l'Occidentale - Un altro tormentone, tra poco, rimbalzerà sui giornali: il ritorno in Italia delle salme di Vittorio Emanuele III e della moglie, rispettivamente, da Alessandria d’Egitto e da Montpellier. Si prevede una ‘guerra dei simboli’ che ancora una volta sarà lo specchio fedele di una cultura civica sempre più lontana dall’Occidente. Per i fondamentalisti del ‘republicanism’ – ne fu un prototipo Alessandro Galante Garrone fieramente avverso al rientro dei Savoia in Italia – le spoglie devono restare dove si trovano, non potendosi perdonare al vecchio monarca la complicità col fascismo, la firma delle leggi razziali, la rassegnazione alla guerra a fianco della Germania nazista. Per i monarchici, le bare non solo devono tornare in patria ma venir tumulate al Pantheon, dove riposano i primi due re d’Italia e la regina Margherita. Sennonché è forse venuto il momento di chiedersi come mai quello che Stendhal definiva “il più bel resto dell’antichità romana”, il simbolo per antonomasia della romanità imperiale (lo fece costruire da Augusto nel 27 a.C. e restaurare Adriano fra il 118 e il 128), ospiti, assieme alle tombe reali, un servizio permanente di Guardie d’onore, non molto lontano dal Quirinale su cui sventola la bandiera della Repubblica italiana. Che i nostalgici della monarchia abbiano tutto il diritto di coltivare la memoria dei Savoia è scontato ma che lo facciano in un monumento pubblico è per lo meno anomalo. I numerosi turisti stranieri che lo visitano, qualora fossero minimamente interessati alla nostra storia, potrebbero legittimamente chiedersi :”Ma che razza di repubblica è questa che pone sugli altari un Re e sia pure il fondatore dello Stato nazionale (Vittorio Emanuele), e assieme a lui il figlio (Umberto I) e la nuora (Margherita di Savoia) ma non consente in nessun angolo di terra italiana la sepoltura del nipote (Vittorio Emanuele III) e del pronipote (Umberto II)?”
La decisione di trasformare il tempio di tutti gli antichi dei – Pantheon, appunto – in una sorta di Santa Croce della nuova e definitiva capitale, presa dopo la morte del primo re d’Italia, non solo ne alterava, sotto il profilo estetico, l’interno – già manomesso ,all’inizio del VII secolo, dalla sua ‘conversione’ in chiesa cristiana, Santa Maria ad Martyres – ma rivestiva un trasparente significato simbolico: la continuità tra la Roma dei Cesari e la Roma… dei Savoia, la realizzazione, ad opera della monarchia, del sogno mazziniano della Terza Roma (al quale, in definitiva, con segno ideologico alquanto mutato, si richiamava la stessa dittatura fascista, restaurando l’impero sui ‘colli fatali’).
Il simbolo romano, com’è noto, contrappose, negli anni del Risorgimento, i liberali, e soprattutto i cattolici liberali, ai democratici. E’ emblematico, a tal riguardo, il discorso pronunziato in Senato il 23 gennaio1871 da Stefano Jacini, in difesa di Firenze capitale: “Firenze non solo è, per lo meno, pari a Roma, come grande città moderna, ma la supera grandemente per salubrità di clima, locché parmi cosa non indifferente. […] Firenze concilia mirabilmente le esigenze dell’Italia settentrionale con quelle della meridionale, mentre Roma s’accosta troppo al mezzogiorno. Or bene, l’ubicazione non può mancare di far sentire i suoi effetti sui rapporti civili e sociali di un paese. […] Io sono Lombardo, ma se le circostanze avessero fatto sì che si fosse proposto di trasportare la capitale, p. es., a Milano o a Piacenza, io mi sarei opposto, non solo come Italiano, ma ben anche come Lombardo; imperocché son convinto che il bene di una parte della patria italiana sia inseparabile dal bene del complesso e che solo un equo equilibrio può conciliare il bene delle singole parti col bene di tutta la Nazione”. E così spiegava la romanomania: “Nelle lotte nazionali i tedeschi avrebbero invocato il nome d’Arminio; i Francesi, di Giovanna d’Arco; gli Svizzeri, di Guglielmo Tell. Noi che avremmo potuto ricorrere alle memorie della Lega Lombarda, il nome di chi invocammo? il nome del distruttore di Cartagine. Noi eravamo deboli, noi eravamo sconsiderati dall’Europa press’a poco come i Raia della Turchia, i Fellah d’Egitto o gli Indiani soggetti alla Compagnia delle Indie. Noi eravamo un popolo taillable et corvéable à merci. Questo ci bastava! La prima idea di Roma capitale è dunque un prodotto della rettorica, di quella rettorica la di cui influenza, ad Italia costituita, dovrebbe essere la prima cosa da abolire, se vogliamo veramente prendere posto tra le nazioni moderne più civili”.
Ben prima del lombardo Jacini, il piemontese Massimo D’Azeglio, aveva scritto in Questioni urgenti. Pensieri 1861: “Chi ha proclamato in quest’occasione Roma capitale d’Italia, ha speculato sull’effetto rettorico-classico che produce ancora quel nome sulle moltitudini, le quali in fatto di coltura intellettuale non son venute più in qua del Campidoglio. Ha stimato che nessuno avrebbe forse osato prendere ad esaminare il valore di una simile idea; ma io oserò sempre, e molti altri con me oseranno discutere gli affari del paese; e se io mi sento in qualche modo legato al pensiero degli amici, non mi sento però punto sbigottito dalla maestà della Rupe Tarpea. l’Italia e il mondo hanno finalmente il diritto di domandare se ha da durare eternamente questo Campidoglio. Hanno il diritto di presentare i loro nuovi titoli e domandare se l’eguaglianza avanti la legge, la legittimità fondata sul consenso dei popoli, se il sistema delle rappresentanze nazionali, della pubblicità degli atti amministrativi ecc. ecc. non valga in materia politica tutta l’antica sapienza romana; se il rispetto reciproco delle nazioni fra loro, il fiorire de’ commerci, delle industrie e del benessere generale non valga i trionfi che ingombravano di schiavi la Via Sacra, e che pel vinto terminavano colle tenebrose torture del carcere Mamertino; se finalmente alle moli degli anfiteatri, ed al diletto di veder sull’Arena palpitare le membra de’ Reziarii, de’ bestiari ecc. ecc. non sia preferibile lo spettacolo di una locomotiva che trasporta colla rapidità del vento una massa d’uomini tutti eguali, tutti liberi, bastante a popolare un paese?”
Ben diverso era l’atteggiamento di Giuseppe Mazzini e del suo discepolo e rivale, Giuseppe Garibaldi. Ne L’iniziativa del 1870, come in molti altri scritti, il profeta genovese così rievocava la ‘romanità’, che il suo seguace Goffredo Mameli, nell’Inno nazionale,che porta il suo nome, avrebbe voluto far rivivere: “La magnifica parola religiosa dell'evangelista Giovanni: Perché tutti siamo uno in noi come tu, Padre, sei in me e lo sono in te, s'era fatta realtà nella patria romana. Ogni uomo credeva nei fati di Roma: sentiva dentro sé una scintilla della grande anima di Roma; Roma s'era incarnata in ciascuno de' suoi figli, e ciascuno si sentiva forte della sua forza e mallevadore dei suo avvenire. Per questo Roma diede spettacolo unico ai secoli d'una città conquistatrice del mondo. Ed è questa fede, questa facoltà d'immedesimarsi nella patria come in un pensiero vivente destinato a svolgersi nell'indefinito dei tempi; questa potenza d'amore che abbracci in uno passato, presente e futuro d’Italia; questa coscienza d’esser ministri a una tradizione di grandezza iniziata da Dio e che deve, attraverso ogni ostacolo, continuare nella vittoria – questa fede un raggio della quale fu dato, sullo spirare dell’ultimo secolo, alla Francia repubblicana e bastò a farla più forte di tutta l’Europa congiunta a’ suoi danni – che manca tuttavia agli Italiani”.
Né era da meno l’eroe dei due mondi che, rievocando, ad esempio, nei Mille, i simboli di Giunio Bruto, che aveva condannato “a morte i propri figli, perché creduti implicati in una congiura contro lo Stato”, e di Manlio dittatore,che fece “decapitare in sua presenza il valoroso suo figlio vincitore d’un gigante latino, che aveva sfidato a pugna singolare i migliori dell’Esercito Romano, perché aveva trasgredito il divieto dittatoriale di non uscire dalle fila commentava, traboccante di ammirazione: “Questi due fatti d’insuperabile disciplina, sono forse la chiave di quella severissima disciplina Romana che condusse le Legioni su tutto l’orbe conosciuto e di cui si trovò un saggio sotto le ceneri di Pompei, d’un Legionario che, coll’arma al piede, lasciossi coprire dalle ceneri senza muoversi. […] Roma!... in te spero, in te che lavata dall’immondizia di cui sei insudiciata oggi, riapparirai risplendente dell’aureola della libertà come a’ tempi de’ tuoi Cincinnati, non più per aggiogar le nazioni, ma per chiamarle alla fratellanza universale”.
Il cuore dei liberali non batteva per Roma ma per la Lotaringia, per quell’Europa di mezzo – ricomprendente, grosso modo, l’Olanda, il Belgio, l’Alsazia, la Borgogna, la Svizzera francese, il nord-ovest italiano – in cui erano nate le nazioni moderne e si erano affermate la sacralità e la dignità della persona umana col corollario di diritti civili e politici che ne sarebbe derivato. Era l’Europa di Benjamin Constant e di Alessandro Manzoni – che com’è noto sempre ebbe in uggia la romanità e il “misero orgoglio d'un tempo che fu” – , il crogiuolo del moderno liberalismo legato al cristianesimo protestante (Ginevra, Losanna) e a quello cattolico con venature giansenistiche (Piemonte, Lombardia, Toscana). Era la grande ‘communitas’ spirituale, al di sopra delle ‘nationes’, che aveva inventato l’istituto moderno della ‘rappresentanza’ fondandolo su una ‘libertas’ nata dalle ‘libertates’ e aveva contrapposto al gubernaculum, il complesso dei poteri di cui il re poteva disporre nel reggere il suo popolo, poteri nei quali la sua volontà era assoluta, la iurisdictio, e cioè il potere di rendere giustizia, nell’esercizio del quale il re non era libero, ma vincolato dalle antiche consuetudini e, in seguito, dalle carte costituzionali. In quest’ottica, Firenze, Milano, Torino erano assai più vicine alla Lotaringia di quanto non lo fosse la ‘città eterna’, sicché, indipendentemente dalle preoccupazioni di garantire al papa un brandello di potere temporale per poter assolvere la sua missione di Vicario di Cristo e non rischiare di ridursi a cappellano di qualche dinasta, venivano sentite come città italiane. Soprattutto Firenze che aveva visto nascere la lingua e in cui si erano manifestate le prime espressioni, ad un alto livello retorico-letterario, di un’identità spirituale e politica da recuperare. Dai versi di Dante “Ahi serva Italia, di dolore ostello,| nave sanza nocchiere in gran tempesta, | non donna di province, ma bordello!” (Canto VI del Purgatorio) a quelli di Petrarca, citati nella chiusa del Principe di Machiavelli : “Vertú contra furore | prenderà l'arme, et fia 'l combatter corto: | ché l'antiquo valore | ne gli italici cor' non è anchor morto”. (Italia mia, benché 'l parlar sia indarno).
Al mito (democratico) di Roma si lega non tanto il complesso del tempo perduto mentre gli altri paesi europei percorrevano decisamente le strade della modernità, quanto un orgoglio ritrovato – “Gino, eravam grandi e là non eran nati”, per citare Giuseppe Giusti. Ha rilevato il compianto Giuseppe Are, ne L’Italia e i mutamenti internazionali 1971-1976 (Ed. Vallecchi 1977): “E’ noto che l’evento più importante della nostra storia moderna, il Risorgimento, fu concepito e compiuto con la volontà di “ricongiungere l’Italia all’Europa vivente”, per usare la splendida espressione del Cattaneo […] Nei momenti più involutivi di questa storia ha prevalso invece la convinzione che non avessimo nulla da imparare dagli altri, ritardi da recuperare: che anzi fossero le nostre particolari esperienze nazionali ad avere un valore esemplare anche per gli altri paesi” Aggiungerei: non solo “nei momenti involutivi” ma, altresì, in quelli ‘creativi’ quando la fiducia nelle proprie forze e nello stellone d’Italia ingenera in molti la sensazione che il ritardo stesso sia una condizione di partenza fortunata in quanto consente di cominciare da zero e tanto meglio se confortati da quanto fummo in grado (noi chi?) operare in un passato lontano.
E tuttavia va riconosciuto che se lo stesso Manzoni, ormai prossimo alla dipartita, votò a favore di Roma capitale, vi doveva essere qualche ‘buona ragione’ a favore di tale soluzione. L’aveva illustrata del resto il gran Conte nel famoso discorso alla Camera del 25 marzo 1861. “La questione della capitale non si scioglie, o signori, per ragioni né di clima, né di topografia, neanche per ragioni strategiche; se queste ragioni avessero dovuto influire sulla scelta della capitale certamente Londra non sarebbe capitale della Gran Bretagna, e forse nemmanco Parigi lo sarebbe della Francia. La scelta della capitale è determinata da grandi ragioni morali E’ il sentimento dei popoli quello che decide le questioni ad essa relative. Ora, o signori, in Roma concorrono tutte le circostanze storiche, intellettuali, morali che devono determinare le condizioni della capitale di un grande stato. Roma è la sola città d'Italia che non abbia memorie esclusivamente municipali; tutta la storia di Roma dal tempo dei Cesari al giorno d'oggi è la storia di una città la cui importanza si estende infinitamente al di là del suo territorio, di una città, cioè destinata ad essere la capitale di un grande Stato. Convinto, profondamente convinto di questa verità, io mi credo in obbligo di proclamarlo nel modo più solenne davanti a voi, davanti alla nazione, e mi tengo in obbligo di fare in questa circostanza appello al patriottismo di tutti i cittadini d'Italia e dei rappresentanti delle più illustri sue città, onde cessi ogni discussione in proposito, affinché noi possiamo dichiarare all'Europa, affinché chi ha l'onore di rappresentare questo paese a fronte delle estere potenze possa dire: la necessità di aver Roma per capitale è riconosciuta e proclamata dall'intiera nazione. Io credo di avere qualche titolo a poter fare quest'appello a coloro che, per ragioni che io rispetto, dissentissero da me su questo punto; giacché, o signori, non volendo fare innanzi a voi sfoggio di spartani sentimenti, io lo dico schiettamente: sarà per me un gran dolore il dover dichiarare alla mia città natia che essa deve rinunciare risolutamente, definitivamente ad ogni speranza di conservare nel suo seno la sede del Governo”.
L’argomento addotto da Cavour per cui “Roma è la sola città d'Italia che non abbia memorie esclusivamente municipali” viene ripreso nel II Capitolo – L’idea di Roma – di uno dei capolavori della storiografia italiana del Novecento, la Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896 (Ed. Laterza 1951). Trattando delle conseguenze del Venti Settembre, Federico Chabod faceva rilevare che “Una nuova forza s’imponeva, con Roma capitale, nella appena iniziata storia dell’Italia unita, una forza capace di bene e di male; potente incitamento e vessillo di raccolta e segno di individualità nazionale ne’ giorni in cui la patria non era ancora una, e sempre atta ad ispirar alte idealità, chi volesse accoglierla a guisa di comandamento morale che una grande tradizione imponeva alla nuova Italia; ma pure capace di influire sinistramente sui destini della patria, chi si lasciasse invece abbagliare e insuperbire e sognasse ritorni impossibili”. E concludeva: “Solo a Roma si poteva sul serio e continuativamente pensare a’ fantasmi antichi, che altrove avrebbero, rapidamente, perso forza ed efficacia. Per rinnovare l’invocazione goethiana alle pietre e agli alti palazzi, per attendere da loro la parola incitatrice, bisognava, anzitutto, aggirarsi tra quelle pietre e quei palazzi. Ora, il ceto politico a cui erano affidati i destini dell’Italia unita stava per trasferirsi definitivamente tra le antiche pietre”.
Tornando alle tombe reali, l’opinione pubblica saggia e liberale, umiliata nel 1876 dall’avvento della Sinistra storica, avrebbe dovuto proprio non farsi “abbagliare e insuperbire”, sognando “ritorni impossibili” ed esigere la sepoltura di Vittorio Emanuele II sotto l’Altare della patria, dal momento che il ‘Re Galantuomo’ era stato determinante nel riunire le sparsi membra della penisola – come l’onesto Garibaldi gli riconobbe anche in momenti di ‘antagonismo’ politico e di netto rifiuto delle istituzioni parlamentari e liberali, peraltro mal funzionanti. Non avrebbe mai dovuto consentire, però, che le tombe dei Savoia venissero collocate nel tempio legato ai nomi dei più eccelsi imperatori romani (Augusto e Adriano) e che, oltretutto, evocava un’idea, quella di impero appunto, screditata nell’epoca che vide il trionfo del ‘principio di nazionalità’ . Tale principio, va ricordato, delegittimava secolari compagini statuali ,come l’Austria-Ungheria, pur se “avevano per secoli adunato e disciplinato le genti di gran parte dell’Europa, e indirizzatele al lavoro del pensiero e della civiltà”, come annotava nel suo diario Benedetto Croce nel novembre del 1818, in una delle Pagine sulla guerra che andrebbe considerata tra i più alti documenti spirituali del XX secolo. (v. L’Italia dal 1914 al 1918. Ed. Laterza 1965). In un’ottica di sobrio e non retorico patriottismo, gli italiani che si stavano rimboccando le mani negli anni della prosa, avrebbero dovuto esigere la sepoltura di Umberto e Margherita in una basilica medievale o rinascimentale che, in qualche modo, evocasse l’”italianità culturale” e, possibilmente, il forte legame dell’Urbe con la città di Dante, di Petrarca, di Boccaccio, dell’umanesimo civile e di Machiavelli, che era stata la culla della civiltà letteraria italiana e aveva fatto rivivere, nell’Europa moderna, lo splendore artistico e culturale dell’antica Atene.
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