Copertina
dell'introvabile “La monarchia e il fascismo” del saggista Mario Viana
(Candelo, 1883-Roma, 1976). |
di
Aldo A. Mola
Una
“giornata particolare”
Il 21 luglio 1923 non figura tra le
“giornate particolari”. Eppure quel giorno, nell'Aula “sorda e grigia” della
Camera dei deputati, venne decisa la storia d'Italia. La “narrazione”
privilegia eventi clamorosi. A volte li inventa. È il caso del 28 ottobre 1922,
giorno fatidico della “marcia su Roma”, che si ridusse alla sfilata di 25.000
squadristi da Piazza del Popolo alla Stazione Termini, dove sessanta treni li
riportarono alle loro terre, stanchi ma non del tutto soddisfatti. Non era il
28 ma il 31 ottobre 1922. Il governo Mussolini era già insediato. Il IV
novembre il Re rese omaggio al Milite Ignoto all'Altare della Patria e partì
per San Rossore (Pisa). Il Paese era tranquillo.
Mitologie a parte, la Storia, quella vera,
quella che “pesa”, procede a passi felpati. Chi potrebbe fermarla o deviarne il
corso spesso le lascia il varco e risulta persino assente ingiustificato. Come
accadde quel 21 luglio 1923. Quella, sì, una “giornata particolare”.
Per comprendere quanto avvenne e le sue
ripercussioni sul ventennio seguente occorre fare un passo all'indietro. Un
mese dopo l'insediamento alla presidenza del Consiglio, Benito Mussolini fece
trapelare le sue intenzioni tramite un dispaccio diramato dall'“Agenzia
Italiana” il 6 dicembre 1922. Ottenuta la fiducia dalle Camere, il governo
progettava di sostituire il riparto dei seggi in proporzione ai voti ottenuti
dai partiti con un premio di maggioranza alla lista più votata. Mussolini,
però, era consapevole di non avere la forza numerica per farlo. Il Partito
nazionale fascista (PNF) contava appena 36 deputati su 535. Sommando i
nazionalisti (come poi avvenne a metà febbraio 1923, previa dichiarazione
d’incompatibilità tra fascismo e massoneria) ne sarebbe sorto un gruppo di 50
deputati. Del tutto insufficiente. Il duce tentò allora un'altra via. Se lo
avesse proposto alla Camera, il progetto avrebbe suscitato «un dibattito
alimentato da interessi particolari ed individuali, mettendo in chiara luce l'impossibilità
di una serena e disinteressata discussione parlamentare». Mussolini sperò
allora di imporre la riforma per decreto reale, ma Vittorio Emanuele III, re
costituzionale, rifiutò. Dovette quindi presentare un disegno di legge col
rischio di rimanere soccombente in Aula. Esso fu approntato da Giacomo Acerbo,
sottosegretario alla Presidenza del consiglio, massone. Ma la sua elaborazione
richiese tempo perché, come emerse da una seduta del Gran Consiglio del
fascismo il 17 marzo 1923, molti “ras”, come Roberto Farinacci, propendevano
per il ritorno ai collegi uninominali, in vigore sino al 1913: più sicuri per
essere eletti sulla base del controllo del territorio, ormai militarizzato
tramite le “squadre”.
Il 26 aprile il Gran Consiglio approvò a
maggioranza un «sistema maggioritario a più vaste circoscrizioni elettorali,
secondo cui la lista che otterrà il maggior numero di voti rispetto alle altre
sia dichiarata eletta per intero, ed i posti residuali ripartiti
proporzionatamente fra le altre liste». Il Gran Consiglio non indicò la soglia
che la lista prevalente doveva raggiungere, né la quota di seggi che le sarebbe
stata riservata. Meglio tenere le carte coperte per non allarmare partiti e
opinione pubblica, del resto assai ristretta perché la stragrande maggioranza
degli italiani aveva altre urgenze.
Il 9 giugno Mussolini presentò alla Camera
la legge elettorale maggioritaria, “madre di tutte le riforme”. Accantonata la
“questione istituzionale” e messa la sordina ai propositi di assalto al Senato,
di nomina regia e vitalizio, il duce mirò a ottenere un’investitura diretta
dagli elettori. Su quella base avrebbe potuto confrontarsi con il Re da una
posizione più forte. Sarebbe stato espressione della “volontà nazionale”, del
“Popolo d'Italia”, insegna del quotidiano da lui fondato all'uscita dal partito
socialista grazie a un robusto finanziamento da parte del Grande Oriente di
Francia, che aveva bisogno di un movimento “socialista” italiano a favore
dell'intervento in guerra, osteggiato dal PSI, poi arroccato sull’inconcludente
formula “né aderire, né sabotare”. Il 30 ottobre 1922, secondo la leggenda,
Mussolini aveva dichiarato al Re che gli portava l'“Italia di Vittorio Veneto”.
Ora doveva dimostrare che gli italiani approvavano l'esercizio dei pieni poteri
da lui chiesti e concessi dalle Camere per riformare la pubblica
amministrazione, negati a Giolitti nel suo quinto e ultimo governo (1920-1921).
La
Commissione dei diciotto
Secondo la prassi, la Camera, presieduta dal
liberale napoletano Enrico De Nicola, nominò una commissione di diciotto membri
per l'esame preliminare del disegno di legge. Ne fecero parte rappresentanti di
tutti i gruppi parlamentari, compresi quattro ex presidenti del Consiglio,
Antonio Salandra, Vittorio Emanuele Orlando, Ivanoe Bonomi e l'ottantunenne
Giolitti, al quale fu conferita la presidenza. I gruppi fiancheggiatori e di
opposizione furono rappresentati ai massimi livelli: De Gasperi e Micheli per
il partito popolare, Turati per i socialisti unitari, Lazzari per i
massimalisti, Graziadei per i comunisti. I fascisti vi comparvero con un paio
di deputati, Paulucci e Terzaghi, supportati dal filofascista e massonofago
Paolo Orano. I suoi travagli narrati in
“Massoneria e fascismo” (ed. anastatica Forni) da Michele Terzaghi, che il 31
ottobre 1922 aveva rifiutato la nomina a sottosegretario alle Poste (si
aspettava di meglio, poi finì al confino di polizia).
Nell'impossibilità di immediato ripristino
dei collegi uninominali, Giolitti aveva l'ossessione di spazzare via la
“maledetta proporzionale” per assicurare all'Italia un governo stabile perché
numericamente forte: una sorta di dittatura parlamentare provvisoria. Ma fino a
quando sarebbe durata? Giunto al potere per voto popolare, il “dittatore” si
sarebbe rassegnato a deporre il fascio littorio o ne avrebbe estratto la scure?
Erano in tanti a domandarselo. Come ricorda Gianpaolo Romanato in “Giacomo Matteotti:
un italiano diverso”, ed. Bompiani), in un colloquio con Matteotti (che invano
gli propose di iscriversi al PSU) Gaetano Salvemini prospettò i nomi di
possibili ministri di un “governo di garanzia”: lui stesso, Giovanni Amendola,
Luigi Albertini, don Sturzo, il socialista Bruno Buozzi, il cattolico Filippo
Meda e il generale Pietro Badoglio, di cui si diceva che se nel 1922 gli
avessero chiesto di sbaragliare gli squadristi “manu militari” lo avrebbe
fatto.
Le
ipotesi erano tante, a volte fiabesche e sempre più lontane dalla realtà.
Inondavano giornali e riviste, letture di nicchia per addetti ai lavori,
lontani dalla generalità dei cittadini alle prese con disoccupazione e distanza
crescente tra stipendi, salari e costo della vita.
La “legge Acerbo”, come il disegno di legge
fu subito detto dal nome del suo proponente, venne discussa a lungo nella
“Commissione dei Diciotto”. Mentre i tre esponenti delle sinistre furono sempre
per il “no”, il popolare De Gasperi propose di elevare dal 25% al 40% la soglia
oltre la quale il partito prevalente avrebbe ottenuto il premio di maggioranza
e di ridurre quest’ultimo da due terzi a tre quinti dei seggi. Trattare voleva
dire accettare, almeno “in linea di massima”, come Abramo con Dio nel Vecchio
Testamento. Fiutata la vittoria per le divergenze e la debolezza delle
opposizioni, la maggioranza (fascisti e “liberali”) si irrigidì. Il testo fu
mandato in Aula con poche varianti rispetto all'originale.
Un'esigua
minoranza divenne maggioranza schiacciante
L’obiettivo della legge era semplice: la
minoranza più forte ha diritto di governare da sola
il
Paese. A Monte Citorio le opposizioni si mostrarono blande. Per i socialisti
parlò Turati, che divagò. I popolari Gronchi e Cingolani, più pragmatici,
riproposero l'elevazione della soglia premiale al 40% e il conferimento dei tre
quinti dei seggi anziché i due terzi, ma confermarono la collaborazione col
governo, sia pure “piena di sottintesi” come osservò ironicamente Mussolini.
Il 21 luglio 1923, per evitare rischi e
contraddicendo le dichiarazioni della vigilia, il duce pose la questione di
fiducia sull'ordine del giorno presentato dal conte e avvocato Ignazio Larussa,
eletto nella circoscrizione Calabria e Basilicata nella lista di Democrazia
liberale ma ormai in marcia verso il PNF. A Roma il caldo era opprimente.
L'Aula era soffocante. Mentre il 16 precedente, per il voto sulla fiducia sugli
articoli, si erano contati 450 presenti, nella seduta decisiva, se ne
presentarono appena 346 su 535. Erano chiamati a votare la proposta di Ivanoe
Bonomi di elevare la soglia dal 25 al 33%, che fu sconfitta. Sulla legge Acerbo
ancora una volta Mussolini chiese pose
la questione di fiducia. Il governo rischiava tutto. La votazione era segreta.
Il risultato fu inappellabile. Il governo ottenne 223 voti contro 123. Prevalse
col favore del 40% dei deputati in carica, una minoranza: nazionalfascisti,
liberali di varia osservanza, popolari ormai liberi da don Sturzo. Elenco dei
presenti alla mano, risulta che almeno 40 dei 100 deputati del partito
popolare, in parte contrari alla legge, furono assenti. Ma ancora più clamorosa
risulta l'assenza ingiustificata dei socialisti, sia massimalisti, sia del
Partito socialista unitario capitanato da Matteotti.
Turati scrisse sconsolato alla compagna,
Anna Kuliscioff, da decenni Ninfa Egeria del socialismo italiano: «Dei nostri
ne mancarono 30 o 40, il che significa che siamo stati noi a dare la vittoria
al fascismo». Quel 21 luglio 1923 fu la Camera o, più esattamente,
l'“opposizione”, a regalare a Mussolini vent'anni di governo. Da quel giorno la
sorte dell'Italia fu segnata. Il partito che avesse avuto un quarto dei voti
validi avrebbe ottenuto due terzi dei seggi. Il futuro capo del governo avrebbe
avuto un’investitura mai vista nella storia d'Italia. Avrebbe potuto ergersi ad
“alter ego” rispetto al Re.
Il 13
novembre 1923 il Senato approvò la legge Acerbo con 165 voti contro 41. L'esito
era scontato. Interpellato sulle prospettive politiche del Paese il 27 ottobre
Benedetto Croce, senatore e già ministro della Pubblica istruzione, dichiarò
«non esiste ora un questione di liberalismo e di fascismo, ma solo una
questione di forze politiche. Dove sono le forze che possano, ora, fronteggiare
o prendere la successione del governo? Io non le vedo. Noto invece grande paura
di un eventuale ritorno all'anarchia del 1922. Per un tale effetto nessuno che
abbia senno augura un cambiamento. Se i liberali non hanno avuto la forza e la
virtù di salvare essi l'Italia dall'anarchia in cui si dibatteva, debbono
dolersi di sé medesimi, recitare il “mea culpa” e intanto accettare e
riconoscere il bene da qualunque parte sia sorto e prepararsi per l'avvenire.
Questo è il loro dovere». Più fatalismo che storicismo. Per far capire che le
cose non erano come le vedeva il “filosofo”, i fascisti devastarono
l'abitazione di Francesco Saverio Nitti, due volte presidente del Consiglio e
non rassegnato al “sistema Mussolini”. Anche l'Associazione Nazionale
Combattenti (meritevole di un esame specifico) si allineò alle posizioni del
governo. Un “Partito mazziniano” pubblicò un manifesto in cui ricordò la
“follia demagogica” che infuriava in Italia prima dell'avvento di Mussolini. Il
duce compì un periplo nelle maggiori città dell'Italia settentrionale, accolto
da bene orchestrate manifestazioni di giubilo. Piero Gobetti annotò: «Il recente
tentativo di creare il mussolinismo accanto al fascismo è stata la prova più
pietosa della mancanza di dignità degli italiani non fascisti. La gara nel
servilismo non poteva svelarsi più ripugnante.» E mise in guardia dal «nuovo
domatore e dalle sue capacità di non tener fede ai patti, di guadagnare la
popolarità ad ogni costo, di asservire abbagliando e lusingando».
In Senato si susseguì un coro di plausi.
L'unico nettamente contrario fu Mario Abbiate. Con parole profetiche e
attualissime ammonì: «Viene meno con la riforma il governo parlamentare e
neppure si fa ritorno al governo costituzionale di scelta del Re. La
designazione del governo si trasferisce dal Parlamento ai comitati elettorali,
sostenuti da una minoranza degli elettori che può essere del 25% dei votanti
corrispondente al 16% degli iscritti [cioè degli elettori, NdA]. La scelta
della Corona, che può essere moderatrice ed arbitra tra i vari partiti, viene
effettivamente annullata. Il malcostume parlamentare viene aggravato dal
malcostume dei partiti.»
BOX
-Titoletto-
E alla
fine anche il liberale Giolitti disse “no” al regime
La Camera fu sciolta per decreto reale il 25
gennaio 1924. Le elezioni furono indette per il 6 aprile. Ai blocchi di
partenza i pochi partiti strutturati (comunisti, repubblicani, socialisti
massimalisti e le minoranze germanofone e slavofone, la cui corposa presenza
mostrava che lo Stato d'Italia non era “nazione”, come oggi enfaticamente
qualcuno dice) strinsero le file e si prepararono alla gara. Il Partito
socialista unitario mostrò la sua doppia anima: quella intransigente di
Matteotti e quella che ricordava l'imperatore Adriano (117-134 d.Cr.): “animula
vagula, blandula, pallidula...”, incline a trattative. Mussolini incaricò
cinque fascisti di allestire la Lista nazionale. Il suo motore fu Cesare Rossi,
della Gran Loggia d'Italia. In poche settimane vennero intruppati ex popolari,
democratici, demosociali, liberali, agnostici, agrari, industriali,
“intellettuali” (brutta parola per peggiore cosa, diceva Carducci) ed esponenti
della società civile disposti a dare una mano e a ricevere il guiderdone della
medaglietta parlamentare con prebende annesse. Il carro del presumibile
vincitore si riempì all'inverosimile. Vi salirono anche Salandra, Orlando e il
presidente della Camera, De Nicola. Poiché quando si sa di compiere un errore,
se ne addossano le responsabilità ad altri Orlando disse: «La verità è che
quando il fascismo arrivò al governo, delle antiche istituzioni parlamentari
non rimaneva più che l'apparenza esteriore. Nella sostanza esse erano state
distrutte, e vi si era sostituito una specie di direttorio, composto da
delegati di gruppo, cioè la più anarchica tra tutte le forme di governo. Il
fascismo riconsacrò l'idea di Patria e restaurò l'autorità dello Stato.» De
Nicola aggiunse: «Il fascismo sorse come protesta contro un eccesso di violenza
sovvertitrice della vita nazionale, s'affermò e vinse come protesta contro un
eccesso di instabilità e di atonia dei governi. Il senso e l'intuito del Capo
dello Stato risparmiarono una guerra civile, le cui conseguenze sarebbero state
gravissime…»
Giolitti si tenne alla larga dalla Lista
nazionale e ne organizzò una, schiettamente liberale, presente in tre
circoscrizioni, come voleva la legge. Un'altra, simile, fu allestita dal suo ex
sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Camillo Corradini. Concorrevano
a ottenere una sia pure minima parte dei seggi che le opposizioni si sarebbero
spartiti. Briciole condannate a fare da mosche cocchiere del futuro governo di
larghissima maggioranza dominato dal duce del fascismo. Nel discorso
pronunciato il 16 marzo 1924 a Dronero, cuore del suo antico collegio
uninominale, Giolitti spiegò l'azione politica svolta dal 1919 e delineò il
programma venturo. Come già aveva sentenziato all'indomani dell'insediamento di
Mussolini, la Camera aveva il governo che si meritava. Non aveva saputo darselo
in varie crisi e il Paese se lo era dato da sé. Sorto al di fuori dell'orbita
parlamentare era stato riportato dal Re nei binari della legalità
costituzionale. A fronte della legge elettorale, la cui formazione rivendicò
come presidente della Commissione dei Diciotto, il partito liberale doveva
concorrere ad assicurare pace europea, autorità dello Stato, tranquillità
interna, fondata sul consenso di tutte le classi sociali, specialmente delle
più numerose, e solidità dell'economia nazionale, perché «le competizioni più
gravi fra i popoli civili si combattono oggi nel campo economico e
finanziario». Perciò occorreva tagliare drasticamente le spese non necessarie e
restaurare il bilancio statale. “Nihil sub sole novi”... Chiuse con l'appello a
tener vivo almeno in Piemonte il partito di Cavour, Azeglio, Rattazzi, Lanza,
Sella «e di centinaia di altri grandi patrioti» che avevano fatto l’Italia. I
liberali dovevano salvare lo Stato da chi aveva reso impossibile la normale funzione
del Parlamento: i “rossi” e i “neri”, socialcomunisti e popolari, capitanati
del “prete intrigante”. Era il canto del cigno di un liberalismo nato europeo e
arricchito dagli esuli politici accorsi in Piemonte da tutta Italia.
Affrontata la lotta da solo, «forte dei suoi
ideali, delle sue tradizioni, del suo programma, mantenendo intera la sua
indipendenza», il 6 aprile il partito giolittiano ottenne 4 seggi su 535.
Pochini. Contrariamente al credito da lui tributatogli, il fascismo trionfante
non attuò affatto il principio “ne cives ad arma veniant”. La campagna
elettorale fu costellata di morti, feriti, brogli. Il 10 giugno il segretario
del PSU, Matteotti fu rapito. Morì vittima di omicidio verosimilmente non
premeditato: non crimine comune, comunque, ma delitto politico. Anche dopo
quello scempio tanti liberali continuarono a votare a favore del governo.
Giolitti passò finalmente all'opposizione il 24 novembre 1924. Croce salì
sull'Aventino degli studi. Il 16 marzo 1928 Giolitti votò contro la legge
elettorale che affidò al Gran Consiglio la composizione della lista dei
candidati alla Camera, da approvare o respingere in blocco: ratifica del regime
di partito unico, che segnò il decisivo distacco dallo Statuto. Morì il 17 luglio
seguente sussurrando: «Non così presto…». Valeva anche per il tramonto
dell'Italia liberale, travolta dalle leggi fascistissime (bavaglio alla stampa,
scioglimento della massoneria, ripristino della pena di morte, divieto delle
opposizioni politiche e culturali...), che non furono solo un male in sé ma
costituirono le basi della successiva catastrofica alleanza con la Germania di
Hitler, delle leggi razziali e della negazione del Risorgimento liberale,
europeo e monarchico. Così venne imboccato il tunnel che, passo dopo passo,
condusse alla Repubblica sociale italiana, approdo ultimo del voto del 21
luglio 1923: davvero una “giornata particolare”, quest’ultima, germe del
fratricidio permanente. Data da segnare “nigro lapillo”.
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