NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

lunedì 14 luglio 2025

GUERRA DI SPAGNA

Cambi di fronte, cambi di regime

di Aldo A. Mola


El Valle de los Caidos: immaginata come emblema della pacificazione. 

Il 18 luglio 1936 in Spagna quattro generali insorsero contro il governo. Iniziò una guerra civile durata quasi tre anni. Il calcolo delle sue vittime, prevalentemente civili, rimane ancora approssimativo. Quella guerra non fu la premessa della guerra “europea” iniziata  nel 1939 e divenuta mondiale dal 1941. Il governo repubblicano di Madrid ebbe il sostegno di brigate internazionali, prevalentemente comuniste, ma non quello diretto di Mosca. I nazionalisti furono fiancheggiati dalla Germania, che inviò la micidiale Divisione Condor, e dall'Italia con il “Corpo Truppe Volontarie”, bene armate. Ma la guerra del settembre 1939 iniziò con l'attacco della Germania e dell'Urss contro la Polonia, alleata di Francia e Gran Bretagna, che però non intervennero a sua tutela. L'Italia di Mussolini rimase spettatrice e poco dopo co-belligerante, pro-Hitler. Tra la guerra civile spagnola e l'europea vi fu dunque sequenza cronologica ma non strettamente logica.  Vincitore in Spagna, Francisco Franco rimase prudentemente neutrale dall'avvento e infine aprì agli anglo-americani, che garantirono la continuità del suo regime, sorretto dalla Chiesa, sino alla sua morte.

                                           

   Il 12 ottobre 1936 gli spagnoli celebrarono la festa della Hispanidad, in coincidenza con la “scoperta dell'America”, che il “descubrimiento” li univa al di sopra di ogni divisione ideologico-partitica. Era divenuto  ancor più sentito dalla perdita delle Filippine e di Cuba nel 1898, a vantaggio degli Stati Uniti d'America, in forte ribasso di popolarità nelle file degli intellettuali iberici in varia misura segnati dal Novantottismo. Ne era stato interprete il diplomatico e saggista granadino Angel Ganivet, suicida a 32 anni, nel 1898. Il suo Ideario spagnolo pose l'interrogativo sui motivi della decadenza e smarrimento dell'identità degli spagnoli. Aprì le sue riflessioni richiamando l'esempio di Seneca, lo stoico che si svenò dolcemente in acqua tiepida, e le chiuse con don Chisciotte e Sancho Panza, rovello della generazione seguente.

  Quel 12 ottobre 1936 all'Università di Salamanca esplose il durissimo scontro tra il rettore Miguel de Unamuno (Bilbao, 1864-Salamanca 1936) e José Millan Astray, fondatore della Legiòn. Secondo la versione più nota, Unamuno, filosofo, scrittore, autore di tormentate opere teatrali e dal 1891 docente di greco e latino nella prestigiosa Università salamantina, espresse un severo giudizio sulla mentalità del “soldato”, dall'orizzonte chiuso tra vita e morte, in spregio ai dubbi degli intellettuali. Millan Astray sbottò: “Viva la muerte!” o “Muoia l'intelligenza”. Lo scrittore José Maria Pemàn tentò la mediazione:“Viva l'intelligenza e muoiano gli intellettuali cattivi”, i cosiddetti “cattivi maestri”. Unamuno rivendicò che l'Università era “il tempio dell'intelligenza”. Da suo sommo sacerdote disse: “Voi state profanando il suo recinto”. Concluse: “Vincerete ma non convincerete”. Dati i precedenti, gli poteva andare molto male. Nel 1931 Unamuno era stato destituito da Rettore  perché antimonarchico. In suo favore  -era lo spagnolo più noto all'estero- scesero in campo scrittori e artisti euro-americani. Invano. Unamuno lasciò le Canarie, ove era “confinato”, poco sicure per la sua incolumità, riparò a Parigi e poi si installò a Endaya, sul confine franco-spagnolo. Rientrato  Salamanca dopo la caduta della monarchia venne rieletto rettore. Ora doveva fare i conti con l'ala dura dei “nazionali” insorti il 18 luglio.

   A sorpresa, in soccorso del pensatore intervenne Carmen Polo, la moglie di Francisco Franco y Bahamonde. Da settembre scelto come capo unico della sollevazione armata dei “nazionali” contro il governo repubblicano di Madrid, Franco aveva insediato il comando a due passi dalla Cattedrale e dall'Università. Donna Carmen offrì il braccio a Unamuno e scortata da Pemàn lo condusse al sicuro, fendendo la folla. Affranto, il filosofo scrisse a un amico: “Vincere non è convincere e conquistare non è convertire. (…) Si lotta, si ammazzano gli uni con gli altri,  bruciano chiese, celebrano cerimonie, sventolano bandiere rosse e stendardi di Cristo”. Ma non era vero che metà degli spagnoli credessero nella religione di Cristo e metà in quella di Lenin. Quello sfacelo avveniva perché gli spagnoli non credevano in niente. “Il popolo spagnolo è uscito pazzo. Il popolo spagnolo e il mondo intero. Sono solo. Solo come  (Benedetto) Croce in Italia!”. Nuovamente destituito da rettore, questa volta dai franchisti, si ritirò a vita privata. Morì il 31 dicembre. Non perse di obiettività. A suo avviso i “ribelli” (cioè i “nazionali”) tendevano a “salvare a civiltà occidentale cristiana e l'indipendenza” della Spagna. Non si schierò per nessuna delle due fazioni, ma per la Spagna.

   Il successo internazionale e l'immensa produzione letteraria non lo mettevano al sicuro. Autore di opere celebri, come “Pace nella guerra” (1897), “Il sentimento tragico della vita”  (1913) sino a “Vita di Don Chisciotte” e “Romancero dell'esilio”, Unamuno sapeva dell'assassinio immotivato, già a luglio, del poeta granadino Federico Garcia Lorca, che non aveva fatto in tempo ad accogliere l'invito a riparare negli Stati Uniti d'America. Nella notte del 28-29 ottobre Ramiro de Maetzu, venne svegliato nella della prigione madrilena di Ventas.  Un carceriere gli disse che era inutile si vestisse: “Per dove vai va bene anche il pigiama”. Ottenuta l'assoluzione da un prete compagno di sventura, uscì. Cadde fucilato. Dopo Unamuno e Ortega y Gasset, de Maetzu era l'intellettuale spagnolo più famoso all'estero. Il suo percorso è esemplare. Nato nel 1874 a Vitoria, nel paese basco, esordì collaborando a “El socialista”. A Londra dal 1905 al 1920  scrisse in “The New Age”,  come Ezra Pound e George Bernard Shaw, una rivista aperta a esoterismo e riformismo. Rientrato in Spagna si schierò con Miguel Primo de Rivera. Dopo il colpo di stato indolore del 13 settembre 1923, con la “dittablanda”, come la sua era detta per distinguerla  da una “dittatura” vera, de Rivera impresse all'economia spagnola una imponente  accelerazione, sorretta da cospicui investimenti esteri, in specie britannici. Ne ha scritto Fernando Gaarcia Sanz. Già autore di un affermato saggio sul Don Qujote di Cervantes, tormento di tutti gli scrittori della sua epoca, e fondatore dell'Unione Monarchica Nazionale, nel 1931 Ortega si schierò contro la repubblica nata dalla equivoca interpretazione dei risultati delle elezioni amministrative. Le sinistre prevalsero a Madrid e nelle maggiori città ma i monarchici ebbero più voti. A contare, però, furono le manifestazioni di piazza a favore del cambio istituzionale. Memore degli eventi di un settantennio prima e del naufragio della prima repubblica, Alfonso XIII di Borbone lasciò la Spagna nella certezza di essere presto richiamato sul trono.

   Autore di  “Difesa dell'Ispanità” (1933), che gli valse l'ingresso nella Real Accademia, ed eletto deputato, Ortega si schierò per la difesa dei valori tradizionali, contro gli “eccessi” dell'anticlericalismo divampante dal 1931: incendio di chiese, devastazione di conventi, rogo di archivi, profanazione di salme di ecclesiastici defunti,  violenze ai danni di preti e di monache. Gli stranieri rimasero indifferenti. I più identificavano il cattolicesimo spagnolo con l'Inquisizione, la caccia alle streghe (nel Cinque-Seicento imperversante nell'Europa centrale, tra evangelici e riformati), l'oscurantismo e, ciò che più pesò, la “limpieza de sangre” e l'espulsione degli ebrei.   

  Altro intellettuale di prestigio europeo era Salvador de Madariaga (La Coruna, 1886-Locarno, 1978), storico, diplomatico, poeta, autore della storia dell'Impero ispanico americano. Lasciata la Spagna non vi fece ritorno. I colti andavano e venivano. In cerca. I contadini, gli operai, gli imprenditori rimasero . Finirono nel vortice di una guerra civile spietata.

  Ma per cambiare la Spagna occorreva viverci; e purtroppo anche morirci. Una sorta di espiazione collettiva.

   

  Come a nota a piè di pagina della sintetica panoramica dei passaggi di fronte di intellettuali prestigiosi determinati dalla guerra di Spagna va aggiunto l'interrogativo sulle sue ripercussioni su “Giustizia e Libertà”, il movimento creato in Francia da Carlo Rosselli, dopo l'evasione con Emilio Lussu e Francesco Fausto Nitti, massone, dal confino di polizia a Lipari, al quale era stato condannato dal regime fascista per aver concorso a trasferire l'anziano Filippo Turati in Corsica, così sottraendolo a eventuali vessazioni. Messe a segno alcune imprese, anche aviatorie, non sempre fortunate e comunque lontane dall'impensierire Mussolini che  stava riscuotendo vasto consenso nel Paese, Rosselli organizzò una “colonna” di qualche decina di volontari a sostegno della repubblica di Madrid con l'insegna “Oggi in Spagna, domani in Italia”. Essa incontrò non poche difficoltà a farsi accogliere, inquadrare e ad essere mandata “in linea”. Non tutti i suoi componenti, a cominciare da Rosselli stesso e Aldo Garosci, che ne scrisse la storia, avevano pratica di armi e, a differenza di Lussu, meno ancora di battaglie. Nello scontro di Monte Pelato cadde Mario Angeloni, massone. Dopo vicissitudini che lasciamo tra parentesi, lamentando una dolorosa flebite  Rosselli rientrò a Parigi. Sul suo “poi” circa trentacinque anni anni addietro lo storico Franco Bandini pubblicò il frutto di lunghe riflessioni sulla domanda: “Chi armò la mano degli assassini dei fratelli Rosselli?” (ed. SugarCo). A Bagnoles-de-l'Orne il 9 giugno 1937 Carlo e suo fratello Nello, studioso del Risorgimento, rimasto in Italia e sempre ai margini della militanza politica, occasionalmente in Francia, furono assassinati da “cagoulards”, organizzazione criminale dichiaratamente di estrema destra ma contraddittorio e sospetto. Perché quel delitto così efferato? Quale posizione politica e quali progetti coltivava Carlo Rosselli? In mancanza di elementi sicuri, Bandini non esprime una sentenza categorica. Però, tassello dopo tassello, documenta che egli non viveva affatto in clandestinità. Si era premurato di rinnovare il passaporto, con estensione a Paesi dell'Europa centro-settentrionale (Germania hitleriana esclusa, s'intende). In Catalogna i volontari italiani avevano assistito sgomenti alla carneficina di anarchici e libertari da parte dei comunisti eterodiretti da Mosca. “Giustizia e Libertà” non si riconosceva nel Fronte Popolare varato da Stalin per egemonizzare l'antifascismo. Pertanto i suoi militanti costituivano un avversario; anzi un nemico. Da eliminare, acche fisicamente, come scoprì il repubblicano Randolfo Pacciardi, comandante del battaglione “Garibaldi” in Spagna. Quando avvertì che la sua vita era minacciata dai comunisti, previa una seconda iniziazione massonica riparò negli Stati Uniti d'America.

   Bandini intitolò il suo libro “Il cono d'ombra”. Non immaginava che, ruvidamente stroncato, il volume sarebbe finito a sua volta in un ...cono d'ombra. Vi rimase malgrado un convegno di studi dedicatogli in Firenze altre rievocazioni, incluso uno“Speciale” del mensile “Storia in Rete”. La vicenda, va però osservato, rimase ed è del tutto circoscritta nei confini italiani. Nessuna tra le maggiori opere di autori spagnoli ed esteri  sulla guerra di Spagna menzionano la “colonna Rosselli”. Se ne cerca invano traccia nella monumentale biografia di Franco scritta dall'inglese Paul Preston (tradotta in Italia da Mondadori), nei volumi di Juan Pablo Fusi e di Fernando Garcia de Cortazar. La ignora anche lo scrupolosissimo Pio Moa che, autore di saggi e biografie, ha passato in rassegna Los mitos de la guerra civil.

 

   Anche in Spagna i vent'anni dalla “ditta-blanda” di Primo de Rivera alla svolta “occidentale” di Francisco Franco segnarono molti passaggi dall'uno all'altro “bando”. Alcune personalità eminenti ebbero la sventura di essere uccise o di rimanere intrappolate nelle  tragiche regole di una guerra civile che fu sull'orlo di divenire mondiale. Si esaurì con la vittoria dei franchisti nella battaglia dell'Ebro, la loro avanzata in Catalogna, l'ingresso in Barcellona il 26 gennaio 1939. A quel punto la Gran Bretagna riconobbe il governo di Franco e lasciò i repubblicani al loro destino. I più previdenti passarono in Francia, ove furono concentrati in “campi”, in pessime condizioni, e circondati da diffidenza. Altri ripararono in Messico. In marzo in Madrid divampò l'ultima guerra civile nella guerra civile tra fazioni dell'estrema sinistra.

   Il 28 marzo i nazionali entrarono in Madrid e il 1° aprile Franco vi celebrò il proprio trionfo, presente Eddy Sogno, che ne scrisse. Questo si sostanzio in tre operazioni concatenate: il prolungamento dello sterminio dell'opposizione con la legge speciale contro il comunismo e la massoneria (ne hanno scritto Juan José Morales Ruiz nel fondamentale Palabras asesinas, José Antonio Ferrer Benimeli e Maria Dolores  Gomez Molleda in La Masonerìa en la crisis espanola del siglo XX); la sussunzione nel “franchismo” di tutti gli avversari del governo repubblicano; il consolidamento del suo potere di generale assurto a “Jefe del Estado”. In quel quadro vennero sfumate le differenze originarie, sostanziali e mai risolte di tanti “nazionali”, che da Franco vennero monumentalizzati e sottratti alla storia. Fu il caso di José Antonio Primo de Rivera. Quando lo fucilarononel carcere di Alicante, i repubblicani non capirono che stavano facendo un regalo a Franco, perché il programma della Falange stava al franchismo come il fascismo delle origini stava al Mussolini degli Anni Trenta. Aveva aperture sociali e culturali molto lontane dalla rigidità di Franco. Anche Emilio Mola y Vidal, artefice della sollevazione, aveva un programma che solo la sua morte per incidente areo il 3 giugno 1937 lasciò in fieri. Non concideva con “franchismo”.

  Per assicurare le fondamenta del regime provvisorio Franco usò mano durissima. Esecuzioni e condanne a pene severissime continuarono nel tempo. D'altronde, pochi mesi dopo la sua vittoria, iniziò la guerra europea, basata sul clamoroso patto di non aggressione Hitler-Stalin, sicché nessuno badò a quel che accadeva in Spagna. Importavano le sue risorse naturali, in specie i minerali rari, da Franco messi a disposizione dei due fronti con calcoli sagaci.

   Scaltro e lungimirante, il “caudillo” si accinse a fare il vero e più decisivo voltafaccia. Con il rifiuto di immischiarsi nella guerra a fianco dell'Asse e di infastidire il dominio britannico su Gibilterra, vitale per gli inglesi, fece buon viso agli Stati Uniti d'America, che in cuor suo detestava: nulla di più lontano dalla “sua” Spagna. Questa, però, aveva dalla propria la “Lettera collettiva dell'episcopato spagnolo” che il 1° luglio 1937 si schierò al suo fianco. Dalle file dei cattolici sorsero l'Opus Dei e la tecnocrazia che mutò il volto della Spagna. Dato a Dio quel che era di Dio, Franco pensò a Cesare: il regime. Per farlo finse di non vedere che il cambiamento sarebbe stato generato proprio dalla sua scelta di campo. Franco condivideva poco , se non nulla, dello statuto delle Nazioni Unite e meno ancor della dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Però aveva bisogno di sedere nell'Onu (la Spagna vi fu accolta nel 1955, come l'Italia) e di offrire all'esterno una parvenza di rispettabilità. Chi la visitava constatava che il paese era “in ordine”. Le città si riebbero. Nell'arco di un decennio si affacciò una dirigenza che non arrivava dalla guerra civile. Tra i primi ne fu esponente Fraga Iribarne, onnipresente in convegni culturali all'estero.

  Prevalentemente in divisa, chiuso in ossessioni confinanti con allucinazioni, Franco completò il “grande balzo” ricevendo al Palazzo d'Oriente diplomatici e militari che avevano lasciato in valigia grembiule, sciarpa e guanti di loggia, indossati nelle logge castrensi installate in case private e nelle basi militari americane in Spagna. Con lo pseudonimo di J. Boor egli scriveva articoli contro la massoneria ma non vedeva i “fratelli” che incontrava. Grazie a quella distopia, da taluni considerato doppiezza, gettò le basi della lunga transizione che non iniziò dopo la sua morte ma dagli Ann Sessanta. Tra gli “intellettuali” esuli alcuni rientrarono, con la massima discrezione. Lentamente furono poste le basi per l'attuazione del programma il 18 luglio 1938 invocato da Manuel Azana: “paz, piedad, perdòn”. Madrid aveva fretta di entrare a far parte del Mercato comune europeo e delle istituzioni comunitarie nascenti. Incappò nell'ostilità di quanti prendevano a pretesto la perdurante repressione di movimenti centrifughi per escluderne la sempre più fiorente produzione agroalimentare  manifatturiera. In quegli anni la Spagna non fu l'unico Stato a combattere senza esclusione di colpi indipendentismi armati come l'Ira, speculare all'Eta.

  Ognuno di essi poté farlo a mani basse perché la divisione dell'Europa in blocchi  favoriva la sopravvivenza dei regimi. Sotto la scorza del franchismo la Spagna fu l'unico Paese a mutare in profondità. Il ripristino della monarchia fece il resto.

Anche il comunista Santiago Carrillo, rientratovi dal lungo esilio, osservò che per gli spagnoli essa era come la “sopa de ajo”, un piatto popolare.

 

  Un'ultima considerazione si impone. Dopo gli anni indimenticabili di Felipe Gonzalez, i Spagna socialisti imboccarono la via della “ley de la memoria” per cancellare i ricordi dell'età franchista, erroneamente dipinta esclusivamente buia, fonata sul terrore. Con Zapatero e, ancor più con Sanchez, imperversò la “memoria democratica”, che si risolse nella memoria a senso unico, nella cancellazione della complessità della storia. Una deformazione della verità. Cambiare nomi a vie e piazza è un conto, spostare salme (come accadde a quelle di Franco e di José Antonio Primo de Rivera, estumulati dal Valle de los Caidos, è un conto; negare che gli enormi progressi economici e civili della Spagna odierna ha radici negli ultimi quindici anni dell'età di Franco, è un altro. Il giudizio storico richiede conoscenza ed equilibrio. Senza le esagerazioni dell'estremismo di sinistra “Vox” sarebbe rimasto un partito con scarso seguito. Mentre si preparano a tornare al governo, i “moderati” fanno sapere non intendono averli alleati, per non attizzare un dualismo che appartiene al passato remoto e non ha nulla a che vedere con la Spagna odierna, quella di Felipe VI di Borbone, perno e garante dello Stato.

 

Aldo A. Mola    


Sulla Spagna dal franchismo a fine Novecento v. Aldo A. Mola, L'integrazione europea e la penisola iberica in Storia dell'integrazione europea, a cura di Romain H. Rainero, Milano, Marzorati, 1997, vol,. I, pp.595-636. 

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