NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

martedì 10 luglio 2018

Io difendo la Monarchia - cap V - 1


Capitolo V

Il delitto Matteotti - Una precisa visione di Amendola - La secessione aventiniana - Il tre gennaio - Il Re attendedeva un franamento della maggioranza fascista. Egli sollecitò Turati perché l’Aventino tornasse in Parlamento - La discussione in Senato nella prima decade del dicembre 1924. - La simulazione di Mussolini - La testimonianza decisiva di un antifascista. Il Re fece il suo dovere, l’opposizione mancò al suo compito.



L’orrendo delitto Matteotti rimise tutto in discussione: rivelò l'immaturità del fascismo e le funeste conseguenze di avere introdotto l'elemento risolutivo della violenza nella lotta politica. Con il delitto Matteotti la crisi della democrazia parlamentare che pareva avviata a soluzione, nei diciotto mesi della prima esperienza fascista, si inaspriva ed esplodeva più violenta che mai. Quell’episodio orribile che fece fremere di sdegno infiniti cuori, mise a nudo la gravità del fenomeno che si era venuto compiendo in Italia per effetto del suffragio universale,
della guerra e del fascismo. La ineducazione civile e politica delle folle italiane era stata messa a nudo: la superficiale crosta liberale acquistata durante il Risorgimento del nostro Stato era ormai perduta; il popolo era
tornato alle intemperanze, alla facile eccitazione, al gusto delle fazioni e del sangue degli antichi secoli. L’Italia poteva morire di questa paurosa involuzione, di questo mostruoso medioevo del suo costume politico. E questo
fenomeno era tanto più grave in quanto esso non toccava solo il fascismo, ma riappare oggi nell’antifascismo che rivela nei suoi partiti estremi la stessa intolleranza e fa lo stesso uso delle armi per imporre un programma politico. Si vide allora e si vede oggi come fosse profonda la crisi nostra e quella dell’Europa e del mondo.
Giovanni Amendola vide con estrema chiarezza questo fenomeno nel 1924. Nel suo libro: La democrazia dopo il 6 aprile 1924. (Corbaccio, Milano) egli scriveva a pag. 103: «Il fascismo collabora decisamente con il comunismo, così nel campo del pensiero come in quello dell'azione per costringere tutta la vita italiana, presente e futura, nel ferreo dilemma delle due dittature: o quella borghese o quella proletaria».
Questa profonda e lucida visione di Giovanni Amendola non ha potuto valere per l'educazione degli italiani. È notevole che i comunisti di quel tempo, quando la scuola della menzogna di Mosca non aveva fatto tanta
strada da giuocare sul significato della parola democrazia, scrivevano sull’ Ordine nuovo di Torino il 15 aprile 1924 in sostanziale accordo con l’Amendola:
«Escono debellate dai comizi del 6 (1) le democrazie o — possiamo dire senz’altro e meglio — la democrazia. Per quanti non vedono i fatti politici con il nostro metodo, la democrazia avrebbe dovuto la sua condanna al suo passato recente, alla sua condotta postbellica. In realtà in tutti i paesi il periodo democratico ha coinciso col fiorire del capitalismo, col massimo rafforzarsi della borghesia: il periodo apertosi con la guerra ha aperto la successione al capitalismo il quale, perciò, ha dovuto difendersi con mezzi eccezionali, con mezzi non più rintracciabili nei testi dei principi immortali, ma nella organizzazione della forza armata » (2).
Constatiamo ora che dopo la vittoria delle democrazie, le dittature in Europa non sono diminuite, ma aumentate, e nessun governo di democrazia parlamentare è stato ancora restaurato. Perché questo è l’argomento principale del nostro discorso. Tutti si professano devoti alla democrazia, ma la democrazia non risorge. Anche il fascismo, anche il nazismo, si professavano democratici. Essi hanno sempre affermato di realizzare la vera, la sola democrazia popolare che si potesse integralmente realizzare dopo la democrazia parlamentare che costituiva invece uno stato di privilegio borghese, condannato con l'esaurirsi del capitalismo. In questo, fascisti e nazisti erano perfettamente concordi con il comunismo sovietico che dichiarava di rappresentare la più perfetta democrazia: quella del proletariato. Nessuno dunque respinge la democrazia, ma ognuno l’attua o tenta attuarla a suo modo. E una crisi assai lunga e vasta, che si sviluppa in una atmosfera di intolleranza e di cui il delitto Matteotti fu un episodio e gli infiniti delitti che si vennero compiendo più tardi, in tutti i paesi europei (Austria, Cecoslovacchia, Polonia, Romania, Jugoslavia, Bulgaria, Grecia, Francia, Italia, Belgio, Olanda, Norvegia) contro intere collettività di diversa fede e di diverso pensiero sono la conseguenza e insieme la condanna. Smarrito l’equilibrio delle democrazie parlamentari, le masse immesse nella vita degli
stati moderni, non riescono a trovare un nuovo ordine e procedono sinora, di crimine in crimine, di violenza in violenza, per una via di sicuro, quanto fatale e inarrestabile regresso della civiltà europea.


Avvenuto il feroce delitto Matteotti, riuscì l’opposizione, nonostante la rivolta della coscienza popolare, commossa per quel delitto, a scuotere la maggioranza della Camera e a far cadere il Governo? Riuscì almeno
a far insorgere il Senato, non ancora interamente fascista? No: anzi continuarono le due Camere a votare a grandissima maggioranza per Mussolini come prima del delitto, riuscì l‘opposizione, a sollevare il paese, come il fascismo aveva fatto nel 1922, in modo da indurre la Corona a prendere posizione contro il regime?
A sollevare la magistratura in una solenne e unanime dichiarazione di protesta?
La inerte secessione aventiniana condusse ad un punto morto di cui poté giovarsi il Governo rimasto padrone incontrastato della Camera e liberato da ogni critica. Disertare l’aula era un non senso che dava delle armi all’avversario. La campagna di stampa non poteva bastare. L’opposizione non volle combattere e vincere in Parlamento e non seppe trascinare le piazze. Così Mussolini, col pretesto di salvare nuovamente lo Stato, poté compiere il colpo di stato del 3 gennaio 1925 accusando gli avversari di voler paralizzare la vita della nazione.
Re Vittorio non poté agire perché non si trovò dinanzi ad un Gabinetto dimissionario, né dinanzi ad un voto di sfiducia di una delle due Camere. Per agire avrebbe dovuto compiere una violazione delle norme costituzionali, un atto d imperio che proprio la democrazia sarebbe in dovere di rimproverargli. Insomma, né il paese, né la Camera, né il Senato soccorsero il Sovrano che avrebbe avuto tutto l’interesse e il desiderio di disfarsi del dittatore. Il solo uomo politico che dopo il delitto Matteotti si mostrò disposto ad agire fu l'on. Cocco-Ortu, ex Ministro, il quale voleva far venire dalla sua terra di Sardegna 40.000 uomini per assalire il palazzo Chigi ove allora risiedeva Mussolini. Il disegno ardito fu inattuabile.
Nel suo libro: Stona di un anno (Mondadori, Milano. 1944) Mussolini registra la naturale tensione che si creò, per effetto di quel delitto, e soprattutto dopo il discorso del 3 gennaio 1925, tra il Quirinale e la Presideza del Consiglio «Da vent’anni scrive Mussolini il Re attendeva l’occasione propizia per liquidare il Fascismo».
Esattamente. Può essere doloroso che egli abbia dovuto attendere tanto, ma non gli si può addebitare la tenacia e la continuità nel proposito come una colpa». «I rapporti tra il Re e Mussolini - è il "duce" che scrive usando la terza persona come Cesare - non furono mai amichevoli». Ci fu tra i due sempre qualche cosa che non permise di arrivare a relazioni di vera confidenza. C’è da crederlo e senza dubbio il delitto Matteotti ebbe la sua profonda influenza nel determinare questo particolare stato d’animo nel Sovrano.
A pag. 74 del suo libro, Mussolini racconta: «Nel periodo dell’Aventino il Re resistette alle manovre dell'Aventino, ma non apparve soddisfatto dell’azione del 3 gennaio e delle 48 ore successive che videro nascere lo Stato totalitario. Fu quello il primo scontro della diarchia» (3).
In un certo senso, dopo il 3 gennaio 1925 il solo oppositore attivo del fascismo fu il Re.
Mussolini non avvertì il Re della gravità delle dichiarazioni che egli doveva fare quel giorno. Egli aveva domandato al Re (invano) il decreto di scioglimento della Camera con la data in bianco per ripetere in quell’occasione la manovra già compiuta nel 1923 al momento della votazione della legge Acerbo. Nel 1923 il Re aveva fatto al Presidente del Consiglio la concessione richiesta perché una nuova consultazione elettorale avrebbe potuto determinare un chiarimento della situazione e risultare favorevole alle opposizioni quando la legge Acerbo fosse stata bocciata. Ora il Re non volle porre la stessa arma nelle mani del Presidente del Consiglio perché egli attendeva un qualche spostamento nella maggioranza fascista che gli desse modo di licenziare il Capo del Governo.


(1) Le elezioni avevano avuto luogo il 6 aprile 1924
(2) Come si vede il comunismo non presumeva, allora, di essere una democrazia, sia pure progressiva.
(3)  Così chiamò Mussolini la condirezione dello Stato tra lui e il Sovrano

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