Cambi di fronte, cambi di regime
di Aldo A. Mola
El Valle de los Caidos: immaginata come emblema della pacificazione. |
Il
18 luglio 1936 in Spagna quattro generali insorsero contro il governo. Iniziò
una guerra civile durata quasi tre anni. Il calcolo delle sue vittime,
prevalentemente civili, rimane ancora approssimativo. Quella guerra non fu la
premessa della guerra “europea” iniziata
nel 1939 e divenuta mondiale dal 1941. Il governo repubblicano di Madrid
ebbe il sostegno di brigate internazionali, prevalentemente comuniste, ma non
quello diretto di Mosca. I nazionalisti furono fiancheggiati dalla Germania,
che inviò la micidiale Divisione Condor, e dall'Italia con il “Corpo Truppe
Volontarie”, bene armate. Ma la guerra del settembre 1939 iniziò con l'attacco
della Germania e dell'Urss contro la Polonia, alleata di Francia e Gran
Bretagna, che però non intervennero a sua tutela. L'Italia di Mussolini rimase
spettatrice e poco dopo co-belligerante, pro-Hitler. Tra la guerra civile
spagnola e l'europea vi fu dunque sequenza cronologica ma non strettamente
logica. Vincitore in Spagna, Francisco
Franco rimase prudentemente neutrale dall'avvento e infine aprì agli
anglo-americani, che garantirono la continuità del suo regime, sorretto dalla
Chiesa, sino alla sua morte.
Il 12 ottobre 1936 gli spagnoli celebrarono
la festa della Hispanidad, in coincidenza con la “scoperta dell'America”, che
il “descubrimiento” li univa al di sopra di ogni divisione
ideologico-partitica. Era divenuto ancor
più sentito dalla perdita delle Filippine e di Cuba nel 1898, a vantaggio degli
Stati Uniti d'America, in forte ribasso di popolarità nelle file degli
intellettuali iberici in varia misura segnati dal Novantottismo. Ne era stato
interprete il diplomatico e saggista granadino Angel Ganivet, suicida a 32
anni, nel 1898. Il suo Ideario spagnolo pose l'interrogativo sui motivi
della decadenza e smarrimento dell'identità degli spagnoli. Aprì le sue
riflessioni richiamando l'esempio di Seneca, lo stoico che si svenò dolcemente
in acqua tiepida, e le chiuse con don Chisciotte e Sancho Panza, rovello della
generazione seguente.
Quel 12 ottobre 1936 all'Università di
Salamanca esplose il durissimo scontro tra il rettore Miguel de Unamuno
(Bilbao, 1864-Salamanca 1936) e José Millan Astray, fondatore della Legiòn.
Secondo la versione più nota, Unamuno, filosofo, scrittore, autore di
tormentate opere teatrali e dal 1891 docente di greco e latino nella
prestigiosa Università salamantina, espresse un severo giudizio sulla mentalità
del “soldato”, dall'orizzonte chiuso tra vita e morte, in spregio ai dubbi
degli intellettuali. Millan Astray sbottò: “Viva la muerte!” o “Muoia
l'intelligenza”. Lo scrittore José Maria Pemàn tentò la mediazione:“Viva
l'intelligenza e muoiano gli intellettuali cattivi”, i cosiddetti “cattivi
maestri”. Unamuno rivendicò che l'Università era “il tempio dell'intelligenza”.
Da suo sommo sacerdote disse: “Voi state profanando il suo recinto”. Concluse:
“Vincerete ma non convincerete”. Dati i precedenti, gli poteva andare molto
male. Nel 1931 Unamuno era stato destituito da Rettore perché antimonarchico. In suo favore -era lo spagnolo più noto all'estero- scesero
in campo scrittori e artisti euro-americani. Invano. Unamuno lasciò le Canarie,
ove era “confinato”, poco sicure per la sua incolumità, riparò a Parigi e poi
si installò a Endaya, sul confine franco-spagnolo. Rientrato Salamanca dopo la caduta della monarchia
venne rieletto rettore. Ora doveva fare i conti con l'ala dura dei “nazionali”
insorti il 18 luglio.
A sorpresa, in soccorso del pensatore
intervenne Carmen Polo, la moglie di Francisco Franco y Bahamonde. Da settembre
scelto come capo unico della sollevazione armata dei “nazionali” contro il
governo repubblicano di Madrid, Franco aveva insediato il comando a due passi
dalla Cattedrale e dall'Università. Donna Carmen offrì il braccio a Unamuno e
scortata da Pemàn lo condusse al sicuro, fendendo la folla. Affranto, il
filosofo scrisse a un amico: “Vincere non è convincere e conquistare non è
convertire. (…) Si lotta, si ammazzano gli uni con gli altri, bruciano chiese, celebrano cerimonie,
sventolano bandiere rosse e stendardi di Cristo”. Ma non era vero che metà
degli spagnoli credessero nella religione di Cristo e metà in quella di Lenin.
Quello sfacelo avveniva perché gli spagnoli non credevano in niente. “Il popolo
spagnolo è uscito pazzo. Il popolo spagnolo e il mondo intero. Sono solo. Solo
come (Benedetto) Croce in Italia!”.
Nuovamente destituito da rettore, questa volta dai franchisti, si ritirò a vita
privata. Morì il 31 dicembre. Non perse di obiettività. A suo avviso i
“ribelli” (cioè i “nazionali”) tendevano a “salvare a civiltà occidentale
cristiana e l'indipendenza” della Spagna. Non si schierò per nessuna delle due
fazioni, ma per la Spagna.
Il successo internazionale e l'immensa
produzione letteraria non lo mettevano al sicuro. Autore di opere celebri, come
“Pace nella guerra” (1897), “Il sentimento tragico della vita” (1913) sino a “Vita di Don Chisciotte” e
“Romancero dell'esilio”, Unamuno sapeva dell'assassinio immotivato, già a
luglio, del poeta granadino Federico Garcia Lorca, che non aveva fatto in tempo
ad accogliere l'invito a riparare negli Stati Uniti d'America. Nella notte del
28-29 ottobre Ramiro de Maetzu, venne svegliato nella della prigione madrilena
di Ventas. Un carceriere gli disse che
era inutile si vestisse: “Per dove vai va bene anche il pigiama”. Ottenuta
l'assoluzione da un prete compagno di sventura, uscì. Cadde fucilato. Dopo
Unamuno e Ortega y Gasset, de Maetzu era l'intellettuale spagnolo più famoso
all'estero. Il suo percorso è esemplare. Nato nel 1874 a Vitoria, nel paese
basco, esordì collaborando a “El socialista”. A Londra dal 1905 al 1920 scrisse in “The New Age”, come Ezra Pound e George Bernard Shaw, una
rivista aperta a esoterismo e riformismo. Rientrato in Spagna si schierò con
Miguel Primo de Rivera. Dopo il colpo di stato indolore del 13 settembre 1923,
con la “dittablanda”, come la sua era detta per distinguerla da una “dittatura” vera, de Rivera impresse
all'economia spagnola una imponente
accelerazione, sorretta da cospicui investimenti esteri, in specie
britannici. Ne ha scritto Fernando Gaarcia Sanz. Già autore di un affermato
saggio sul Don Qujote di Cervantes, tormento di tutti gli scrittori della sua
epoca, e fondatore dell'Unione Monarchica Nazionale, nel 1931 Ortega si schierò
contro la repubblica nata dalla equivoca interpretazione dei risultati delle
elezioni amministrative. Le sinistre prevalsero a Madrid e nelle maggiori città
ma i monarchici ebbero più voti. A contare, però, furono le manifestazioni di
piazza a favore del cambio istituzionale. Memore degli eventi di un
settantennio prima e del naufragio della prima repubblica, Alfonso XIII di
Borbone lasciò la Spagna nella certezza di essere presto richiamato sul trono.
Autore di
“Difesa dell'Ispanità” (1933), che gli valse l'ingresso nella Real
Accademia, ed eletto deputato, Ortega si schierò per la difesa dei valori
tradizionali, contro gli “eccessi” dell'anticlericalismo divampante dal 1931:
incendio di chiese, devastazione di conventi, rogo di archivi, profanazione di
salme di ecclesiastici defunti, violenze
ai danni di preti e di monache. Gli stranieri rimasero indifferenti. I più
identificavano il cattolicesimo spagnolo con l'Inquisizione, la caccia alle
streghe (nel Cinque-Seicento imperversante nell'Europa centrale, tra evangelici
e riformati), l'oscurantismo e, ciò che più pesò, la “limpieza de sangre” e
l'espulsione degli ebrei.
Altro intellettuale di prestigio europeo era
Salvador de Madariaga (La Coruna, 1886-Locarno, 1978), storico, diplomatico,
poeta, autore della storia dell'Impero ispanico americano. Lasciata la Spagna
non vi fece ritorno. I colti andavano e venivano. In cerca. I contadini, gli
operai, gli imprenditori rimasero . Finirono nel vortice di una guerra civile
spietata.
Ma per cambiare la Spagna occorreva viverci;
e purtroppo anche morirci. Una sorta di espiazione collettiva.
Come a nota a piè di pagina della sintetica
panoramica dei passaggi di fronte di intellettuali prestigiosi determinati
dalla guerra di Spagna va aggiunto l'interrogativo sulle sue ripercussioni su
“Giustizia e Libertà”, il movimento creato in Francia da Carlo Rosselli, dopo
l'evasione con Emilio Lussu e Francesco Fausto Nitti, massone, dal confino di
polizia a Lipari, al quale era stato condannato dal regime fascista per aver
concorso a trasferire l'anziano Filippo Turati in Corsica, così sottraendolo a
eventuali vessazioni. Messe a segno alcune imprese, anche aviatorie, non sempre
fortunate e comunque lontane dall'impensierire Mussolini che stava riscuotendo vasto consenso nel Paese,
Rosselli organizzò una “colonna” di qualche decina di volontari a sostegno
della repubblica di Madrid con l'insegna “Oggi in Spagna, domani in Italia”.
Essa incontrò non poche difficoltà a farsi accogliere, inquadrare e ad essere
mandata “in linea”. Non tutti i suoi componenti, a cominciare da Rosselli
stesso e Aldo Garosci, che ne scrisse la storia, avevano pratica di armi e, a
differenza di Lussu, meno ancora di battaglie. Nello scontro di Monte Pelato
cadde Mario Angeloni, massone. Dopo vicissitudini che lasciamo tra parentesi,
lamentando una dolorosa flebite Rosselli
rientrò a Parigi. Sul suo “poi” circa trentacinque anni anni addietro lo
storico Franco Bandini pubblicò il frutto di lunghe riflessioni sulla domanda:
“Chi armò la mano degli assassini dei fratelli Rosselli?” (ed. SugarCo). A
Bagnoles-de-l'Orne il 9 giugno 1937 Carlo e suo fratello Nello, studioso del
Risorgimento, rimasto in Italia e sempre ai margini della militanza politica,
occasionalmente in Francia, furono assassinati da “cagoulards”, organizzazione
criminale dichiaratamente di estrema destra ma contraddittorio e sospetto.
Perché quel delitto così efferato? Quale posizione politica e quali progetti
coltivava Carlo Rosselli? In mancanza di elementi sicuri, Bandini non esprime
una sentenza categorica. Però, tassello dopo tassello, documenta che egli non
viveva affatto in clandestinità. Si era premurato di rinnovare il passaporto,
con estensione a Paesi dell'Europa centro-settentrionale (Germania hitleriana
esclusa, s'intende). In Catalogna i volontari italiani avevano assistito
sgomenti alla carneficina di anarchici e libertari da parte dei comunisti
eterodiretti da Mosca. “Giustizia e Libertà” non si riconosceva nel Fronte
Popolare varato da Stalin per egemonizzare l'antifascismo. Pertanto i suoi
militanti costituivano un avversario; anzi un nemico. Da eliminare, acche
fisicamente, come scoprì il repubblicano Randolfo Pacciardi, comandante del
battaglione “Garibaldi” in Spagna. Quando avvertì che la sua vita era
minacciata dai comunisti, previa una seconda iniziazione massonica riparò negli
Stati Uniti d'America.
Bandini intitolò il suo libro “Il cono
d'ombra”. Non immaginava che, ruvidamente stroncato, il volume sarebbe finito a
sua volta in un ...cono d'ombra. Vi rimase malgrado un convegno di studi
dedicatogli in Firenze altre rievocazioni, incluso uno“Speciale” del mensile
“Storia in Rete”. La vicenda, va però osservato, rimase ed è del tutto
circoscritta nei confini italiani. Nessuna tra le maggiori opere di autori
spagnoli ed esteri sulla guerra di
Spagna menzionano la “colonna Rosselli”. Se ne cerca invano traccia nella
monumentale biografia di Franco scritta dall'inglese Paul Preston (tradotta in
Italia da Mondadori), nei volumi di Juan Pablo Fusi e di Fernando Garcia de
Cortazar. La ignora anche lo scrupolosissimo Pio Moa che, autore di saggi e
biografie, ha passato in rassegna Los mitos de la guerra civil.
Anche in Spagna i vent'anni dalla
“ditta-blanda” di Primo de Rivera alla svolta “occidentale” di Francisco Franco
segnarono molti passaggi dall'uno all'altro “bando”. Alcune personalità
eminenti ebbero la sventura di essere uccise o di rimanere intrappolate
nelle tragiche regole di una guerra
civile che fu sull'orlo di divenire mondiale. Si esaurì con la vittoria dei
franchisti nella battaglia dell'Ebro, la loro avanzata in Catalogna, l'ingresso
in Barcellona il 26 gennaio 1939. A quel punto la Gran Bretagna riconobbe il
governo di Franco e lasciò i repubblicani al loro destino. I più previdenti
passarono in Francia, ove furono concentrati in “campi”, in pessime condizioni,
e circondati da diffidenza. Altri ripararono in Messico. In marzo in Madrid divampò
l'ultima guerra civile nella guerra civile tra fazioni dell'estrema sinistra.
Il 28 marzo i nazionali entrarono in Madrid
e il 1° aprile Franco vi celebrò il proprio trionfo, presente Eddy Sogno, che
ne scrisse. Questo si sostanzio in tre operazioni concatenate: il prolungamento
dello sterminio dell'opposizione con la legge speciale contro il comunismo e la
massoneria (ne hanno scritto Juan José Morales Ruiz nel fondamentale Palabras
asesinas, José Antonio Ferrer Benimeli e Maria Dolores Gomez Molleda in La Masonerìa en la crisis
espanola del siglo XX); la sussunzione nel “franchismo” di tutti gli
avversari del governo repubblicano; il consolidamento del suo potere di
generale assurto a “Jefe del Estado”. In quel quadro vennero sfumate le
differenze originarie, sostanziali e mai risolte di tanti “nazionali”, che da
Franco vennero monumentalizzati e sottratti alla storia. Fu il caso di José
Antonio Primo de Rivera. Quando lo fucilarononel carcere di Alicante, i
repubblicani non capirono che stavano facendo un regalo a Franco, perché il
programma della Falange stava al franchismo come il fascismo delle origini
stava al Mussolini degli Anni Trenta. Aveva aperture sociali e culturali molto
lontane dalla rigidità di Franco. Anche Emilio Mola y Vidal, artefice della
sollevazione, aveva un programma che solo la sua morte per incidente areo il 3
giugno 1937 lasciò in fieri. Non concideva con “franchismo”.
Per assicurare le fondamenta del regime
provvisorio Franco usò mano durissima. Esecuzioni e condanne a pene severissime
continuarono nel tempo. D'altronde, pochi mesi dopo la sua vittoria, iniziò la
guerra europea, basata sul clamoroso patto di non aggressione Hitler-Stalin,
sicché nessuno badò a quel che accadeva in Spagna. Importavano le sue risorse
naturali, in specie i minerali rari, da Franco messi a disposizione dei due
fronti con calcoli sagaci.
Scaltro e lungimirante, il “caudillo” si
accinse a fare il vero e più decisivo voltafaccia. Con il rifiuto di
immischiarsi nella guerra a fianco dell'Asse e di infastidire il dominio
britannico su Gibilterra, vitale per gli inglesi, fece buon viso agli Stati
Uniti d'America, che in cuor suo detestava: nulla di più lontano dalla “sua”
Spagna. Questa, però, aveva dalla propria la “Lettera collettiva
dell'episcopato spagnolo” che il 1° luglio 1937 si schierò al suo fianco. Dalle
file dei cattolici sorsero l'Opus Dei e la tecnocrazia che mutò il volto della
Spagna. Dato a Dio quel che era di Dio, Franco pensò a Cesare: il regime. Per
farlo finse di non vedere che il cambiamento sarebbe stato generato proprio
dalla sua scelta di campo. Franco condivideva poco , se non nulla, dello
statuto delle Nazioni Unite e meno ancor della dichiarazione universale dei
diritti dell'uomo. Però aveva bisogno di sedere nell'Onu (la Spagna vi fu
accolta nel 1955, come l'Italia) e di offrire all'esterno una parvenza di
rispettabilità. Chi la visitava constatava che il paese era “in ordine”. Le
città si riebbero. Nell'arco di un decennio si affacciò una dirigenza che non
arrivava dalla guerra civile. Tra i primi ne fu esponente Fraga Iribarne,
onnipresente in convegni culturali all'estero.
Prevalentemente in divisa, chiuso in
ossessioni confinanti con allucinazioni, Franco completò il “grande balzo”
ricevendo al Palazzo d'Oriente diplomatici e militari che avevano lasciato in
valigia grembiule, sciarpa e guanti di loggia, indossati nelle logge castrensi
installate in case private e nelle basi militari americane in Spagna. Con lo
pseudonimo di J. Boor egli scriveva articoli contro la massoneria ma non vedeva
i “fratelli” che incontrava. Grazie a quella distopia, da taluni considerato
doppiezza, gettò le basi della lunga transizione che non iniziò dopo la sua
morte ma dagli Ann Sessanta. Tra gli “intellettuali” esuli alcuni rientrarono,
con la massima discrezione. Lentamente furono poste le basi per l'attuazione
del programma il 18 luglio 1938 invocato da Manuel Azana: “paz, piedad,
perdòn”. Madrid aveva fretta di entrare a far parte del Mercato comune europeo
e delle istituzioni comunitarie nascenti. Incappò nell'ostilità di quanti
prendevano a pretesto la perdurante repressione di movimenti centrifughi per
escluderne la sempre più fiorente produzione agroalimentare manifatturiera. In quegli anni la Spagna non
fu l'unico Stato a combattere senza esclusione di colpi indipendentismi armati
come l'Ira, speculare all'Eta.
Ognuno di essi poté farlo a mani basse perché
la divisione dell'Europa in blocchi
favoriva la sopravvivenza dei regimi. Sotto la scorza del franchismo la
Spagna fu l'unico Paese a mutare in profondità. Il ripristino della monarchia
fece il resto.
Anche
il comunista Santiago Carrillo, rientratovi dal lungo esilio, osservò che per
gli spagnoli essa era come la “sopa de ajo”, un piatto popolare.
Un'ultima considerazione si impone. Dopo gli
anni indimenticabili di Felipe Gonzalez, i Spagna socialisti imboccarono la via
della “ley de la memoria” per cancellare i ricordi dell'età franchista,
erroneamente dipinta esclusivamente buia, fonata sul terrore. Con Zapatero e,
ancor più con Sanchez, imperversò la “memoria democratica”, che si risolse
nella memoria a senso unico, nella cancellazione della complessità della
storia. Una deformazione della verità. Cambiare nomi a vie e piazza è un conto,
spostare salme (come accadde a quelle di Franco e di José Antonio Primo de
Rivera, estumulati dal Valle de los Caidos, è un conto; negare che gli enormi
progressi economici e civili della Spagna odierna ha radici negli ultimi
quindici anni dell'età di Franco, è un altro. Il giudizio storico richiede
conoscenza ed equilibrio. Senza le esagerazioni dell'estremismo di sinistra
“Vox” sarebbe rimasto un partito con scarso seguito. Mentre si preparano a
tornare al governo, i “moderati” fanno sapere non intendono averli alleati, per
non attizzare un dualismo che appartiene al passato remoto e non ha nulla a che
vedere con la Spagna odierna, quella di Felipe VI di Borbone, perno e garante
dello Stato.
Aldo
A. Mola
Sulla
Spagna dal franchismo a fine Novecento v. Aldo A. Mola, L'integrazione
europea e la penisola iberica in Storia dell'integrazione europea, a
cura di Romain H. Rainero, Milano, Marzorati, 1997, vol,. I, pp.595-636.
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