NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

sabato 16 novembre 2024

Saggi storici sulla tradizione monarchica - X


 

5). — LE DOMINAZIONI STRANIERE

Con la discesa di Carlo VIII inizia per l'Italia il periodo delle dominazioni straniere e dell'influenza delle nazioni europee sulle sorti della penisola. Carlo VIII re di Francia volle con la sua spedizione rivendicare i diritti angioini sul regno di Napoli e conquistato il territorio, ottenne da Alessandro VI papa, l'investitura del regno (1495) che però perdette non appena ebbe fatto ritorno in Francia, combattendo contro l'esercito dei principi italiani che tentarono di sbarrargli la strada. Il suo progetto di affermare la potenza francese in Italia fu però ripreso dal suo cugino e successore Luigi XII i cui piani furono di conquistare non solo il regno di Napoli, ma anche il ducato di Milano come erede dell'ultima dei Visconti, Valentina. Ai suoi tentativi, in parte riusciti, si oppose il Papa Giulio II che si pose a capo di una Lega santa insieme a Venezia e alla Spagna, e al grido di fuori i barbari inflisse ai francesi gravi sconfitte. La politica di questo papa, volta ad impedire la preponderanza francese, fu però origine di molte guerre che devastarono il suolo italiano, facendolo percorrere da soldatesche di tutti i paesi.

Tristi anni furono quelli che seguirono in cui l'Italia fu campo di battaglia fra Francesco I re d i Francia e Carlo V che dal nonno paterno, l'imperatore Massimiliano aveva ereditato la corona germanica e dalla madre, figlia di Ferdinando il Cattolico, il regno di Spagna. Nel 1527 la stessa Roma fu presa d'assalto ed espugnata dalle milizie imperiali e mentre il Papa Clemente VII alleato dei francesi restava chiuso in Castel Sant'Angelo, la città fu messa a sacco e sottoposta alle più atroci violenze, degne del confronto con quelle di Alarico e di Genserico nell'epoca delle dominazioni barbariche.

La pace di Cambrai, firmata nel 1529, fra francesi e austrospagnoli, sanzionava la rinuncia dei francesi ad ogni pretesa su Napoli, su Milano e su ogni altro territorio Italiano e segnava l’inizio della  preponderanza spagnola in Italia, mentre Francesco  II Sforza otteneva dall'imperatore l'investitura del Ducato di Milano e Cosimo del Medici quella della Toscana con il titolo di Duca, poi divenuto di Granduca. (1) Si verificava intanto un avvenimento religioso che ebbe ripercussione in tutto il mondo: la cosiddetta riforma protestante dava origine ad una nuova chiesa, quella luterana in ribellione all'autorità del Papa
sostenendo affermazioni teologiche contrarie all'ortodossia cattolica.

Alla nuova chiesa subito divisasi in molte sette aderirono gran parte dei principi minori della Germania e in seguito l'Inghilterra dove si formò una chiesa nazionale, detta appunto anglicana. La Chiesa Romana reagì energicamente attraverso la riforma cattolica, che ebbe la sua più alta espressione nel Concilio di Trento ove venne tracciata la configurazione disciplinare della Chiesa quale è oggi ancora in vigore.

Mentre le guerre di religione, fra protestanti e cattolici, insanguinavano l'Europa, l'Italia non ebbe guerre di religione e rimase ferma nell'ortodossia cattolica; dopo la pace di Cateau Cambrésis, che nel 1559 pose fine ad un ennesimo tentativo francese di infrangere il predominio spagnolo, essa fu ridotta a nove stati principali, oltre ai minori di poca o nessuna importanza; tali stati erano: il ducato di Milano, regno di Napoli con Sicilia e Sardegna e lo stato dei presidii (piccola terra fra il Lazio e la Toscana) tutti dipendenti dalla Monarchia spagnola, rappresentata da Filippo II figlio di Carlo V; la repubblica di Venezia, che estendeva i suoi dominii fino alla Dalmazia e alle isole di Cipro e di Creta (detta anche Candia); Genova con le due riviere e la Corsica; il marchesato di Monferrato e il ducato di Mantova sotto i Gonzaga; il ducato di Parma e Piacenza, che era stato staccato dai feudi della Chiesa e conferito ai discendenti di Papa Paolo III Farnese; il ducato di Ferrara, Modena e Reggio sotto gli Estensi; la Toscana soggetta, tranne la piccola repubblica di Lucca e lo stato dei Presidi, ai Medici Granduchi di Toscana; lo Stato pontificio e infine il ducato di Savoia, comprendente oltre questa regione, il territorio fra la Sesia e le Alpi.

Nuovo ruolo assunse in quell'epoca questo stato che iniziò allora una sua politica italiana. Fra i successori di Amedeo VIII, si distinse in maniera eccezionale Emanuele Filiberto che fu il secondo fondatore della grandezza della sua Casa; salito al trono nel 1553, mentre i suoi territori erano invasi da francesi e spagnoli, si mise a capo delle truppe della Spagna e riportò la grande vittoria di S. Quintino; con la pace di Cateau Cambrésis, riebbe il suo stato che egli restaurò abbellì, decorandolo di opere e di istituti di cultura, incrementando le scienze, le arti, le lettere, l'agricoltura e il commercio. Sotto Emanuele Filiberto lo stato posto a cavaliere fra l'Italia e Francia, divenne decisamente italiano in ogni sua espressione e sarà il figlio Carlo Emanuele I a vagheggiare una liberazione dell’Italia dagli stranieri e una riunione di Stati sotto il suo scettro. (2)

Il XVII secolo, che vide l'Europa immersa nella guerra dei trenta anni, durata dal 1618 al 1638, non mutò sostanzialmente la situazione italiana, ma consolidò ed ampliò la potenza sabauda che trasse van­taggi dalla lotta fra imperiali e francesi, alle volte drammatica e ric­ca di innumerevoli episodi, fra i quali l'assedio di Torino dove la reg­gente e madre del duca Carlo Emanuele II dovette, con l'aiuto fran­cese, difendersi dagli spagnuoli che appoggiavano una fazione detta dei principisti, dai due principi Tomaso e Maurizio di Savoia zii del Duca, che avrebbero voluto sostituire la cognata nel governo dello stato. (3)

Un po' di tranquillità tornò in Europa con la pace di Westfalia

(1648), anche se Francia e Austria continuarono a combattersi, ma le armi furono nuovamente riprese per la successione spagnola. Ancora una volta l'Italia fu campo di battaglia e la pace di Utrecht che se­gnò la fine della guerra nel 1714, fu anche il principio della supre­mazia austriaca nella penisola; venivano infatti attribuite all'Austria la Lombardia, la Sardegna, il regno di Napoli e Mantova. Vittorio Amedeo II, duca di Sardegna, otteneva il Monferrato e la Sicilia con il titolo di Re, ma fu poi costretto a cederla all'Austria in cambio della Sardegna, e Re di Sardegna da allora fu il titolo principale dei capi di Casa Savoia.

Un ennesimo mutamento territoriale subì l'Italia alla pace di Vienna nel 1738, dopo la guerra di successione polacca: la Lombardia e il ducato di Parma e Piacenza venivano assegnate all'Austria; il regno di Napoli con la Sicilia a Carlo di Borbone; la Toscana, in segui­to all'estinzione della dinastia medicea, passava ai duchi di Lorena. Nulla riceveva il Re Carlo Emanuele III di Sardegna che pure era sta­to valido alleato dei vincitori, ma dieci anni dopo la Pace di Aquisgra­na che pose fine all'ultima delle guerre di successione, quella austriaca gli riconobbe il possesso dei territori fra il Po e il Ticino e fra il Po e Voghera; il ducato di Parma e Piacenza passava dall'Austria a Don Filippo Farnese Borbone, fratello di Carlo III di Napoli e l'Europa godeva di quarant'anni di pace prima di una nuova terribile tempesta.


(1) La pace di Cambrai fu anche detta delle « due dame » perché negoziata da Margherita d'Austria zia di Carlo V e da Luisa di Savoia madre di Francesco I.

(2). Carlo Emanuele I fu, fra i principi sabaudi uno dei più compresi della sua missione di restauratore della nazione italiana; allorquando l'ambasciatore spagnolo gli intimò di restituire le terre del Monferrato, da lui conquistate, egli rispose strappandosi dal petto il collare del Toson d'oro, la massima onorificenza absburgica, e gettandola ai piedi dell'incauto ambasciatore. In punto di morte, non volle ricevere il Viatico a letto e, alzatosi vestito degli abiti ducali, esclamò: «Dio non voglia che accolga nel letto un tanto Re!». 

(3) L'assedio di Torino fu uno dei più singolari della storia consistendo in tre assedi concentrici  infatti le truppe della fazione dei principisti occupavano Torino assediando la cittadella ove si era rinchiusa madama reale Maria Cristina . Le truppe francesi giunte in aiuto di Madama Reale, assediavano ed erano a loro volta circondate da quelle spagnole che sostenevano i principisti.


lunedì 11 novembre 2024

Roma, visita al Museo Montemartini

 



Siete cortesemente invitati a un Nostro 

Incontro di Studio e di Ricerca

dedicato al Patrimonio Storico Italiano, 

con particolare attenzione alla Storia del Regno d'Italia.

 Invito MUSEO CENTRALE MONTEMARTINI
Il Museo si presenta in un luogo di sintesi eclettica

tra archeologia industriale e architettura neoclassica,
monumentalità e funzionalità.
Il percorso espositivo mette in luce il dialogo straordinario
tra macchina moderna e archeologia classica,
produttività e bellezza.
Incipit del Processo di Modernizzazione di Roma Capitale d’Italia.
DOMENICA  MATTINA   17  NOVEMBRE  2024  ORE 10
VIA  OSTIENSE  106  (Ingresso  Museo)  ROMA
GRATUITO CON CARTA MIC    
La puntualità è cosa gradita
   PRENOTAZIONE OBBLIGATORIA
In ALLEGATO ulteriori informazioni e le modalità di partecipazione.
Cordialmente.
         Prof. Massimo Fulvio Finucci e D.ssa Clarissa Emilia Bafaro





domenica 10 novembre 2024

Saggi storici sulla tradizione monarchica - IX



4) — IL RINASCIMENTO

Il ritorno del Papato a Roma, avvenuto con Gregorio XI nel gennaio del 1378 anziché sanare definitivamente la situazione della Chiela la inasprì, provocando il grande scisma d'Occidente; infatti il dualismo fra francesi e italiani esistente nella curia, sboccò nella creazione di un antipapa Clemente VII contro i legittimo Pontefice Urbano VI e tale situazione si prolungò per molti anni attraverso una successione ininterrotta di papa e di antipapi, finché un concilio riunito a Costanza Pisa, deposti l’antipapap Benedetto XIII e l’antipapa Giovanni XXIII, ricevuta la rinuncia del Pontefice Gregorio XII procedette  all’elezione di Martino V della grande famiglia romana dei Colonna, che rientrò in Roma, riconosciuto da quasi tutta la Cattolicità, e dall'imperatore Sigismondo. (1417-18)

Enorme fu l'influenza esercitata da questo avvenimento sulla storia europea e particolarmente italiana; alle lotte fra i sostenitori delle due obbedienze, parteciparono i principi italiani e più di tutti la dissoluta Giovanna I di Napoli che, passando a terze e quarte nozze, tentava di

conservare il regno nonostante le sue nefandezze e i suoi delitti. Ma scomunicata da Urbano VI che offerse il regno a Carlo di Durazzo, principe ereditario d'Ungheria, fu da questi vinta e uccisa; Carlo III dovette per questa impresa tener testa al rivale Luigi d'Angiò che gli era stato contrapposto dall'antipapa Clemente VII e riuscì a vincerlo, ma tornato in Ungheria per prendere anche quella corona, fu assassinato lasciando erede del trono di Napoli il piccolo Ladislao. (1386)

Pieno sviluppo assumeva intanto l'ascesa della Casa di Savoia la cui potenza si veniva rafforzando; la dinastia aveva acquistato nuovo prestigio sotto Amedeo V il grande che aveva avuto parte principalissima negli avvenimenti della prima metà del XVI secolo, e sotto i successori Amedeo VI e Amedeo VII il « conte verde » e il « conte rosso» il primo dei quali portò la guerra in Oriente in difesa dell'imperatore bizantino Giovanni V Paleologo e fu il fondatore dello storico ordine del Collare, detto poi della SS. Annunziata (*).

Il figlio di Amedeo VII, Amedeo VIII, conquistò la contea di Ginevra e il Vercellese ed ottenne dall'imperatore Sigismondo nel 1416 il titolo di Duca che da allora decorò i sovrani sabaudi. Egli fu restauratore delle finanze dello Stato e sapiente amministratore, ma l'opera sua veramente grande fu la riforma generale giuridica attuata nel 1430 con la prormulgazione degli Statuti che durarono in vigore fino alla riforma dei codici di Carlo Alberto quattro secoli dopo. Dopo molti anni di regno si Riritirò nel castello di Ripaglia, dove fondò l'ordine di S. Maurizio,    intervenendo come mediatore e pacificatore nei più delicati problemi di politica europea e tanta fu la sua fama, che il cosiddetto concilio di Basilea,       che si era sottratto all'obbedienza al pontefice Eugenio IV, ben presto ne fece !l suo antipapa col nome di Felice V. Amedeo accettò, si accorse di detenere un potere non suo e dopo nove anni abdicò nelle mani del pontefice Nic­colò V, che lo creò Cardinale, e tornò nei suoi stati dove poco dopo, nel 1451, morì.

Con Amedeo VIII la Casa Sabauda divenne una delle dinastie più potenti della penisola, anche se maggior ruolo avevano ancora i Visconti e gli Angioni di Napoli; gli ultimi anni del XIV secolo e i primi, del XV registrano appunto un tentativo egemonico di Giangaleazzo Visconti primo Duca di Milano, l'ambizioso sogno del quale fu troncato nel 1402. Successivamente fu Ladislao re di Napoli che fallito il progetto di assicurarsi la corona ungherese tentò di estendere i propri domini nell'Italia centrale approfittando, della confusione generata dallo scisma, mentre la Sicilia dopo la morte dell'ultimo aragonese siciliano e le molte discordie dalla successione provocate, veniva riunita con l'Aragona, sotto lo scettro del Re Ferdinando.

Nel corso del XV secolo alcuni cambiamenti si verificarono nella penisola, mentre in Oriente l'antico impero cadeva definitivamente con l'ingresso dei turchi in Costantinopoli e con l'eroica morte in battaglia dell'ultimo imperatore, Costantino XII Paleologo (29 maggio 1453); i principati italiani spesso vennero in lotta fra loro, mentre a Milano gli Sforza sostituivano i Visconti e a Napoli, in seguito alla morte senza figli della regina Giovanna II, gli Aragonesi prendevano il posto degli Angioini.

Dopo la pace di Lodi fra i vari Stati italiani (1454), l'Italia godette di un quarantennio di pace che fu singolarmente propizio allo sviluppo della civiltà rinascimentale, che in Italia ebbe la sua culla. Gli aspetti principalissimi del Rinascimento si riassumono nella rivalutazione della personalità dell'uomo e dei valori dell'intelletto umano, di fronte ai valori della trascendenza e nel ritorno appassionato, nel campo dell'esegesi letteraria e delle arti figurative e filologiche, all'antichità classica, greca e romana. Le corti principesche furono i centri della cultura della rinascenza, e nel loro splendore fiorì questo aspetto della civiltà italiana.

 

Alla fine del secolo la configurazione politica dell’Italia presentava cinque grandi stati: Milano, Firenze in cui signoreggiavano i Medi con Cosimo il Vecchio e Lorenzo il Magnifico; lo Stato Pontificio; il Regno di Napoli, e la repubblica oligarchica di Venezia. Seguivano i ducati di Savoia e di Ferrara, la signoria di Piombino, le piccole repubbliche di Genova Siena e Lucca , e alcuni feudi minori imperiali o pontifici tra cui Urbino eretto in ducato dal Papa per i Montefeltro. Come si vede in un mosaico in cui vari interessi anche contrastanti entravano talvolta in dipendenza di interessi delle grandi monarchie straniere; però già si cominciava a parlare di Italia e le menti  profonde dei grandi politici da Macchiavelli a Guicciardini, cominciavano a elaborare il concetto dell’Unità per la penisola, cercando intorno i principi capaci di realizzare un progetto che molti avevano accarezzato, ma che nessuno era stato capace di portare a compimento.

 

(*) Il Conte Verde fu singolare figura di cavaliere e di signore dell'epoca sua: campione della cavalleria, secondo l'uso del tempo fondò l'ordine «della collana o del collare» trasformato poi nell'ordine supremo della SS. Annunziata, composto di quindici cavalieri, in memoria dei misteri del Rosario, che ebbero il grado di cugini del Sovrano. Attualmente i cavalieri dell'ordine possono essere ventuno, non contando nel. numero il Sovrano, i principi della Casa Reale, gli ecclesiastici e gli stranieri.


Elena di Savoia: la Regina dei dimenticati




 

Milano 14 Novembre 2024
Con Luciano Regolo e Silvia Stucchi 

Per oltre 20 anni Luciano Regolo ha condotto ricerche su Casa Savoia e ora riporta in libreria, interamente rivista e arricchita, la biografia della Regina Elena. Il libro contiene numerosi inediti e si fonda su fonti di prima mano, consultate col permesso della famiglia reale, come un epistolario di Elena, autografi di Vittorio Emanuele III, l’Archivio Olivieri, segretario della Regina, e l’Archivio Jaccarino, le testimonianze di Nicola Romanoff e di Simeone di Bulgaria. Ne risulta un ritratto particolareggiato della seconda sovrana d’Italia, di cui si sottolinea l’anima montenegrina. Dall’infanzia a Cettigne nel calore della famiglia Petrovich Njegosh alla giovinezza a Pietroburgo dove fu corteggiata dal futuro presidente della Finlandia Mannerheim e candidata alle nozze con lo zar Nicola II. L’incontro con Vittorio Emanuele avvenne a Venezia nel 1895 e tra i due si instaurò un’intesa fra le più riuscite nella storia delle dinastie reali europee. Aneddoti brillanti, nuove rivelazioni sulla vita privata e pubblica, le passioni per la musica, la poesia, la medicina, ma anche la cucina, la pesca e la fotografia, l’infaticabile impegno nel sociale e il sostegno allo sviluppo della sanità ci restituiscono l’immagine di una donna vitale, intelligente e curiosa, madre e regina consapevole e premurosa. Ma rivivono in queste pagine anche i rapporti con i protagonisti di un’epoca: Mussolini, Hitler, o don Orione e il futuro papa Giovanni XXIII. L’autore danza magistralmente tra vita pubblica e il dietro le quinte confermandosi giornalista e ricercatore caparbio col rigore dello storico e la freschezza del narratore. 

Edizioni Ares

Book city Milano 11-
17 Novembre2024

Al Castello di Vinovo una mostra sulla Regina Elena e la principessa Mafalda

 



Sabato 9 novembre l’Associazione Amici del Castello, in collaborazione con il Comune di Vinovo, presenta la mostra “Regina Elena e Principessa Mafalda” al Castello della Rovere. La mostra sarà aperta tutti i sabati e le domeniche con orario 10-12 e 14:30-19 fino al 1 dicembre.

Questo sabato appuntamento al Castello della Rovere di Vinovo per la presentazione della nuova mostra dedicata alla Regina Elena e alla sua secondogenita Principessa Reale Mafalda di Savoia.

Il progetto espositivo, promosso dall’Associazione Amici del Castello con la collaborazione del Comune di Vinovo, è a cura dell’Associazione Internazionale Regina Elena Odv con il Coordinamento Sabaudo.

Durante l’inaugurazione di sabato 9 novembre, ore 10, sarà presente anche il dottor Luciano Regolo, Condirettore dei settimanali della San Paolo Periodici “Famiglia Cristiana” e “Maria con te”, nonché Presidente del Comitato per la beatificazione della Regina Elena. Per l’occasione presenterà il suo libro “La Regina Elena. Una vita all’insegna dell’amore”, pubblicato nel maggio di quest’anno da Edizioni Ares.

L’esposizione, allestita al piano nobile del Castello, permetterà al pubblico di ammirare oggetti unici che provengono dalla collezione del Cav. Pierangelo Calvo, Vice Presidente dell’Associazione Internazionale Regina Elena Odv, e da collezionisti privati, tra i quali Luigi Corino, fondatore del Museo Fotografico di Isola d’Asti, che presenterà numerosi strumenti ottici ottocenteschi e preziose macchine fotografiche d’epoca, e il Museo della Cartolina di Busca.

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Fonte: Il Carmagnolese

venerdì 11 ottobre 2024

“La Granda”, un’eccezione monarchica

 


Al voto in affanno

 

Al referendum istituzionale del 2-3 giugno 1946 la monarchia prevalse nettamente nell’Italia meridionale, nelle isole e nel Lazio mentre la repubblica vinse con ampio vantaggio in Toscana, Umbria, Marche, Emilia e nell’Italia settentrionale. Per una riflessione pacata su quei risultati occorre partire dal suo panorama generale. Il primo repertorio ufficiale dei voti espressi al referendum monarchia/repubblica e nell’elezione dell’Assemblea Costituente venne pubblicato quasi due anni dopo, in vista delle elezioni politiche del 17-18 aprile 1948, quando tanti malumori per l’esito del referendum, palesemente manipolato, erano stati sopiti o, se si preferisce, repressi.

 

Secondo i computi più attendibili, che fanno perno sui dati demografici del 1938, gli aventi diritto al voto nella consultazione del giugno 1946 erano circa 28.000.000. Alle urne andarono in 25.000 000. Tre milioni di elettori non poterono votare per diversi motivi. Gli abitanti dell’intera XII Circoscrizione elettorale (Venezia Giulia, Istria, Fiume, Zara…) e quelli dell’Alto Adige (o Sud Tirolo, come dicevano gli austriacanti) furono esclusi dalle urne perché quelle terre erano “inquiete”, ovvero “sub judice” sino al Trattato di pace che il 10 febbraio 1947 fu dettato all’Italia in Parigi dalle 18 Potenze vincitrici. Il Decreto legge luogotenenziale (Dll), voluto dal governo presieduto da Alcide De Gasperi e firmato da Umberto di Savoia, principe di Piemonte, Luogotenente di Vittorio Emanuele III dal 5 giugno 1944, promise che gli elettori esclusi sarebbero stati consultati più tardi, il che non avvenne mai più: un brutto vulnus, che cozza con l’art. 139 della Carta.

 

Un cospicuo numero di cittadini furono interdetti perché fautori conclamati del passato regime, che, come noto, era stato approvato dagli elettori nel 1924, 1929, 1934 e che nel 1939 aveva persino fatto a meno del voto. Gli bastavano le piazze piene di italiani plaudenti, come ricorda Ugoberto Alfassio Grimaldi in “10 giugno 1940. Il giorno della follia” (Laterza). La Costituzione repubblicana, in vigore dal 1° gennaio 1948, vietò la riorganizzazione sotto qualsiasi forma del partito fascista e l’esclusione dal voto dei “capi responsabili del regime fascista” per non più di un quinquennio dall’entrata in vigore della Carta costituzionale. Ma il regime non era stato solo di gerarchi. Fu una spugna che si imbevve e rilasciò, dai cacumini ai sottoscala.

 

Nel 1946 il voto fu negato non solo su indicazione politica. Nel caos ancora dilagante negli uffici comunali – soprattutto nelle regioni settentrionali, dove i regimi si erano alternati convulsamente: Regno d’Italia, Repubblica sociale italiana, ritorno del Regno in regime di costituzione provvisoria in forza del Dll 25 giugno 1944, n. 151 che rimise ai cittadini la scelta della forma dello Stato – un numero di elettori imprecisato ma sicuramente alto non ricevette il certificato elettorale per motivi burocratici mentre altri ne ebbero due. Le tessere elettorali di Vittorio Emanuele e della Regina Elena, partiti dall’Italia il 9 maggio per l’abdicazione del re, vennero recapitate al Quirinale, a conferma che non erano “esuli”, privati dei diritti politici, ma cittadini di pieno diritto. Vittorio Emanuele lo rimase sino alla morte, il 28 dicembre 1947, quattro giorni prima che la Costituzione, entrata il vigore il 1° gennaio 1948, vietasse loro rientro e soggiorno in Italia, come avvenne per Umberto II, la Regina Maria José e il loro figlio Vittorio Emanuele, alla nascita creato dal nonno principe di Napoli. Molti di quanti non ricevettero la tessera elettorale non si premurarono di chiederla nel timore di vedersela negare per motivi politici, con tutte le possibili conseguenze pubbliche e private; altri perché, per cause belliche o d’altra natura, erano irreperibili.

 

Infine non poterono votare le centinaia di migliaia di militari italiani ancora prigionieri di guerra degli inglesi in Sud Africa, India e altrove, degli Usa in America e di altri nemici: greci, jugoslavi e soprattutto dei russi, che li restituirono con il contagocce, protraendo l’agonia dell’attesa in quanti continuavano a sperare rimanessero vivi. I generali Emilio Battisti della “Cuneense”, Umberto Ricagno della “Julia” ed Etelvoldo Pascolini della “Piacenza” vennero trattenuti dall’Unione Sovietica di Stalin sino al 1950 come “criminali di guerra”.

 

Una corposa documentazione sulla Corte Suprema di Cassazione, contenente carte sullo svolgimento del referendum, consultata da chi scrive con la guida del suo Sovrintendente Aldo G. Ricci, mette in luce che a una miriade di persone (soprattutto ecclesiastici in servizio presso case di cura) fu impedito di votare con i pretesti più astrusi, così asfissiando il voto sicuramente monarchico.

 

 

 

Votanti e voti validi: l’“unicum” negativo del 1946

 

Comunque, nella seconda e ultima adunanza, convocata il 18 giugno 1946, la Suprema Corte confermò, con piccole modifiche, i risultati già prospettati nella seduta precedente (10 giugno). La repubblica ottenne circa 12.700.000 suffragi, mentre la monarchia si fermò a poco più di 10.700.000. Nell’insieme i voti per l’una o altra forma di Stato sommarono a 23.400.000: 1.600.000 in meno dei votanti. Quei voti mancanti comprendevano schede bianche, nulle, annullate o contestate, che vennero conteggiate solo dopo il 10 giugno, su richiesta del presidente della Corte, Giuseppe Pagano. Prima nessuno si era premurato di computarli analiticamente. Il riepilogo dei voti delle circoscrizioni elettorali venne scritto a penna sul retro di fogli stampati (la carta non andava sprecata), ripartiti grossolanamente su due colonne sormontate da una “R” da una “M”, scritte a penna, sotto le quali furono annotati e sommati solo i voti validi riportati dalle due opzioni. Il computo dei voti non validi avvenne nei giorni 13-17 giugno sulla base dei verbali estratti dai sacchi inviati all’Ufficio Elettorale Centrale dagli Uffici Elettorali Circoscrizionali. Una massa di impiegati lo effettuò con calcolatrici. I dati furono stampati su rotoli sbiaditi tuttora conservati nel citato fondo dell’Archivio Centrale dello Stato. Le somme degli esiti parziali vennero fatte via via a matita sulle strisciate, quando capitava. Da un primo riscontro balza “ictu oculi” che spesso “i conti non tornano”. Ma ormai poco importa. Un voluminoso brogliaccio evidenzia che alla vigilia della proclamazione dei risultati mancavano quelli veramente definitivi di migliaia di seggi.

 

Ma dalle 16 del 13 giugno Umberto II aveva lasciato il suolo patrio alla volta del Portogallo. Partì da Re, senza conoscere l’esito del referendum, che fu reso noto solo alle ore 18 del 18 giugno, quando venne comunicato dalla Cassazione, il cui presidente, Pagano, lo lesse senza però procedere alla “proclamazione” della repubblica, perché non era prevista. Essa “nacque”, dunque, solo per effetto del Dll che aveva regolato la votazione referendaria. Di seguito, Pagano rifiutò di accompagnare il democristiano Alcide De Gasperi al Quirinale, perché disgustato dal “colpo di stato contro la lingua italiana” perpetrato a maggioranza dalla Suprema Corte. Infatti questa un’ora prima dell’apertura dell’adunanza conclusiva con dodici voti contro sei (fra i quali il suo) aveva deciso che per “votante” s’intende solo il “voto valido” anziché, come sostenuto dal procuratore generale della Corte, Massimo Pilotti, magistrato integerrimo, il voto espresso da chi si reca al seggio, ritira la scheda, si reca in cabina, ne esce e la riconsegna: votata, annullata, bianca o poi dichiarata nulla dagli scrutatori. Che per votante si intende chi va a votare, non solo i voti validi, è l’interpretazione adottata in tutte le elezioni politiche e amministrative dal 1948 in poi, così come era avvenuto nel regno di Sardegna e in quello d’Italia dal 1848 al fatale referendum del 1946, che costituisce dunque un “unicum” negativo nella storia elettorale italiana.

 

 

 

Ma quando nacque la repubblica italiana?

 

Il 19 giugno 1946 uscì il primo numero della “Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana”. La quale Repubblica, invero, era già stata proclamata e festeggiata varie volte nei giorni precedenti. La prima fu nella notte tra il 10 e martedì 11, quando nel corso di un affannoso consiglio dei Ministri il socialista Pietro Nenni ne propose l’immediata instaurazione e fece proclamare festivo il giorno medesimo. Non se ne fece niente. La pressione per la svolta crebbe però di ora in ora. Per saperne di più basta leggere l’edizione critica dei Verbali del Consiglio dei Ministri curata da Aldo G. Ricci: un’opera poderosa e assai più interessante dei “romanzetti storici” sempre più dilaganti, perché le fiabe hanno la meglio sulla verità storica documentata sulla base degli archivi.

 

Le posizioni erano chiare, nette e inconciliabili. Da un canto il governo aveva fretta di rompere gli indugi e voltare pagina. Con sorpresa degli osservatori esteri, malgrado i toni della campagna elettorale, spesso esasperati, violenti e persino volgari (contro il re si scagliò anche un generale che non merita menzione), le votazioni del 2-3 giugno si erano svolte in un clima complessivamente sereno. Anche i primi giorni degli scrutini non avevano dato adito a manifestazioni pro o contro uno o l’altro contendente. Poi, però, il clima iniziò a surriscaldarsi. Numerosi ricorsi chiesero la nullità radicale del referendum. Tra i molti due prevalsero. Uno, presentato dall’on. Enzo Selvaggi, chiese il chiarimento del conflitto formale e sostanziale tra “votanti” e “voti validi”. La questione era già stata posta al presidente del Consiglio De Gasperi, da Selvaggi e dal presidente del Partito liberale italiano, Giovanni Cassandro, “maestro di color che sanno”. “Fondare” la vittoria dell’una o altra opzione sui soli voti validi comportava di conferirla a una minoranza. Il vincitore doveva mostrare di avere il consenso almeno della metà più uno dei votanti, il cui numero doveva essere correttamente computato e comunicato dal ministero dell’Interno. Il suo titolare, Giuseppe Romita, era dichiaratamente repubblicano e, come scrisse nelle memorie, si era proposto da sempre la demolizione della monarchia sabauda. Un secondo rilevante ricorso, propugnato dal liberale Edgardo (Eddy) Sogno, valoroso comandante partigiano, chiedeva la nullità del referendum per l’esclusione dal voto della XII Circoscrizione elettorale. Ora dopo ora la tensione crebbe. In un colloquio con il generale Adolfo Infante, aiutante di campo di Umberto II, il pacioso contrammiraglio americano Ellery Stone disse che la Commissione Alleata in Italia, di cui era Capo, non intendeva intromettersi nella questione monarchia/repubblica: un “affare interno” dell’Italia ed egli doveva preoccuparsi dell’opinione pubblica del suo paese (filo-repubblicana). Aggiunse che i monarchici, se ritenevano di averne, dovevano far valere i loro diritti “con le loro mani”. Alla “far west”, insomma, anziché in punto di diritto. Quali rischi questa linea comportasse si vide a Napoli ove una dimostrazione popolare di monarchici inermi contro la sede del Partito comunista italiano fu bersagliata da colpi d’arma da fuoco, sia degli “assediati”, sia di forze dell’ordine, che in via Medina causarono morti e feriti. La situazione stava divenendo incandescente.

 

La posizione del Re era e rimase limpida. Il 5 giugno fece partire di fretta la Regina e i figli dal Quirinale per Napoli. L’indomani la sua famiglia si imbarcò sul “Duca degli Abruzzi” di rientro da Alessandria d’Egitto, ove aveva recato Vittorio Emanuele III, ormai “conte di Pollenzo”, con la consorte Elena, e salpò alla volta del Portogallo. Il sovrano però era determinato ad attendere la conclusione formale del referendum: la pronuncia della Corte Suprema di Cassazione, come previsto dalla legge istitutiva del referendum. Garante della legalità il Re non poteva e non voleva sottrarsi alla legge ma, al tempo stesso, chiedeva al governo di rispettarla. Come sopra accennato, l’adunanza del 10 giugno non fu concludente perché risultavano mancanti i verbali di circa 150 seggi. Un’inezia, secondo  molti esagitati. Ma la legge non ammette scorciatoie, soprattutto quando sia in campo niente meno che la forma dello Stato. Dopotutto, proprio perché forti del risultato provvisorio, nettamente favorevole, i repubblicani non avevano motivo di violare la legge con misure affrettate.

 

Invece proprio la fretta fu cattiva consigliera. Alle 0:30 del 13 giugno, con il voto contrario del solo Leone Cattani, il consiglio dei ministri conferì al presidente De Gasperi, democristiano, l’esercizio delle funzioni di Capo dello Stato. De Gasperi le accettò e suggellò a quel modo un greve “patto” con gli alleati di governo che precipitava verso una soluzione forzatamente traumatica. L’Italia si trovò con due capi di Stato, inevitabilmente contrapposti: un contrasto potenzialmente esplosivo poiché i militari avevano giurato fedeltà al Re. Che cosa fare? Informato che gli anglo-americani non ne garantivano l’incolumità fisica, vagliate varie opzioni (sciogliere il governo e nominarne un altro, arroccarsi nel Quirinale, lasciare Roma per una città nettamente monarchica), Umberto II decise di lasciare l’Italia e protestare contro il “colpo di Stato”, ridimensionato a “gesto rivoluzionario” nel Proclama lanciato agli italiani dopo la partenza da Ciampino alle 16 del 13 giugno. De Gasperi replicò con una prolissa dichiarazione polemica poco apprezzata anche Oltre Tevere.

 

All’arrivo in Portogallo il Re scrisse a Falcone Lucifero, ministro della Real Casa, di essere rimasto vittima di un “truc”, un misto di fascinazione e imbroglio. A cospetto della sua condotta pacata, gli era stata fatta intravvedere una soluzione conciliativa. Invece i costituenti si preparavano a rubricare e a combattere i monarchici come nemici dell’ordine dello Stato he essi stessi avevano fondato. Non solo. Era stato Vittorio Emanuele III a revocare Mussolini e ad approvare la resa che nel settembre 1943 aveva salvaguardato il riconoscimento dell’integrità territoriale dell’Italia, riconosciuta co-belligerante delle Nazioni Unite dalla dichiarazione di guerra alla Germania del 13 ottobre. Di quei meriti indiscutibili non si volle tenere alcun conto, come poi venne calato un velo di silenzio sul concorso dei monarchici alla guerra di liberazione, con il Fronte monarchico clandestino dell’eroico Giuseppe Cordero di Montezemolo, con le tante formazioni partigiane dichiaratamente monarchiche e con il generale Raffaele Cadorna al comando del Corpo Volontari della Libertà.

 

Molti nodi rimasero ingarbugliati malgrado i colpi di mano politici. Lo conferma il Comunicato della Presidenza del Consiglio dei Ministri sull’insediamento del Capo Provvisorio dello Stato pubblicato dalla “Gazzetta Ufficiale” del 1° luglio 1946: «Oggi alle ore 13 in un sala di Montecitorio [non al Quirinale, NdA] ha avuto luogo l’insediamento del Capo Provvisorio dello Stato On. Enrico De Nicola, al quale l’On. De Gasperi ha trasmesso i poteri di Presidente della Repubblica, da lui esercitati, nella sua qualità di presidente del Consiglio dal giorno dell’annuncio dei risultati definitivi del referendum istituzionale» (corsivo dell’Autore). Ma non li aveva assunti il 13 giugno? Chi li aveva esercitati fra il 13 e il 19 di quel mese? Tante cose andavano dimenticate in quei giorni e tante altre andavano sepolte nell’oblio. Enrico De Nicola era presidente della Camera all’insediamento del governo Mussolini, il 31 ottobre 1922, e non aveva battuto ciglio quando, nel suo primo intervento da presidente del Consiglio, il duce aveva detto che avrebbe potuto trasformarla in un bivacco per i manipoli delle camicie nere. Nella stessa seduta De Gasperi aveva pronunciato il voto del Partito popolare italiano a favore del governo Mussolini, nel quale sedeva con ministri e sottosegretari, come Giovanni Gronchi, futuro presidente della Repubblica.

 

 

 

Un’Italia divisa in due, ma con qualche eccezione

 

Al referendum istituzionale i voti validi per la repubblica furono il 39,1% in Sardegna, 35,3% in Sicilia, 32,6% nell’Italia meridionale, 63,5% in quella Centrale e 64,5% nella Settentrionale, ove la monarchia ebbe appena il 35,2% dei consensi, mentre ottenne il 36,2% nella Centrale, il 67,2% nella Meridionale, il 64,7% in Sicilia e il 60,9% in Sardegna. Ma non tutte le regioni dell’Italia centro-settentrionale furono compattamente repubblicane. Nel Lazio la monarchia prevalse nelle province di Roma, Rieti e Frosinone, la terra che aveva sofferto gli orrori delle truppe marocchine. Nella Capitale la repubblica ottenne appena il 46,2% dei voti validi. Tra i capoluoghi di provincia Roma si collocò al sessantesimo per simpatie repubblicane. Dopo averne viste tante nei secoli, preferiva l’“usato sicuro”.

 

Nell’Italia settentrionale a favore della monarchia si schierarono le province di Cuneo, Asti, Bergamo e Padova, nei cui capoluoghi, per altro, vinse la repubblica (56,1% ad Asti, 54% a Cuneo, 52,6% a Bergamo e 51,7% a Padova). Ma a prevalere, in quelle terre del Nord, fu la “provincia profonda”, nettamente distinta dalle altre delle medesime regioni. Erano una retrograda Vandea o una civiltà del buon tempo antico? Mentre ad Asti la monarchia si attestò appena oltre la soglia del 50%, nella “Granda” essa ottenne il 54,2% dei voti validi.

 

Il Cuneese è noto sia come seconda culla dei Savoia, sia come “capitale della Resistenza”. È un’“eccezione” che merita di essere approfondita, perché è anche un osservatorio per capire una terra di frontiera e cerniera d’Europa. Ne parleremo ancora.


Fonte

“La Granda”, un’eccezione monarchica - Civico20 (civico20-news.it)

sabato 28 settembre 2024

IL TRIANGOLO DEI VETERANI TORINO, ROMA L'ITALIA

 di Aldo A. Mola



Il Re che sperava in una Sinistra duratura

Alle ore 11 di mercoledì 9 gennaio 1878, dopo cinque giorni di notizie ufficiose e di bollettini medici dai toni alterni, Lorenzo Bruno, (Murazzano, Cuneo, 1821-1900), senatore da due anni e archiatra di corte, consigliò che a Vittorio Emanuele II venisse amministrato il viatico della buona morte. Seduto sul letto della sua camera spartana, il Re respirava a fatica, alternando brividi e sudori.

   Ma anche il “suo” governo e le camere erano in affanno. Il 25 marzo 1876 aveva conferito la presidenza del Consiglio ad Agostino Depretis, già ministro fidato, che varò il primo governo “di sinistra”, quindici anni dopo la proclamazione del regno (1861). Prima di lui si erano susseguiti i governi presieduti da Giovanni Lanza e da Marco Minghetti: tre anni a testa. Re Vittorio era convinto che la nuova compagine sarebbe durata a lungo. Per rincalzarsi, Depretis ottenne lo scioglimento della Camera. Le elezioni furono “gestite” dal ministro dell'Interno Giovanni Nicotera, massone, scampato nel 1857 all'annientamento della spedizione capitanata da Carlo Pisacane (“eran trecento, eran giovani e forti...), massacrata a Sezze, presso Sapri, dai contadini che li ritennero banditi anziché patrioti. Usando metodi sbrigativi, Nicotera ottenne ampio successo, ma il governo uscì dilaniato dalle divisioni. Non vi era “una” ma “diverse” sinistre. L'Estrema aveva un piede alla Camera e uno nelle organizzazioni extraparlamentari: leghe, associazioni e reti cospirative in parte ancora mazziniane. Il romano “Circolo dei Diritti dell'uomo”, vivaio di grandi maestri del Grande Oriente e di influenti politici, come Felice Cavallotti, e futuri ministri, attende la narrazione rivelativa della sua azione “coperta”.

   Il 26 dicembre Depretis formò il suo secondo ministero. Durò pochi mesi. Il 24 marzo 1878 si insediò il suo successore, Benedetto Cairoli, esponente del patriottismo garibaldino. Chiamò al governo il bresciano Giuseppe Zanardelli, capofila della sinistra democratica, fautore dell'irredentismo, il dalmata Federico Seismit-Doda, lo storico della letteratura italiana Francesco De Sanctis, schierato con la Sinistra Giovane, Benedetto Brin, artefice della flotta, Alfredo Baccarini ai Lavori Pubblici e il giureconsulto Enrico Pessina all’Agricoltura: tutti alti dignitari della massoneria, Istituzione sempre più influente, ma appena sfiorata da Cairoli.

   Vittorio Emanuele II fece del suo meglio per incoraggiare la nuova maggioranza della Camera. Utilizzò la nomina di senatori, d'intesa con i governi che si susseguivano. In Senato entrarono esponenti della tradizione garibaldina e del Terzo Partito: Achille Rasponi, Vincenzo Sprovieri, Angelo Bargoni, Giuseppe Manfredi, il fisiologo Paolo Mantegazza e il materialista Jacopo Moleschott, nettamente sgraditi alla Chiesa che li considerava assatanati e li dipingeva persino come pornografi. Più assidui alle sedute rispetto a senatori più anziani e lontani da Roma, i nuovi “patres” avevano il compito di spostare a sinistra gli umori della Camera Alta, diffidente nei confronti di riforme senza copertura finanziaria. Tuttavia, come vedremo, neppure Cairoli durò. Il suo esecutivo era un coacervo di gruppi in contrapposizione costante, preoccupati di non perdere il contatto con il proprio vasto seguito ancora escluso dal diritto di voto, rimasto riservato privilegio di una cerchia ristretta di cittadini, perché la legge elettorale era più o meno quella promulgata nel regno di Sardegna nel 1848.

 

Depretis verso l'ignoto: la morte e i funerali del Re

   Il 12 dicembre 1877 il gruppo presieduto dal radicale Agostino Bertani dichiarò sfiducia al governo Depretis, che “non ha compreso e molto meno attuato il principio della vera libertà” e, “saldo nella sua fede democratica, si costituì in partito separato”. Dopo un incontro tra Cairoli e Quintino Sella, esponente della Destra ma sempre in dialogo con la Sinistra, al termine del pranzo offerto il 16 dicembre dal principe ereditario Umberto a ministri, presidenti delle Camere e prefetto di Roma, il governo annunciò le dimissioni. Il 27 dicembre Depretis fu incaricato per la terza volta di formare il Ministero. Tenne per sé gli Esteri e in un giorno formò la nuova compagine con Francesco Crispi all'Interno. Alla Giustizia andò Pasquale Stanislao Mancini, strenuo fautore della totale separazione tra lo Stato la Chiesa, e alle Finanze Agostino Magliani. L'enigmatico Crispi, massone di lungo corso, era il nome di punta del nuovo governo.

   Appena insediato il suo secondo Ministero Depretis si trovò alle prese con l'imprevisto: la malattia del re, la seconda dopo quella del 1869, quando, sembrando in punto di morte, sposò con matrimonio morganatico Rosa Vercellana. All'inizio del gennaio 1878, al rientro a Roma da una battuta di caccia nelle sue valli piemontesi, ammalato di bronco-polmonite, in pochi giorni il Re si aggravò. La Relazione ufficiale dà conto delle sue ultime ore e dell'amministrazione del Viatico da parte del Cappellano di corte Valerio Anzino, che a sua volta scrisse una Relazione studiata da Aldo G. Ricci. Era l’1:30 pomeridiana del 9 gennaio 1878. Il reverendo fu preceduto dal principe ereditario e dalla principessa Margherita sua sposa e seguito dai dignitari apicali di corte, dai ministri, inginocchiati, compreso Mancini, e dal commendator Nicola Aghemo, cognato di Ludovico Frapolli, già gran maestro del Grande Oriente d'Italia. Depretis, piangente a dirotto, più che inginocchiato era disteso per terra. Il re salutò tutti con cenni. Poi reclinò il capo. Alle 2:30 cessò di vivere.

   Da quel momento il governo iniziò un viaggio verso l’ignoto. Che cosa fare? Riunito d'urgenza, esso proclamò re d’Italia Umberto, che lanciò il proclama: “Il vostro Re è morto. Il successore vi proverà che le istituzioni non muoiono”. Il 10 gennaio iniziò l'imbalsamazione della salma e venne rogato l'atto di morte con due errori marchiani. Vi si leggeva che il sovrano defunto era nato a Firenze, anziché a Torino, ed era figlio di una Asburgo di Toscana anziché d'Austria. Il problema più assillante era però la sua sepoltura. Il giorno 12 il “consiglio di Famiglia” deliberò la tumulazione al Pantheon. Però, come ha ampiamente documentato Tito Lucrezio Rizzo in “Il clero Palatino tra Dio e Cesare. Profili storico giuridici” (Roma, “Rivista Militare”, 1995), malgrado l'assenso di massima da parte di Pio IX, purché la cerimonia non avesse carattere politico, la soluzione fu a lungo vagliata nei colloqui del Cappellano Anzino con l'altra riva del Tvere. Proprio il 10 gennaio, presentendo la propria fine, il pontefice emanò il “Regolamento da osservarsi dal S. Collegio (Cardinalizio) in occasione della vacanza della Sede Apostolica”. Alcuni cardinali ventilavano la convocazione del Conclave non a Roma ma a Vienna, ad Avignone o addirittura a Malta. Mentre assicurò che il governo avrebbe garantito massima libertà al Conclave, Crispi fece sapere in via riservatissima che in tal caso sarebbe stato difficile per il nuovo pontefice, eletto all'estero, entrare in Roma, “conquista intangibile” della Nuova Italia. Sempre tramite Anzino vennero anticipati a chi di dovere i “cartigli” che avrebbero accompagnato il feretro. I funerali ebbero luogo il 17 gennaio, in forma solenne e senza alcun disturbo.

   Mentre alcuni confidavano di porlo al centro del Tempio, per l'opposizione del Vaticano il feretro fu collocato in via provvisoria nella cappella sulla destra dell'ingresso del Pantheon, in attesa del monumento che nel 1884 lo celebrò, qual è, “Padre della Patria”.

 

I Veterani delle patrie battaglie per la guardia alla tomba del Re

   Chi non rimase con le mani in mano furono i veterani delle guerre patriottiche. La loro lunga e interessantissima storia è documentata per la prima volta nel poderoso volume di Alessandro Liviero “Le origini della Guardia d'Onore alle Reali Tombe del Pantheon, 1859-1878” (BastogiLibri, 2024).

   La Guardia d'Onore è ora Istituto Nazionale in linea con la Costituzione dello Stato d'Italia, anche se il suo statuto risulterebbe un po' datato perché suoi organi direttivi vengono più nominati “ad nutum” che eletti dagli associati. Nacque il 28 luglio 1878 quando il Comitato principale romano dei Veterani del 1848-1849 si raccolse a Roma nell'ex convento della Missione, deliberò di assumere la guardia della tomba del Re Vittorio Emanuele e dette mandato al Consiglio direttivo di fare le pratiche necessarie. Il 29 luglio il torinese Consiglio generale dei Veterani rese omaggio alla tomba di Carlo Alberto recandosi a “Soperga”. Roma era Roma, ma i comitati e sotto-comitati locali continuarono a svolgere la funzione che da oltre un quindicennio avevano fatta propria: ricordare. Ma non per sé soli. Né solo come tributo ai caduti. Bisognava tener vivo lo spirito del Risorgimento, della “tempesta magnifica” che in un decennio aveva condotto all'unificazione dei “popoli d'Italia” dopo decenni di cospirazioni, moti, insurrezioni e guerre nelle quali confluirono nella “parte giusta” l'Esercito e l'Armata del re di Sardegna i volontari, mazziniani, garibaldini, senza una precisa matrice o classificazione “ideologica” ma accomunati dall'“idea d'Italia”. Essa arrivava dai racconti e, va ricordato, anche dall'entusiasmo suscitato dall'elezione di Pio IX, creduto e celebrato quale campione della Nuova Italia. Un evento niente affatto episodico se persino Giuseppe Mazzini in una “lettera aperta”, rimasta ovviamente senza risposta, come quella nel 1831 indirizzata a Carlo Alberto di Savoia, gli propose appunto di assumere la guida di un'Italia libera da giogo straniero.

   La sterminata ricerca documentaria raccolta da Liviero mette in evidenza la forza dei Veterani, presenti nei siti più disparati, a cominciare dal Vecchio Piemonte, e sempre pronti alle sollecitazioni dei loro presidenti, quali il marchese Salvatore Pes di Villamarina ed Emanuele Chiabrera, che li riorganizzò e sostituì i due vicepresidenti in carica, Giuseppe Garibaldi e Raffaele Cadorna, con Alfonso La Marmora ed Enrico Cialdini. La sua fu una “manovra” non occasionale. Costituì un tacito invito a lasciare alle spalle le divisioni delle due anime del Risorgimento. Entrambe avevano fatto e fatto bene. Ma ormai l'Italia doveva guardare avanti, all'insegna dell'unità, come spiegò Giosue Carducci. Erano stati carbonari e massoni a volere che Re Vittorio lasciasse la sua terra lontana e, dopo le note traversie, giungere e rimanere a Roma, in quel Palazzo del Quirinale nel quale non si riconosceva ma si rassegnò a vivere perché così voleva la Storia: un esempio seguito specialmente dal nipote, Vittorio Emanuele, principe di Napoli (1869-1947), futuro Vittorio Emanuele III, che preferì la quiete di Villa Ada, ribattezzata “Savoia”, e a Palazzo andava perché lì era il suo Ufficio.

 

Pietro Galateri di Genola, presidente dei Veterani

   Tra i molti personaggi ampiamente “narrati” da Liviero spicca Pietro Galateri di Genola, “colonnello in ritiro”. Il 2 novembre 1874, dopo anni di presidenza, datò un brevissimo messaggio ai “bravi Veterani delle patrie battaglie” pubblicato dalla “Gazzetta del Popolo” di Torino, diretta da Giambattista Bottero, uno degli artefici principali della coscienza degli italiani: “Una grande sventura domestica mi costringe a separarmi da Voi, cari miei antichi commilitoni. Amatemi pel bene che ho cercato di farvi, e qualche volta pensate al già Vostro presidente”. Solo anni dopo, annota Liviero, si scoprì che Galateri sapeva di essere inguaribilmente  malato. Quando ne fu consapevole, si congedò dal “servizio. Morì due anni dopo, nella solitudine in cui preferì avvolgersi. Rimane tra i protagonisti meno noti e nondimeno fattivi negli anni decisivi per l'Italia. Il suo burbero “auto-ritratto” merita attenzione. Già presidente della Commissione per la Medaglia commemorativa dei Veterani e autore di un opuscolo nel quale propose un premio “a quel bass'ufficiale o soldato dell'esercito italiano che nelle prossime battaglie dell'indipendenza nazionale sarà fregiato per il primo della Medaglia d'Oro al valor militare”, acclamato presidente, Galateri finì per rinunciare alla carica. Come annota Liviero, non volle trasformare i comitati dei Veterani in una delle molte Società di mutuo soccorso, a differenza di quanto fecero i garibaldini. Il 25 agosto 1874 lasciò la presidenza con un messaggio crudo: “A scanso di equivoci, vi prevengo, bravi e cari Commilitoni, che rinunzio alla Presidenza del Comizio testé formatosi in una riunione-banchetto di 29 persone, e che pretende per ciò di rappresentarci tutti noi, con un indirizzo ben diverso da quello da noi lealmente perseguito pendente 12 anni”.

   Per comprenderne il carattere va ricordato che Pietro Galateri era il primogenito di Annnibale, conte di Genola e Suniglia (Savigliano, 1761-1840), solitamente ricordato per la dura repressione dei mazziniani ad Alessandria nel 1831 e per il trattamento spietato riservato ad Andrea Vochieri e non sempre come Cavaliere della SS. Annunziata e quindi “cugino del Re”. Aveva un passato complesso. Dal Piemonte, dopo la fallita offensiva austro-russa e la sua annessione alla Francia, nel 1800 si trasferì in Russia e vi conobbe l'avvenente moglie di un tenente degli ussari, Anna Ivanvna Cerneeva, di piccola nobiltà e più giovane di quindici anni. Dalla loro relazione nel 1801 nacque Giuseppe, che prese nome di Suniglia. Nel 1806 Annibale sposò Anna, rimasta vedova, con rito sia cattolico sia ortodosso. Dopo il matrimonio, che permise la legittimazione di Giuseppe, nacque Pietro. Entrato nella carriera militare nel 1827, questi ne uscì una prima volta nel 1857 con il grado di maggiore, dopo aver combattuto nella guerra di Crimea. Il 10 maggio 1859 prese servizio nell'esercito della Toscana con il grado di luogotenente colonnello. Raggiunse quello di colonnello alla fusione del toscano nell'esercito italiano. Nel 1861 fu assegnato al comando della Piazza di Teramo, ove si condusse con rigore nei confronti degli anti-unitari e dei “briganti”. Richiamato a Torino nel luglio 1861, lasciò definitivamente il servizio dopo 34 anni, due mesi e due giorni. Fece ricorso contro le mancate promozioni e perse la causa, ma il suo entusiasmo per i Commilitoni non venne mai meno. Nel 1862 pubblicò un libretto “Briganti- Partiti e Vittime. Ossia di chi è la colpa?” (Savigliano, tipografia Racca e Bressa). Una rarità assoluta, di cui si è valso Liviero nella sua ricca opera.

   La nascita della Guardia d'Onore compì uno dei “miracoli” scaturiti dall'emozione suscitata dall’improvvisa morte di Vittorio Emanuele II: l'unificazione tra diverse correnti di patrioti che si erano battute, nelle file degli eserciti pre-unitari e nella vita civile, per la Nuova Italia. La vita “politica”, nondimeno, come abbiamo veduto rimase agitata. Il 6 marzo Francesco Crispi si dimise per l'accusa di bigamia, lanciata da alcuni giornali. Fondata? Infondata? Per difendersi non gli rimase che lasciare la carica. Con lui cadde il governo e alla presidenza salì Cairoli, che però durò solo nove mesi. Dopodiché fu di nuovo la volta di Depretis.

   La Sinistra, un caleidoscopio non sempre dotata di senso dello Stato, non aveva affatto garantito la stabilità di governo auspicata da Vittorio Emanuele II nel marzo 1876. Per buona sorte dell'Italia i governi passavano, i re rimanevano. Ma la strada della Nuova Italia rimase in salita.

lunedì 16 settembre 2024

Saggi Storici sulla sulla Tradizione Monarchica - VIII

 


3) LA FINE DEL MEDIO EVO.

Dopo la morte di Corradino restarono sospesi per molto tempo i legami fra l'Italia e l'impero e cessata ogni possibilità di unione fra questo e regno di Sicilia, i due stati divennero naturalmente antagonisti. Le lotte interne delle altre regioni italiane favorivano in­tanto la sottomissione dei comuni minori ai maggiori e l'accentra­mento del potere nelle mani dei signori più potenti che diede origine alla formazione delle signorie.

In alta Italia, sempre maggiore Importanza veniva assumendo lo stato sabaudo, che sotto sovrani illustri come Umberto       beato, (*) (1129-1189) Tommaso I (1178-1233) e Amedeo IV (1197-1253) ave­va avuto parte non indifferente nelle lotte politiche acquistando nuo­ve città come Pinerolo e Cuneo. In Lombardia cresceva la potenza di Milano, presto dominata dai Torriani mentre a Verona si consolida­va la signoria degli Scaligeri, più a sud la famiglia degli Estensi con Obizzo II acquistava la signoria ereditaria e perpetua di Ferrara, Modena e Reggio. A Venezia crebbe il potere della nobiltà di fronte al Doge, concretandosi con   l'istituzione del Maggior Consiglio (1172) e di altri organi collegiali: i Pregadi, la Quarantia e il Senato e in seguito al tentativo rivoluzionario di Baiamonte Tiepolo, il Consiglio dei dieci, incaricato della sicurezza dello stato e dell'inquisizione politica.

Firenze fu in quell'epoca insanguinata e divisa dalle lotte fra guelfi e ghibellini, poi fra guelfi bianchi e guelfi neri, sempre seguite da vendette e proscrizioni e tutte le città principali parteciparono a tali lotte fra le due fazioni, mentre Carlo d'Angiò assumeva il ruolo di capo della fazione guelfa in Italia contro i ghibellini fautori dell'Impero governato da Rodolfo d'Asburgo. (1273)

Le lotte italiane continuarono acerbe nonostante l'intervento pacificatore dei Papi, alcuni dei quali furono favorevoli ed altri contrari a Carlo d'Angiò, finché una rivolta scoppiata in Sicilia contro gli Angioini non provocarono la scissione del suo regno perché un parlamento siciliano proclamò re dell'isola Pietro Re d’Aragona, genero di Manfredi; ne nacque un’aspra guerra tra Angioni e Aragonesi che fu combattuta soprattutto per mare e che terminò con la pace di Caltabellotta conclusa fra Carlo II figlio di Carlo D’Angiò e Federico figlio di Pietro III, la quale la Sicilia sarebbe restata a Federico fino alla sua morte dopo di che sarebbe tornata agli Angioini che mantenevano i territori continentali. (1302)

Si verificò in quel tempo, l'importantissimo evento storico conosciuto con il nome di cattività avignonese, cioè lo spostamento della residenza dei Papi da Roma ad Avignone, città della Francia meridionale già appartenente agli Angioni e da questi poi venduta al Patrimonio di San Pietro; questo periodo durato dal 1309 al 1376 fu considerato in Italia di schiavitù per il Papato tenuto prigioniero dai re di Francia, ma in realtà fu non differente da altri periodi, anche se l'influenza francese si fece sentire spesso specie per l'elezione dei cardinali e del pontefice. L'assenza del papa dall'Italia provocò però uno stato pietoso di abbandono in Roma, ridotta a poche migliaia di abitanti e nocque a tutto l'equilibrio politico della penisola. Roma abbandonata e ribelle ai rappresentanti pontifici, si eresse a comune e in essa dominò per qualche tempo il tribuno Cola di Rienzo, vittima poi delle sue stesse follie e crudeltà che ne provocarono la caduta e la morte a furore di popolo.

L'Impero in questo periodo fu praticamente assente e quando l'imperatore Enrico VII di Lussemburgo scese in Italia per prendere la corona imperiale e sedare in qualche modo le lotte delle fazioni, trovò l'ostilità dei Torrigiani a Milano che furono cacciati e sostituiti dal vicario imperiale Matteo Visconti, di Firenze e del re Roberto di Napoli. L'imperatore, in cui il grande. Dante Alighieri cacciato da Firenze dall'avversa fazione dei guelfi neri tanto sperava per un riordinamento della situazione italiana, si accinse a marciare contro gli Angioini ma morì a Buonconvento presso Siena il 24 agosto 1313, lasciando l'Italia nell'anarchia. Il suo successore Ludovico il Bavaro si pose in contrasto con il papa Giovanni XXII e aggravò le condizioni d'Italia con la sua discesa e con la nomina di un antipapa, da lui chiamato Nicolò V.

Un qualche ordine venne ristabilito con l'incoronazione dell'imperatore Carlo IV di Lussemburgo, eletto dai principi tedeschi ostili a Ludovico ed alla morte di questo riconosciuto da tutti, ma la sua influenza in Italia fu passeggera poché rimanendo in, pieno accordo con il Papa egli ben poco si occupò delle cose d'Italia, tutto rivolto ai problemi d'oltralpe.     

Nel 1337 venne a morte Federico re di Sicilia ma contrariamente ai patti di Caltabellotta lasciò il regno in eredità al figlio Pietro II a cui successe poi il fratello Luigi; a Napoli invece alla morte di Roberto nel 1343, salì al trono la nipote Giovanna I il cui regno fu funestato dalle guerre fra i partigiani suoi e del marito Principe Andrea d'Ungheria; alla morte di questo la regina fu anzi accusata di assassinio e Re Luigi I d'Ungheria fratello di Andrea la costrinse alla fuga in Francia, con il secondo marito Luigi di Taranto, e prese possesso del regno di Napoli lasciandovi un luogotenente. Successivamente si venne ad un accordo e fu incoronato Re, Luigi di Taranto che regnò insieme alla moglie (1352) e questo permise ai sovrani napoletani d'intervenire nelle vicende siciliane per tentare di riconquistare l'isola, riuscendovi in parte, ma la guerra che ne nacque terminò nel 1372 con il riconoscimento di Federico III d'Aragona a Re di Sicilia, sia pure come vassallo di Napoli e del Papa.

Il fallimento della politica egemonica degli angioini favorì la costituzione e il rassodamento delle signorie italiane; in Lombardia la signoria dei potenti Visconti aveva sostituito i Torrigiani, i della Scala si erano rafforzati a Verona e a Mantova si erano insediati i Gonzaga.

Altre signorie erano quelle dei Carrara a Padova, dei Pepoli a Bologna, dei Manfredi a Faenza, degli Oderlaffi a Forlì, dei da Polenta a Ravenna, dei Malatesta a Rimini e dei Montefeltro ad Urbino. A repubblica continuavano a reggersi solo Genova, Venezia, Lucca e Pisa, sia pure queste ultime spesso insidiate da Firenze, dove dopo violente lotte fra popolo minuto e popolo grasso, cioè borghesia, con un periodo signorile del condottiero francese Gualtiero di Brienne, detto il Duca d'Atene, cominciava a sorgere la potenza dei grossi banchieri.

Agitata la vita dello stato pontificio dove il potere dei comuni si alternava a quello delle grandi famiglie della campagna romana, rese più forti dall'assenza del papato, relegato ad Avignone.

Tale stato di cose provocò la formazione delle Compagnie di ventura, cioè di milizie mercenarie che al servizio dei signori combattevano per loro; dapprima comandate e composte prevalentemente da stranieri, furono poi guidate anche da condottieri italiani, fra cui celebri restarono Bartolomeo Colleoni, Erasmo Gattamelata e il Conte di Carmagnola. La loro presenza rappresentò però uno dei periodi più tristi della nostra storia nazionale perché segno di una deplorevole decadenza politica e morale.

 

(*) Umberto III fu il primo dei principi di Casa Savoia fra quelli elevati agli onori degli altari; egli apre una serie di beati e di venerabili a cui appar­tengono: il B. Bonifacio di Savoia Arcivescovo di Canterbury, il B. Amedeo IX duca di Savoia, la B. Margherita di Savoia Acaia vedova del Marchese di Monferrato e suora domenicana, la B. Ludovica di Savoia figlia del B. Amedeo e suora francescana; sono inoltre morte in concetto di santità, le venerabili Maria Clotilde regina di Sardegna e moglie di Re Carlo Emanuele IV, Maria Cristina figlia di Vittorio Emanuele I e moglie di Ferdinando II re di Napoli, Francesca Caterina e Maria figlie di Carlo Emanuele I e Maria Clotilde figlia di Vittorio Emanuele II comunemente detta « la Santa di Moncalieri ».

sabato 14 settembre 2024

Aggiornato il sito dedicato a Re Umberto II

 

Gli italiani salutano il Re al loro arrivo a Palma di Maiorca


Sul sito dedicato  a Re Umberto II, nel 120° anniversario della nascita, la terza parte dell'articolo in occasione dell'incontro con gli Italiani a bordo della Motonave Ascania nel porto di Palma di Maiorca.

www.reumberto.it




martedì 10 settembre 2024



CUNEO CRONACA - Il 15 settembre 1904 nasceva al Castello Reale di Racconigi il principe ereditario Umberto, ultimo re d'Italia. In occasione dei 120 anni dal lieto evento, l'Ufficio Turistico di Racconigi propone domenica 15 settembre, alle 15:45, una visita alla residenza che sarà arricchita da alcune curiosità riguardanti l'infanzia del giovane Principe di Piemonte a Racconigi e del suo legame con la città mantenutosi anche dal lontano esilio.

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Racconigi si racconta a 120 anni dalla nascita di Umberto II, ultimo re d'Italia- Cuneocronaca.it