il Paese non fu più ricostruito, a seguito di un decreto di soppressione del 4 agosto 1828” (H. Acton, Gli ultimi Borboni di Napoli, Martello, Milano 1962).

Nell’agosto del 1861 nostri soldati erano stati catturati e imprigionati nella torre angioina di Pontelandolfo e, avvicinandosi due battaglioni di bersaglieri per liberarli, furono ceduti a Casalduni, sempre zona di brigantaggio, dove furono massacrati e dove il reato “più leggero” fu il vilipendio dei cadaveri. Mentre Pontelandolfo si è data la qualifica di “città martire” con un provvedimento avallato il 14 agosto del 2011 dalle scuse del Prof. Giuliano Amato, il Comune di Casalduni non ha mai espresso una simile intenzione, avendo ben presente che il massacro dei soldati della nuova Italia ebbe luogo proprio a Casalduni, di fronte a centinaia di testimoni. Verbali d’epoca alla mano, l’Esercito non ha reputato accoglibile la richiesta di scuse espressa da Pontelandolfo e non ha mandato nessun suo rappresentante.

Nell’Italia unita le Forze armate, soprattutto i corpi di élite come quello dei Bersaglieri, venivano sempre difesi dalle istituzioni dello Stato. Così facendo l’Italia superò le gravissime difficoltà incontrate nelle guerre d’indipendenza, trovandosi sempre in sintonia con le sue Forze Armate.

Alla fine un enigma: Marc Monnier (op. cit.), ripreso da qualche pubblicazione, lascia nel vago il sottotitolo “casi di cannibalismo” e scrive esplicitamente “volevano tutti il loro pezzo di carne”. Si riferisce ai corpi dei nostri soldati? Sui fatti del 1861 gravano dubbi atroci...

Sergio Boschiero, Segretario Nazionale U.M.I.

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Dal sito dell'UMI:
http://www.monarchia.it/news_file/StoriaInRete_SergioBoschiero_Pontelandolfo.pdf

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