Al voto in affanno
Al referendum istituzionale
del 2-3 giugno 1946 la monarchia prevalse nettamente nell’Italia meridionale,
nelle isole e nel Lazio mentre la repubblica vinse con ampio vantaggio in
Toscana, Umbria, Marche, Emilia e nell’Italia settentrionale. Per una riflessione
pacata su quei risultati occorre partire dal suo panorama generale. Il primo
repertorio ufficiale dei voti espressi al referendum monarchia/repubblica e
nell’elezione dell’Assemblea Costituente venne pubblicato quasi due anni dopo,
in vista delle elezioni politiche del 17-18 aprile 1948, quando tanti malumori
per l’esito del referendum, palesemente manipolato, erano stati sopiti o, se si
preferisce, repressi.
Secondo i computi più
attendibili, che fanno perno sui dati demografici del 1938, gli aventi diritto
al voto nella consultazione del giugno 1946 erano circa 28.000.000. Alle urne
andarono in 25.000 000. Tre milioni di elettori non poterono votare per diversi
motivi. Gli abitanti dell’intera XII Circoscrizione elettorale (Venezia Giulia,
Istria, Fiume, Zara…) e quelli dell’Alto Adige (o Sud Tirolo, come dicevano gli
austriacanti) furono esclusi dalle urne perché quelle terre erano “inquiete”,
ovvero “sub judice” sino al Trattato di pace che il 10 febbraio 1947 fu dettato
all’Italia in Parigi dalle 18 Potenze vincitrici. Il Decreto legge
luogotenenziale (Dll), voluto dal governo presieduto da Alcide De Gasperi e
firmato da Umberto di Savoia, principe di Piemonte, Luogotenente di Vittorio
Emanuele III dal 5 giugno 1944, promise che gli elettori esclusi sarebbero
stati consultati più tardi, il che non avvenne mai più: un brutto vulnus, che
cozza con l’art. 139 della Carta.
Un cospicuo numero di
cittadini furono interdetti perché fautori conclamati del passato regime, che,
come noto, era stato approvato dagli elettori nel 1924, 1929, 1934 e che nel
1939 aveva persino fatto a meno del voto. Gli bastavano le piazze piene di italiani
plaudenti, come ricorda Ugoberto Alfassio Grimaldi in “10 giugno 1940. Il
giorno della follia” (Laterza). La Costituzione repubblicana, in vigore dal 1°
gennaio 1948, vietò la riorganizzazione sotto qualsiasi forma del partito
fascista e l’esclusione dal voto dei “capi responsabili del regime fascista”
per non più di un quinquennio dall’entrata in vigore della Carta
costituzionale. Ma il regime non era stato solo di gerarchi. Fu una spugna che
si imbevve e rilasciò, dai cacumini ai sottoscala.
Nel 1946 il voto fu negato non
solo su indicazione politica. Nel caos ancora dilagante negli uffici comunali –
soprattutto nelle regioni settentrionali, dove i regimi si erano alternati
convulsamente: Regno d’Italia, Repubblica sociale italiana, ritorno del Regno
in regime di costituzione provvisoria in forza del Dll 25 giugno 1944, n. 151
che rimise ai cittadini la scelta della forma dello Stato – un numero di
elettori imprecisato ma sicuramente alto non ricevette il certificato
elettorale per motivi burocratici mentre altri ne ebbero due. Le tessere
elettorali di Vittorio Emanuele e della Regina Elena, partiti dall’Italia il 9
maggio per l’abdicazione del re, vennero recapitate al Quirinale, a conferma
che non erano “esuli”, privati dei diritti politici, ma cittadini di pieno
diritto. Vittorio Emanuele lo rimase sino alla morte, il 28 dicembre 1947,
quattro giorni prima che la Costituzione, entrata il vigore il 1° gennaio 1948,
vietasse loro rientro e soggiorno in Italia, come avvenne per Umberto II, la
Regina Maria José e il loro figlio Vittorio Emanuele, alla nascita creato dal
nonno principe di Napoli. Molti di quanti non ricevettero la tessera elettorale
non si premurarono di chiederla nel timore di vedersela negare per motivi
politici, con tutte le possibili conseguenze pubbliche e private; altri perché,
per cause belliche o d’altra natura, erano irreperibili.
Infine non poterono votare le
centinaia di migliaia di militari italiani ancora prigionieri di guerra degli
inglesi in Sud Africa, India e altrove, degli Usa in America e di altri nemici:
greci, jugoslavi e soprattutto dei russi, che li restituirono con il
contagocce, protraendo l’agonia dell’attesa in quanti continuavano a sperare
rimanessero vivi. I generali Emilio Battisti della “Cuneense”, Umberto Ricagno
della “Julia” ed Etelvoldo Pascolini della “Piacenza” vennero trattenuti
dall’Unione Sovietica di Stalin sino al 1950 come “criminali di guerra”.
Una corposa documentazione
sulla Corte Suprema di Cassazione, contenente carte sullo svolgimento del
referendum, consultata da chi scrive con la guida del suo Sovrintendente Aldo
G. Ricci, mette in luce che a una miriade di persone (soprattutto ecclesiastici
in servizio presso case di cura) fu impedito di votare con i pretesti più
astrusi, così asfissiando il voto sicuramente monarchico.
Votanti e voti validi:
l’“unicum” negativo del 1946
Comunque, nella seconda e
ultima adunanza, convocata il 18 giugno 1946, la Suprema Corte confermò, con
piccole modifiche, i risultati già prospettati nella seduta precedente (10
giugno). La repubblica ottenne circa 12.700.000 suffragi, mentre la monarchia
si fermò a poco più di 10.700.000. Nell’insieme i voti per l’una o altra forma
di Stato sommarono a 23.400.000: 1.600.000 in meno dei votanti. Quei voti
mancanti comprendevano schede bianche, nulle, annullate o contestate, che
vennero conteggiate solo dopo il 10 giugno, su richiesta del presidente della
Corte, Giuseppe Pagano. Prima nessuno si era premurato di computarli
analiticamente. Il riepilogo dei voti delle circoscrizioni elettorali venne
scritto a penna sul retro di fogli stampati (la carta non andava sprecata),
ripartiti grossolanamente su due colonne sormontate da una “R” da una “M”,
scritte a penna, sotto le quali furono annotati e sommati solo i voti validi
riportati dalle due opzioni. Il computo dei voti non validi avvenne nei giorni
13-17 giugno sulla base dei verbali estratti dai sacchi inviati all’Ufficio
Elettorale Centrale dagli Uffici Elettorali Circoscrizionali. Una massa di
impiegati lo effettuò con calcolatrici. I dati furono stampati su rotoli
sbiaditi tuttora conservati nel citato fondo dell’Archivio Centrale dello
Stato. Le somme degli esiti parziali vennero fatte via via a matita sulle
strisciate, quando capitava. Da un primo riscontro balza “ictu oculi” che
spesso “i conti non tornano”. Ma ormai poco importa. Un voluminoso brogliaccio
evidenzia che alla vigilia della proclamazione dei risultati mancavano quelli
veramente definitivi di migliaia di seggi.
Ma dalle 16 del 13 giugno
Umberto II aveva lasciato il suolo patrio alla volta del Portogallo. Partì da
Re, senza conoscere l’esito del referendum, che fu reso noto solo alle ore 18
del 18 giugno, quando venne comunicato dalla Cassazione, il cui presidente,
Pagano, lo lesse senza però procedere alla “proclamazione” della repubblica,
perché non era prevista. Essa “nacque”, dunque, solo per effetto del Dll che
aveva regolato la votazione referendaria. Di seguito, Pagano rifiutò di
accompagnare il democristiano Alcide De Gasperi al Quirinale, perché disgustato
dal “colpo di stato contro la lingua italiana” perpetrato a maggioranza dalla
Suprema Corte. Infatti questa un’ora prima dell’apertura dell’adunanza
conclusiva con dodici voti contro sei (fra i quali il suo) aveva deciso che per
“votante” s’intende solo il “voto valido” anziché, come sostenuto dal
procuratore generale della Corte, Massimo Pilotti, magistrato integerrimo, il
voto espresso da chi si reca al seggio, ritira la scheda, si reca in cabina, ne
esce e la riconsegna: votata, annullata, bianca o poi dichiarata nulla dagli
scrutatori. Che per votante si intende chi va a votare, non solo i voti validi,
è l’interpretazione adottata in tutte le elezioni politiche e amministrative
dal 1948 in poi, così come era avvenuto nel regno di Sardegna e in quello
d’Italia dal 1848 al fatale referendum del 1946, che costituisce dunque un
“unicum” negativo nella storia elettorale italiana.
Ma quando nacque la repubblica
italiana?
Il 19 giugno 1946 uscì il
primo numero della “Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana”. La quale
Repubblica, invero, era già stata proclamata e festeggiata varie volte nei
giorni precedenti. La prima fu nella notte tra il 10 e martedì 11, quando nel
corso di un affannoso consiglio dei Ministri il socialista Pietro Nenni ne
propose l’immediata instaurazione e fece proclamare festivo il giorno medesimo.
Non se ne fece niente. La pressione per la svolta crebbe però di ora in ora.
Per saperne di più basta leggere l’edizione critica dei Verbali del Consiglio
dei Ministri curata da Aldo G. Ricci: un’opera poderosa e assai più
interessante dei “romanzetti storici” sempre più dilaganti, perché le fiabe
hanno la meglio sulla verità storica documentata sulla base degli archivi.
Le posizioni erano chiare,
nette e inconciliabili. Da un canto il governo aveva fretta di rompere gli
indugi e voltare pagina. Con sorpresa degli osservatori esteri, malgrado i toni
della campagna elettorale, spesso esasperati, violenti e persino volgari
(contro il re si scagliò anche un generale che non merita menzione), le
votazioni del 2-3 giugno si erano svolte in un clima complessivamente sereno.
Anche i primi giorni degli scrutini non avevano dato adito a manifestazioni pro
o contro uno o l’altro contendente. Poi, però, il clima iniziò a
surriscaldarsi. Numerosi ricorsi chiesero la nullità radicale del referendum.
Tra i molti due prevalsero. Uno, presentato dall’on. Enzo Selvaggi, chiese il
chiarimento del conflitto formale e sostanziale tra “votanti” e “voti validi”.
La questione era già stata posta al presidente del Consiglio De Gasperi, da
Selvaggi e dal presidente del Partito liberale italiano, Giovanni Cassandro,
“maestro di color che sanno”. “Fondare” la vittoria dell’una o altra opzione
sui soli voti validi comportava di conferirla a una minoranza. Il vincitore
doveva mostrare di avere il consenso almeno della metà più uno dei votanti, il
cui numero doveva essere correttamente computato e comunicato dal ministero
dell’Interno. Il suo titolare, Giuseppe Romita, era dichiaratamente
repubblicano e, come scrisse nelle memorie, si era proposto da sempre la
demolizione della monarchia sabauda. Un secondo rilevante ricorso, propugnato
dal liberale Edgardo (Eddy) Sogno, valoroso comandante partigiano, chiedeva la
nullità del referendum per l’esclusione dal voto della XII Circoscrizione
elettorale. Ora dopo ora la tensione crebbe. In un colloquio con il generale
Adolfo Infante, aiutante di campo di Umberto II, il pacioso contrammiraglio
americano Ellery Stone disse che la Commissione Alleata in Italia, di cui era
Capo, non intendeva intromettersi nella questione monarchia/repubblica: un
“affare interno” dell’Italia ed egli doveva preoccuparsi dell’opinione pubblica
del suo paese (filo-repubblicana). Aggiunse che i monarchici, se ritenevano di
averne, dovevano far valere i loro diritti “con le loro mani”. Alla “far west”,
insomma, anziché in punto di diritto. Quali rischi questa linea comportasse si
vide a Napoli ove una dimostrazione popolare di monarchici inermi contro la
sede del Partito comunista italiano fu bersagliata da colpi d’arma da fuoco,
sia degli “assediati”, sia di forze dell’ordine, che in via Medina causarono
morti e feriti. La situazione stava divenendo incandescente.
La posizione del Re era e
rimase limpida. Il 5 giugno fece partire di fretta la Regina e i figli dal
Quirinale per Napoli. L’indomani la sua famiglia si imbarcò sul “Duca degli
Abruzzi” di rientro da Alessandria d’Egitto, ove aveva recato Vittorio Emanuele
III, ormai “conte di Pollenzo”, con la consorte Elena, e salpò alla volta del
Portogallo. Il sovrano però era determinato ad attendere la conclusione formale
del referendum: la pronuncia della Corte Suprema di Cassazione, come previsto
dalla legge istitutiva del referendum. Garante della legalità il Re non poteva
e non voleva sottrarsi alla legge ma, al tempo stesso, chiedeva al governo di
rispettarla. Come sopra accennato, l’adunanza del 10 giugno non fu concludente
perché risultavano mancanti i verbali di circa 150 seggi. Un’inezia,
secondo molti esagitati. Ma la legge non
ammette scorciatoie, soprattutto quando sia in campo niente meno che la forma
dello Stato. Dopotutto, proprio perché forti del risultato provvisorio,
nettamente favorevole, i repubblicani non avevano motivo di violare la legge
con misure affrettate.
Invece proprio la fretta fu
cattiva consigliera. Alle 0:30 del 13 giugno, con il voto contrario del solo
Leone Cattani, il consiglio dei ministri conferì al presidente De Gasperi,
democristiano, l’esercizio delle funzioni di Capo dello Stato. De Gasperi le
accettò e suggellò a quel modo un greve “patto” con gli alleati di governo che
precipitava verso una soluzione forzatamente traumatica. L’Italia si trovò con
due capi di Stato, inevitabilmente contrapposti: un contrasto potenzialmente
esplosivo poiché i militari avevano giurato fedeltà al Re. Che cosa fare?
Informato che gli anglo-americani non ne garantivano l’incolumità fisica,
vagliate varie opzioni (sciogliere il governo e nominarne un altro, arroccarsi
nel Quirinale, lasciare Roma per una città nettamente monarchica), Umberto II
decise di lasciare l’Italia e protestare contro il “colpo di Stato”,
ridimensionato a “gesto rivoluzionario” nel Proclama lanciato agli italiani
dopo la partenza da Ciampino alle 16 del 13 giugno. De Gasperi replicò con una
prolissa dichiarazione polemica poco apprezzata anche Oltre Tevere.
All’arrivo in Portogallo il Re
scrisse a Falcone Lucifero, ministro della Real Casa, di essere rimasto vittima
di un “truc”, un misto di fascinazione e imbroglio. A cospetto della sua
condotta pacata, gli era stata fatta intravvedere una soluzione conciliativa.
Invece i costituenti si preparavano a rubricare e a combattere i monarchici
come nemici dell’ordine dello Stato he essi stessi avevano fondato. Non solo.
Era stato Vittorio Emanuele III a revocare Mussolini e ad approvare la resa che
nel settembre 1943 aveva salvaguardato il riconoscimento dell’integrità
territoriale dell’Italia, riconosciuta co-belligerante delle Nazioni Unite
dalla dichiarazione di guerra alla Germania del 13 ottobre. Di quei meriti
indiscutibili non si volle tenere alcun conto, come poi venne calato un velo di
silenzio sul concorso dei monarchici alla guerra di liberazione, con il Fronte
monarchico clandestino dell’eroico Giuseppe Cordero di Montezemolo, con le
tante formazioni partigiane dichiaratamente monarchiche e con il generale
Raffaele Cadorna al comando del Corpo Volontari della Libertà.
Molti nodi rimasero
ingarbugliati malgrado i colpi di mano politici. Lo conferma il Comunicato
della Presidenza del Consiglio dei Ministri sull’insediamento del Capo
Provvisorio dello Stato pubblicato dalla “Gazzetta Ufficiale” del 1° luglio
1946: «Oggi alle ore 13 in un sala di Montecitorio [non al Quirinale, NdA] ha
avuto luogo l’insediamento del Capo Provvisorio dello Stato On. Enrico De
Nicola, al quale l’On. De Gasperi ha trasmesso i poteri di Presidente della
Repubblica, da lui esercitati, nella sua qualità di presidente del Consiglio
dal giorno dell’annuncio dei risultati definitivi del referendum istituzionale»
(corsivo dell’Autore). Ma non li aveva assunti il 13 giugno? Chi li aveva
esercitati fra il 13 e il 19 di quel mese? Tante cose andavano dimenticate in
quei giorni e tante altre andavano sepolte nell’oblio. Enrico De Nicola era
presidente della Camera all’insediamento del governo Mussolini, il 31 ottobre
1922, e non aveva battuto ciglio quando, nel suo primo intervento da presidente
del Consiglio, il duce aveva detto che avrebbe potuto trasformarla in un
bivacco per i manipoli delle camicie nere. Nella stessa seduta De Gasperi aveva
pronunciato il voto del Partito popolare italiano a favore del governo
Mussolini, nel quale sedeva con ministri e sottosegretari, come Giovanni
Gronchi, futuro presidente della Repubblica.
Un’Italia divisa in due, ma
con qualche eccezione
Al referendum istituzionale i
voti validi per la repubblica furono il 39,1% in Sardegna, 35,3% in Sicilia,
32,6% nell’Italia meridionale, 63,5% in quella Centrale e 64,5% nella
Settentrionale, ove la monarchia ebbe appena il 35,2% dei consensi, mentre ottenne
il 36,2% nella Centrale, il 67,2% nella Meridionale, il 64,7% in Sicilia e il
60,9% in Sardegna. Ma non tutte le regioni dell’Italia centro-settentrionale
furono compattamente repubblicane. Nel Lazio la monarchia prevalse nelle
province di Roma, Rieti e Frosinone, la terra che aveva sofferto gli orrori
delle truppe marocchine. Nella Capitale la repubblica ottenne appena il 46,2%
dei voti validi. Tra i capoluoghi di provincia Roma si collocò al sessantesimo
per simpatie repubblicane. Dopo averne viste tante nei secoli, preferiva
l’“usato sicuro”.
Nell’Italia settentrionale a
favore della monarchia si schierarono le province di Cuneo, Asti, Bergamo e
Padova, nei cui capoluoghi, per altro, vinse la repubblica (56,1% ad Asti, 54%
a Cuneo, 52,6% a Bergamo e 51,7% a Padova). Ma a prevalere, in quelle terre del
Nord, fu la “provincia profonda”, nettamente distinta dalle altre delle
medesime regioni. Erano una retrograda Vandea o una civiltà del buon tempo
antico? Mentre ad Asti la monarchia si attestò appena oltre la soglia del 50%,
nella “Granda” essa ottenne il 54,2% dei voti validi.
Il Cuneese è noto sia come
seconda culla dei Savoia, sia come “capitale della Resistenza”. È
un’“eccezione” che merita di essere approfondita, perché è anche un
osservatorio per capire una terra di frontiera e cerniera d’Europa. Ne
parleremo ancora.
Fonte
“La Granda”, un’eccezione monarchica - Civico20 (civico20-news.it)