Articolo di Corrado Capone
La
presa di posizione del più grande poeta di sempre nel rapporto tra Chiesa e
Impero
Parlare di produzione minore, quando
l’autore si chiama Dante Alighieri, non ha davvero
senso. Accanto alla Divina Commedia qualsiasi
creazione letteraria impallidisce.
Eppure, anche se non avesse scritto il
più imponente poema concepito da mente umana, Dante avrebbe occupato ugualmente
un posto di straordinario spessore nella storia della letteratura.
Il De Monarchia fa parte di questa immensa eredità che ci ha lasciato il Sommo Poeta.
In questo trattato, scritto in lingua latina e suddiviso in tre libri, Dante
esprime il proprio punto di vista nei confronti del tema più dibattuto di
allora: il rapporto tra Stato e Chiesa. Evidenziarne l’attualità appare
addirittura lapalissiano.
Sulla data di composizione dell’opera
non mancano dubbi, perplessità e divergenze. Secondo alcuni critici, Dante
lavora all’opera intorno al 1308; secondo altri, tra il 1311 e il 1313, al
tempo della discesa in Italia di Arrigo VII; secondo altri ancora, il trattato
sarebbe stato composto nel 1318 e anche oltre, in un periodo che vedeva Dante
impegnato nella composizione del Paradiso. In ogni modo, l’eco
che ebbe l’opera fu immediato, nei palazzi del potere così come nell’opinione
pubblica.
Nel De Monarchia il poeta fiorentino consolida e palesa una posizione non certo nuova,
che vede nel netto rifiuto dell’autorità pontificia nella politica mondana il
suo più forte caposaldo. Nel corso della sua attività politica, fervida e
appassionata, Danta aveva infatti sempre difeso l’autonomia civile del Comune
di Firenze dalle ingerenze di papa Bonifacio VIII. Adesso difende l’autonomia
dell’Impero. Supportato dall’auctoritas del pensiero di
Aristotele, Averroè e San Tommaso – riconducibili tutti alla matrice filosofica
aristotelica – Dante fa spesso uso del sillogismo, il procedimento logico di
cui l’autore si serve per dimostrare la fallacia delle tesi dei suoi avversari.
Nel primo libro si tratta della
necessità della monarchia universale: il Sommo Poeta afferma che questa è
l’unica forma di governo in grado di garantire la pace universale e un governo
unitario che possa dettare giustizia e favorire la concordia tra gli esseri
umani.
Il secondo libro è invece dedicato alla
dimostrazione dell’origine divina dell’Impero Romano. L’unificazione politica
del mondo antico sotto l’egida dell’aquila imperiale romana è stata voluta
proprio da Dio – sostiene Dante – per far sì che essa coincidesse con l’unificazione
religiosa sotto il segno/simbolo della croce di Cristo.
Il terzo libro affronta il tema più
scottante, ossia il rapporto tra il Papato e l’Impero. Nonostante il potere
dell’imperatore discenda direttamente da Dio – questo il passo in cui alcuni critici
hanno visto una subordinazione, tipicamente medievale, del pensiero dantesco ai
valori religiosi – Papato e Impero hanno due compiti ben distinti, perchè
distinti sono i fini: il Papa deve condurre l’uomo alla vita
eterna, l’Imperatore alla felicità in terra. Da qui il secco no a
qualsiasi ingerenza papale nell’attività dell’imperatore, che non deve essere
in alcun modo contrastato nella sua attività. Dante fa riferimento anche
all’illegittimità giuridica della “Donazione di Costantino”, l’atto – di cui
sarebbe stata dimostrata la definitiva falsità dall’umanista Lorenzo Valla –
che di fatto ha costituito l’incipit del potere
temporale della Chiesa.
Straordinario saggio di pensiero e di
attualità medievale, il De Monarchia conferma più che
mai – qualora ce ne fosse bisogno – la grandezza di Dante, cristiano e
cattolico, e insieme baluardo della divisione dei poteri e dell’autonomia della
legislazione civile.
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