di Emilio del Bel Belluz
“Il cielo ricorda sempre ciò che la terra dimentica. La fragranza delle
rose nel vento offuscato: le forre sanguigne dove crescono ancora le querce: i
volti chini dal profilo nero nel sole della sera: la polvere vagante e le
solitarie parole degli uomini”. Earl Guy
Passeggio solitario per il Viale
della Rimembranza, lì vi sono degli alberi piantati cento anni fa. Quel luogo aveva un significato storico, ogni
albero era dedicato a un caduto della grande Guerra. Una maestra, che ricordo
sempre con affetto, mi diceva che ogni albero aveva una targhetta con il nome
del soldato che aveva donato la sua vita al Paese. Spesso mi sono chiesto
perché non si possano ricollocare queste targhette. Nella mia passeggiata
osservo le acque della piccola Livenza, sono circa cinquanta anni che mi godo
questo corso d’acqua. Attraccate al piccolo pontile vi sono alcune barche, in
passato vi era anche un piccolo peschereccio che era giunto da Caorle attraverso
il fiume. Ogni mattina lo osservavo,
alle sue spalle i grandi tigli che si stagliavano verso il cielo a ricordo dei
caduti in guerra.
Nella stagione autunnale, l’acqua si copre di foglie, creando
un tappeto multicolore. Il mio amico Paolino, che ha la passione della
fotografia, avrà sicuramente immortalato
questo spettacolo. Il viale della Rimembranza, con l’avvicinarsi del 4
novembre, sembra ancora più malinconico. A poche centinaia di metri vi sta il
ristorante più vecchio di Motta, posto vicino al fiume. Un tempo i barconi che
arrivavano a Motta trovavano un punto di ristoro. Dall’altra parte del
ristorante Disarò, vi stava una chiesetta, che ora è stata demolita. La ricordo
perché me ne parlò una donna e me ne mostrò una foto. Nel monumento ai caduti
posto all’entrata dell’asilo si trovavano due lapidi che ricordavano quelli che
erano morti nelle ultime due guerre.
Ora
chiunque passi davanti al monumento non ha più la possibilità di soffermarsi
per leggere e onorare quei soldati. Quanto sarebbe importante il poter
ricollocare quelle lapidi con i nomi dei caduti cent’anni fa. Mi torna in mente
una poesia di Eral Guy “ Il cielo
ricorda sempre ciò che la terra
dimentica”. La poesia rispecchia il mio
stato d’animo attuale. Una bella città come Motta di Livenza ha dimenticato
quei soldati. Mi chiedo a cosa serva porre una corona di fiori il 4 novembre,
se la gente non può leggere neppure un nome, di quei soldati che andarono a
morire a soli vent’anni. Incamminandomi verso la basilica dei miracoli, mi
viene in mente il tenente Giovanni Barbesti di Milano, ultimo caduto della
Grande Guerra, proprio davanti alla Basilica. Anche lui non ha una lapide che
lo ricordi. Durante la Grande Guerra la Basilica venne trasformata in ospedale,
e molti chiusero gli occhi nella casa della Madonna e quelli che si salvarono
non avranno mai dimenticato la loro degenza in questo luogo sacro.
Sulle pareti
della cripta, in alto, vi sono delle lunette dipinte, tra cui vi è una che
rappresenta la celebrazione della Vittoria della Grande Guerra, vi sono
raffigurati dei soldati che festeggiano la fine delle ostilità sventolando
delle bandiere ed in una manca lo stemma
sabaudo. I soldati della Grande Guerra andarono a combattere con la bandiera
del Re, allora regnava Vittorio Emanuele III, il Re soldato. In una pagina
dell’Avvenire dell’1 ottobre 2015, Nazareno Giusti, su Vittorio Emanuele III
scriveva: “ Il Re soldato usciva presto al mattino su una macchina scoperta per recarsi verso il
fronte. Spesso, saliva sulle alture da cui, con i binocoli, osservava la
situazione sull’Isonzo e poi scattava, scattava foto con la sua Kodak. Il
sovrano amava fumare il sigaro che spesso offriva ai soldati e poi si riempiva
le tasche di cioccolatini che dava ai bambini. I suoi pranzi e le sue cene
erano parchi: un po’ di carne fredda, uova, pane e acqua. Alla sera c’erano gli
incontri con gli attendenti e i
comandanti davanti al fuoco. Poi, andavano a letto. Avveniva, allora, un
momento di intensa comunione con i soldati : il Re dormiva infatti in una
branda militare. E lo fece, va detto, per tutta la durata del conflitto. Il Re
andò ad abitare nei pressi di Udine, a Torreano di Martignacco, in quella che
verrà poi rinominata “ Villa Italia” e che fu centro di incontri
internazionali: vi giunsero il presidente della repubblica Francese, il
principe di Galles ma anche Nicola di Montenegro, “il Re pastore”, che,
sparito, fu ritrovato assieme ad alcuni avventori in una osteria”. Penso a
questo conflitto che costò alla Nazione quasi ottocentomila morti e circa
seicentomila feriti. Una guerra che fu lunga e difficile e che disseminò morte
e distruzione.
Una mostra onorerà a Motta di Livenza i suoi caduti. Il
manifesto raffigura parzialmente ciò che si potrà vedere nella mostra: un
elmetto della Grande Guerra, delle lettere scritte dai soldati, una penna con
vicino l’inchiostro e un paio d’occhiali accanto ad una rosa rossa. La guerra
può essere rappresentata anche da questi pochi oggetti. Ancora mi viene in
mente una poesia che scrisse l’ufficiale Austriaco Walther Maria Neuwirth.
Questo ufficiale aveva scritto in un suo libro il periodo trascorso a Motta di
Livenza durante la guerra. Ai tempi dell’università mi capitò tra le mani
questo vecchio libro con la copertina molto logora. Questo volume era stato
pubblicato da una casa editrice molto nota allora, e si snodava in circa
duecento pagine di ricordi. Avvertii uno scrittore che viveva a Vienna e con il
suo aiuto venne rintracciato l’autore del libro, quasi centenario. Trovai
successivamente la Casa Editrice Hefti
che ristampò questo libro, prefatto da me e da Eugenio Bucciol. Assistiti dalla
fortuna riuscimmo a far venire il centenario a Motta di Livenza dove presentò
questo libro: Isonzo Piave e Montello. Osservando il foro dell’elmetto raffigurato
sulla locandina che pubblicizzava il libro, ripensai ad una poesia che scrisse
per un soldato nemico Walter Maria Neuwirth.
E’ la prima volta che trovo una poesia dedicata da un soldato al proprio
nemico caduto in guerra.
UN CESPUGLIO DI ROSE
Un cespuglio di rose secche
adorna la fossa, abbandonata e
quieta,
di un nemico. Monotona sferraglia
la colonna di carriaggi
sull’interminabile strada.
Ogni tanto solo s’alza la bestemmia
di un conducente greve di sonno
che strattona gli stanchi cavalli.
Le alte ruote sprofondano.
Sospinte dal vento della sera
cupe nubi inseguono incessanti il
convoglio.
Mi curvo sulla piccola croce
per decifrare il nome straniero,
appoggiato al fucile,
bruno di ruggine,
conficcato nella terra per
ornamento.
Vi pende, ammaccato,
il verde elmetto del morto
e tra i fori fruscia il vento.
La pioggia sottile lo investe
ed è come un sommesso lamento del
destino
“Riposa in pace, quieto mio nemico.
Io devo proseguire, chissà per
quanto ancora.
A primavera rifiorirà la tua pianta
di rose.
Forse un giorno verrà la ragazza
che ora ti piange e inconsciamente
staccherà una rosa imbevuta di
sangue”.
Quando venne a Motta il centenario Walther Maria
Neuwirth, ebbi il piacere di trascorrere
con lui alcuni giorni a Villa Luppis, e dalle nostre conversazioni trovai
l’ispirazione per scrivere i libri: Da Vienna al Livenza e il Reduce. Mi è caro ricordarlo, come mi è caro ricordare
tutti quei soldati mottensi che morirono durante la Grande Guerra. Alcuni anni
fa, rimasi commosso che un mottense trascrisse tutti i nomi dei caduti della
Grande Guerra sulla bandiera italiana affinché ne rimanesse il ricordo e ne
fece dono al comune di Motta.
La storia non può dimenticare
quelli non hanno una croce, il cui nome solo Dio conosce. La mostra si è
prefissata lo scopo di ricordare tutti i caduti nel centenario dall’ingresso
dell’Italia in guerra. Nella mostra è stata ricostruita una trincea, dove i
soldati dovettero lottare con tutte le loro forze per mantenere le posizioni.
Molti di loro morirono, in modo eroico.
Nella mostra è stata allestita
anche una ricostruzione di un piccolo ospedale da campo. Con magistrale impegno
sono sati recuperati degli strumenti chirurgici di quasi cento anni fa, forse
rimasti sepolti nella terra bagnata dal sangue di chi era morto. Osservando
questa postazione di primo soccorso, mi è ritornata alla mente una storia realmente accaduta tra due soldati nemici,
entrambi feriti.
La storia che vado a trascrivere
induce a riflettere che la guerra non è solo odio. – Fratelli – “ Nell’angolo
di sinistra ho ritrovato, appena sepolti, proprio accanto, due soldati medicati
l’altra sera: un sardo e un austriaco. Si erano incontrati sull’estremo ciglio
della trincea e si erano lanciate l’uno contro l’altro tutte le bombe che
teneva nel tascapane… caddero, uno accanto all’altro, boccheggianti nel sangue.
eppure ancora stringevano il pugno, ancora digrignavano i denti e si insultavano a vicenda. I
portaferiti li raccolsero e me li portarono al posto di medicazione, dove li
curai in fretta e li caricai ambedue sulla stessa ambulanza; nella barella di
sopra collocai il sardo, in quella di sotto il tedesco. Costui, che aveva gran
sete, chiese da bere; ma lo chiese in tedesco; e il sardo che stava sopra,
sentendo quella lingua aborrita, si rimescolò tutto e si frugò in tasca per
cercare se avesse ancora una bomba da lanciare contro il nemico che stava lì
sotto. Allora il tedesco ebbe una ispirazione e disse un’altra parola, una
parola che non era né tedesca, né italiana, né francese, che tutti capimmo;
disse: “ Gesù”. Sentendo il nome Santo di Cristo, il soldato sardo si contrasse
nervosamente; i suoi occhi, che prima sprizzavano odio, io li vidi riempirsi di
lacrime poi si frugò in tasca, afferrò qualche cosa, abbassò la mano ripiena
verso il nemico e lasciò cadere un oggetto… ebbi paura che fosse una bomba e
guardai: era un limone!
L’ultimo ristoro che teneva,
l’ultima stilla di vita che portava con sé, volle cederla al nemico, contro il
quale poco prima avrebbe voluto lanciare una bomba! Quel ragazzo aveva capito
una gran cosa. Aveva compreso che al di sopra dei nostri odi e delle nostre
lotte nel nome santo di Cristo, stava ancora bella e intatta la grande
solidarietà umana, la santa fratellanza cristiana!” Zona di guerra, 12 giugno
1917 Cesare Bonini. Nella mie letture ho cercato la narrazione di episodi come
questo e gli ho dato la giusta rilevazione storica. Durante la guerra i
soldati, anche se nemici, non smisero di sentirsi fratelli ed uniti dalla figura
di Gesù Cristo. Nella mostra c’è anche la ricostruzione di una baracca in i
soldati aspettano gli ordini dei superiori e nel frattempo alcuni di loro
scrivono ai loro famigliari.
Dopo la guerra vennero pubblicati
molti diari e lettere dal fronte, e racchiudevano una grande umanità e
spiritualità. Una di queste lettere è
stata scritta da Enzo Valentini, volontario a 18 anni:” 3 ottobre 1915. “ Da
due giorni il cannone tace. La montagna dorme nel suo silenzio e nel suo candore, terribilmente bella. Fino a poco fa ci pareva di conquistarla
contro un nemico che ce la contrastava, oggi sentiamo che noi non conquistiamo,
né gli austriaci difendono la montagna, ma la montagna tollera noi e loro. La
neve discesa dal cielo su noi e sui nostri nemici… Il grande silenzio ha vinto
il frastuono”. Le dure ore di attesa sono interminabili e nel frattempo i
soldati pregano, scrivono a casa, il loro pensiero è sempre rivolto alle
persone care che attendono loro notizie. Il richiamo al dovere e alla patria è
immenso, anche se turbato dal timore di non poter rivedere spuntare la nuova
alba. In montagna, le baracche vengono riscaldate dal sole solo qualche ora al
giorno, il freddo è un altro nemico da combattere.
Mi commuovo nel leggere la lettera
scritta dal soldato diciottenne. La guerra ha forgiato il suo cuore, e
rafforzato la sua tenacia, per lui quella guerra non poteva essere perduta,
e tutti davano il loro contributo di
forza e di sangue. Sicuramente non
poteva mancare nei suoi pensieri la presenza del Signore. Si dice che in
montagna si senta di più la vicinanza del Signore, essendo facilitati dal
silenzio, la meditazione e il
raccoglimento in se stessi. Questo
soldato è uno dei giovani nati nel 1897 e le sue parole hanno il sapore della
saggezza. Credo che in guerra si sia portato un semplice quaderno per
scrivere, per annotare quei momenti per
lui così importanti.
Lo scrivere significava allontanarsi per qualche istante dalle
brutture della guerra e ricongiungersi al calore dei propri cari. Con l’elmetto
calato sulla testa, con il fucile accanto, assieme ad altri soldati e con la
consapevolezza che ogni attimo di vita è importante perché potrebbe essere
l’ultimo. Lo stesso soldato diciottenne scriveva: “16 settembre 1915, ad una
signorina. “Una imperturbabile serenità regna dentro di me: è questa la mia
forza, quella che mi sostiene in questa guerra di sacrifici quotidiani, in cui
più del coraggio è necessaria la dura volontà, la pazienza e la resistenza”. 24
luglio 1915 alla madre. “Ti scrivo dalla penombra della baracca di legno, che è
ora la mia casa, mentre fuori piove sulla montagna attediata di nebbia. Naturalmente nella regione dello
spirito, in cui vivo da tempo, la pioggia e la nebbia non hanno nessuna influenza,
anzi per contrasto il sereno è più smagliante”. 28 agosto, alla madre. “ La
vita che ho fatto finora, non mi ha per nulla demoralizzato, e i disagi e le
fatiche, cozzando contro la mia volontà immutabile, come le onde contro lo
scoglio, non la fanno né tremare né vacillare. … Dopo la guerra, la dolce erba
dei prati invaderà i cammini, le piogge attenueranno i solchi profondi delle
trincee, che si copriranno di fiori, e della grande guerra null’altro apparirà
che qualche ruga e qualche incavo sul dorso del monte, e qualche frammento di ferro
corroso, che la mucca del lento andare urterà con il piede pacifico”. Queste
sono intense pagine di eroismo, dettate da un cuore nobile, un cuore che si
dona alla patria. “ Alla morte era già
pronto. Il 27 giugno aveva già scritto il suo testamento, in cui prendeva
congedo dalla madre” Sii forte, mammina; dall’aldilà, ti dice addio a te, a
papà, ai fratelli, a quanti mi amarono, il tuo figlio che dette il suo corpo
per combattere chi voleva uccidere la luce”. Venne il giorno in cui la guerra
si ridestò anche nel settore agordino. Enzo Valentini uscì all’assalto con la
sua compagnia. Doveva traversare un vasto tratto di valle per giungere alla
trincea nemica. Correva dinnanzi a tutti. Una pallottola lo colse, e abbatté
davanti alla montagna impassibile il giovinetto poeta che l’aveva fusa col
momento sublime del suo cuore”. Adolfo
Modeo - Da momenti della vita di guerra-
La morte colse questo soldato nel fiore degli anni, forse anche la sua
tomba sarà adornata da un cespuglio di rose rosse selvatiche. La vita di questo
soldato verrà ricordata per sempre nel cuore
dalla madre come un fiore che è stato reciso prima del tempo. Il soldato
ha bagnato con il suo sangue la terra della nostra amata patria. “ Tutti avevano
la faccia del Cristo nella livida aureola dell’ elmetto. Tutti portavano
l’insegna del supplizio nella croce della baionetta , e nelle tasche il pane
dell’ultima cena, il pianto dell’ultimo addio. (Poesia rinvenuta nelle tasche
di un soldato caduto sulle Dolomiti).
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