A 20 anni raggiunse Umberto nell'esilio di Cascais, 2.500 chilometri in motorino Oggi presiede la Consulta dei senatori del Regno: "Solo sei erano deambulanti...".
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Il professor Duvina con la bandiera autografata da Re Umberto II |
Il professor Pier Luigi Duvina, medico dal 1959, specializzato in pediatria, cardiologia, reumatologia, pneumologia e tisiologia, a 80 anni rimane quello che è sempre stato: un monarchico. Ne aveva 20 quando, in sella a un motorino Nsu, si fece in tre giorni Firenze-Cascais, 2.500 chilometri, per raggiungere Umberto II nell'esilio portoghese. «Giunsi mentre usciva da Villa Italia con il suo aiutante di campo, generale Piero Santoro, e osai presentarmi: buongiorno, Maestà. Incredibilmente, il Re di maggio si mise a sedere con me su un muretto.
Mi chiese da dove arrivassi, prese nota dell'indirizzo, e da allora rimanemmo in corrispondenza. Poi disse: Venga, le mostro l'Atlantico. Cominciò a scendere una scaletta ripida che conduceva a un terrazzo. Le onde si frangevano sugli scogli con un fragore assordante. Mi fermai dopo pochi gradini. Maestà, non posso proseguire, l'oceano mi fa impressione, pigolai. Sorrise e tornò indietro».
Quella fu l'unica volta che Duvina non se la sentì di seguire il suo sovrano. Per il resto, continua ad andargli dietro anche ora che l'ultimo dei regnanti sabaudi - rimasto sul trono solo 36 giorni, dal 9 maggio al 13 giugno 1946 - è morto da 31 anni. Un mese fa Duvina ha guidato da solo l'auto fino all'abbazia di Hautecombe, nella Savoia francese. «Era in programma l'annuale messa di suffragio per la sua anima. È sepolto all'ingresso - sotto la regina Maria José, sua consorte - in quel tempio di un gotico fiammeggiante, una trina, che volle donare alla Chiesa insieme con la Sindone».
Nella sequela del re, a parte l'attimo di paralisi sulla scalinata che conduceva al belvedere di Cascais, a Duvina non ha mai fatto difetto il coraggio. La prima volta che fu picchiato dai comunisti era appena tredicenne. Aveva montato sulla propria Legnano un cartellone di compensato con la foto della famiglia reale e batteva a piedi le vie di Firenze sospingendo la bici, nella speranza di convincere gli elettori a votare per la monarchia nel referendum del 2 giugno 1946, che invece decretò la nascita della repubblica.
Due anni dopo, vide che i rossi strappavano dai muri i manifesti della Dc e pertanto si convinse che quello di Alcide De Gasperi fosse il partito da aiutare. S'improvvisò attacchino e rimediò un'altra pestata in zona San Gaggio, contribuendo però alla travolgente vittoria del 18 aprile sui socialcomunisti del Fronte popolare. Passati altri cinque anni, furono gli agenti della Pubblica sicurezza a fermarlo durante la Mille miglia mentre sventolava un tricolore con la stemma sabaudo. Alla morte di Umberto II, il 18 marzo 1983, espose al balcone di casa la stessa bandiera listata a lutto, «eccola qua, un po' malconcia, ma sul retro reca la firma di Sua Maestà, vede?». Risultato: 48 ore dopo gli incendiarono due automobili.
Tante persecuzioni subite per amore della corona non potevano che meritare al professor Duvina il più ambito dei riconoscimenti: la nomina, da parte di Sua Altezza Reale il principe Vittorio Emanuele di Savoia, a presidente della Consulta dei senatori del Regno, fondata nel 1955 da circa 160 rappresentanti monarchici che erano stati espropriati del laticlavio sette anni prima con l'entrata in vigore della Costituzione repubblicana. L'ultimo dei senatori ad aver servito il Regno per davvero, Giovanni de Giovanni Greuther, duca di Santa Severina, è morto nel 2002 a quasi 97 anni. Oggi i 104 componenti della Consulta sono privati cittadini che vengono cooptati per le loro benemerenze nella difesa della monarchia, previa ratifica da parte del principe Vittorio Emanuele.
Duvina è succeduto a illustri accademici, come l'economista Giuseppe Ugo Papi, il latinista Ettore Paratore e l'etnologo Vinigi Grottanelli, che erano stati designati da Umberto II in persona. «Quando nel 2007 suo figlio mi convocò a Ginevra per conferirmi l'alto incarico, i consultori erano rimasti appena 25, di cui soltanto 6 deambulanti. Ricordo che, tornato a casa, telefonai a uno di loro per invitarlo a un incontro. Mi rispose: Benedico i principi e benedico lei. Ma non so se potrò intervenire, perché ho 99 anni».
Siete sempre stati tutti monarchici nella vostra famiglia?
«Sempre, compresi i miei sei figli. L'unica pecora nera fu un cugino che divenne vicepodestà di Firenze. I Duvina non vollero mai saperne di prendere la tessera del Partito fascista. Mio padre Michele finì per questo nelle mani della famigerata Banda Carità. La prima volta fu riempito di botte e olio di ricino, la seconda venne affidato alle cure del tenente Mario Perotto, che comandava la squadra della labbrata. Alla fine stavano per fucilarlo. Fu salvato da mio nonno Luigi, che versò agli aguzzini un riscatto enorme, 1,3 milioni di lire dell'epoca, circa mezzo milione di euro a valori di oggi».
Suo nonno era piuttosto benestante.
«Le dico solo questo: mia madre Tina implorò il suocero, attraverso mia nonna Bianca, affinché trovasse un lavoro al mio babbo. Al che il nonno rispose: Lavoro? Lavoro? Nessuno ha mai lavorato in casa Duvina!. Poi mio padre mise in piedi un import-export di coloniali».
Per la vostra fedeltà ai Savoia, le avete prese da tutti, neri e rossi.
«Ho fatto il medico per quasi mezzo secolo, però lontano da Firenze: qui era troppo pericoloso. Sono stato primario a Castelnuovo Garfagnana e Pescia. Soltanto negli ultimi anni della carriera sono potuto ritornare nella mia città, prima all'ospedale Meyer e poi al San Giovanni di Dio come direttore della pediatria e della terapia intensiva neonatale».
Umberto Brindani, direttore di Oggi, dice che sono tornate di moda le copertine con le famiglie reali.
«Mi fa piacere. C'è in giro un gran bisogno di pulizia. La disonestà è imperante a tutti i livelli. Combatto le Regioni fin dal 1968. Ero certo che avrebbero diviso l'Italia e decuplicato ruberie e sprechi».
Ora alcune, come il Veneto che non ha mai digerito il plebiscito-farsa del 1866 per l'annessione al Regno d'Italia, reclamano l'indipendenza.
«Non è il rimedio. Più si porta il denaro in periferia e più aumenta la corruzione. Agli amici veneti ricordo che il corpo di spedizione toscano a Curtatone, Montanara e Goito era composto da circa 7.000 uomini: tre compagnie fiorentine che subirono il 44 per cento di perdite, due compagnie lucchesi, una compagnia pisano-senese, una di fucilieri napoletani, una di fanteria campana e una di volontari siciliani. Tutti morti per la libertà della Padania, ottenuta grazie a Casa Savoia. Ancor oggi il cappello degli universitari di Pisa ha la punta mozzata in ricordo dei giovani studenti che sacrificarono la vita nelle battaglie risorgimentali».
Se alle elezioni 6.417.580 italiani votassero per il Pd e 690 per Forza Italia, lei che cosa penserebbe?
«Che è tornata l'Urss».
E se la informassero che 20 milioni di elettori non si sono recati ai seggi?
«Penserei a un suicidio democratico».
Divida per 10. È precisamente ciò che accadde al Veneto nel plebiscito del 20 ottobre 1866: fu annesso al Regno d'Italia con 641.758 sì e 69 no.
«Fin dai tempi di Pitagora, Virgilio e Dante, l'Italia fu un sentimento coltivato solo dalle persone colte. Per ottenere l'unità vi furono delle forzature. Ma nessuno può negare che con Carlo Alberto e lo Statuto albertino nel 1848 nacque il primo regno democratico d'Italia. Nella contabilità della storia, tutti perdono qualcosa. La famiglia sabauda cedette a Napoleone III l'intera Savoia e la contea di Nizza, che era la più ricca d'Europa, solo in cambio di una promessa d'aiuto nella guerra d'indipendenza».
E il referendum monarchia-repubblica del 1946 fu inficiato da brogli?
«Lo ammise persino Giuseppe Romita, ministro dell'Interno, in un libro uscito postumo 13 anni dopo. Nella notte dello spoglio, i monarchici erano avanti di 400.000 voti. Romita telefonò allarmato a Pietro Nenni e a Palmiro Togliatti, ministro della Giustizia. Quest'ultimo, astutissimo, aveva suddiviso l'Italia in 31 circoscrizioni, mettendoci a capo uomini di fiducia. I risultati affluivano al suo dicastero. Alla fine saltarono fuori 2 milioni di schede in più, non dico altro. La verità è che quel referendum non lo vinse nessuno, perché venne addirittura a mancare il quorum. Togliatti, interpellato dalla Cassazione sui voti nulli, arrivò al punto di dichiarare che non ce n'erano. È a verbale. Dopo 48 ore, siccome la Corte suprema non demordeva, il leader comunista ne fece saltar fuori 1.498.136 e il Consiglio dei ministri, nella notte fra il 12 e il 13 giugno, tolse i poteri costituzionali a re Umberto. Questo non gli era consentito, perché la Cassazione si sarebbe pronunciata solo sei giorni dopo. Fu un colpo di Stato per impedire il ricontrollo delle schede».
Che compiti ha la Consulta dei senatori del Regno?
«Ristabilire la verità storica su Casa Savoia. Esempio: si accusa Vittorio Emanuele III di aver consegnato il potere a Benito Mussolini, nominandolo capo del governo. Ma nessuno mai ricorda che il re fece 27 tentativi, diconsi 27, per affidare l'incarico a un primo ministro diverso, l'ultimo dei quali il giorno stesso in cui si rassegnò a darlo al Duce, dopo aver chiesto invano al senatore Antonio Salandra di formare un nuovo esecutivo. Si dimentica che il primo governo Mussolini, pur avendo il Partito fascista 35 deputati in tutto, ebbe 306 voti a favore, 116 contrari e 7 astensioni. Votò la fiducia persino De Gasperi. In altre parole il dittatore fu eletto democraticamente dal Parlamento. Che c'entra il re?».
Ma dopo l'8 settembre 1943 scappò.
«Ringraziamo Dio che lo fece! Se non avesse raggiunto Pescara, e poi Brindisi, l'esercito avrebbe dovuto difenderlo e Roma sarebbe stata messa a ferro e fuoco dai nazisti. Non capisco: Pio IX nel 1848 scappa da Roma travestito da prete per rifugiarsi a Gaeta e lo beatificano; Giuseppe Garibaldi e Giuseppe Mazzini fuggono alla caduta della Repubblica romana e diventano eroi; i reali di Norvegia, Olanda, Grecia e Jugoslavia riparano all'estero dopo che i loro Paesi sono stati invasi dal nemico e nessuno li accusa di alcunché. Però tutti se la prendono solo con Vittorio Emanuele III».
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