NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

sabato 6 settembre 2025

I CLN PER L'ABDICAZIONE DEL RE

 

L'Abbazia di Montecassino, distrutta dagli Alleati con un “bombardamento pedagogico” militarmente inutile, deprecabile da ogni punto di vista.


 

di Aldo A. Mola

 

L'Italia divisa in due...

   A fine gennaio del 1944 l'avanzata degli anglo-americani e del corpo “francese” comandato dal generale Alphonse Pierre Juin continuava a stagnare poco oltre il Garigliano. La “linea Gustav” tedesca reggeva. Lo sbarco ad Anzio-Nettuno non fu affatto risolutivo. Gli Alleati avevano tre obiettivi fondamentali: perdere meno uomini possibile su quel fronte; impegnare tedeschi nell'Italia centro-meridionale per trovarsene meno in Normandia; soggiogare ogni aspirazione autonoma di Vittorio Emanuele III e del governo italiano. A quest'ultimo scopo occorreva moltiplicare e divaricare i partiti e attizzare le rivalità. Infine sarebbe stato necessario “impartire una lezione” per far capire che nulla li avrebbe fermati. A metà febbraio distrussero dal cielo l'Abbazia di Montecassino: preludio di altri “bombardamenti pedagogici”.

 

   Il 28-29 gennaio 1944 al teatro comunale “Piccinni” di Bari si svolse il congresso dei Comitati di liberazione nazionale (Cln). Le correnti e i partiti antifascisti stentavano a trovare unità d'intenti. Continuavano a disconoscere il governo del re, che però rimaneva l'unico interlocutore delle Nazioni Unite. A quell'appuntamento i Cln arrivarono dopo lungo e accidentato cammino. Il 24 novembre 1943 i comitati pugliesi si radunarono a Bari per programmare un congresso con la più ampia partecipazione possibile. Il 4 dicembre questi e i comitati campani proposero di convocare il congresso il 20 dicembre a Napoli. L'Amministrazione militare alleata negò l'autorizzazione per motivi di sicurezza. La Campania era retrovia di operazioni belliche.

   I promotori, tra i quali il liberale Benedetto Croce e il comunista Eugenio Reale (1905-1986), inviarono una protesta al presidente degli USA Roosevelt, al premier britannico Churchill e al maresciallo sovietico Stalin, assicurando che i congressisti non avrebbero attizzato disordini. Vennero ignorati. Progettarono di far partecipare anche i rappresentanti dei Cln clandestini sorti in regioni controllate dalla Repubblica sociale italiana e delle comunità di antifascisti italiani all'estero, anzitutto degli Stati Uniti d'America. Un proposito risultò irrealizzabile.

 

… e preda di quattro guerre

   Da settembre l'Italia era teatro di quattro guerre: quella delle Nazioni Unite contro la Germania e i suoi alleati (e quindi contro l'Italia centro-settentrionale, martellata da bombardamenti); quella del governo del re, cobelligerante contro la Germania e i suoi satelliti (13 ottobre); quella tra fascisti repubblicani e bande di antifascisti, sia repubblicani sia monarchici; e infine quella, dapprima condotta in sordina, poi conclamata, di Stati che consideravano nemica l'Italia nel suo insieme e miravano ad annetterne una parte. Il Paese fu chiuso nella tenaglia della Jugoslavia di Tito ad est e della Francia di De Gaulle a ovest. Quest'ultima, appena le fu possibile, tornò a dichiararsi in guerra contro l'Italia: una condotta nel cui ambito si collocarono le famigerate imprese dei “marocchini” comandati dal generale Juin.

   Alle quattro diverse guerre, ciascuna condotta secondo sue regole, si aggiunsero le contese dei partiti antifascisti, sia tra loro (quelli di sinistra e partito d'azione da un canto, democratici del lavoro, democristiani e liberali dall'altro), sia fra le diverse correnti in cui ciascuno di essi era diviso, sia, infine, nel loro insieme contro il Re e il Governo.

   L'Italia era dunque un mosaico di soggetti, e di  programmi e posizioni il cui disegno mutava in funzione dell'andamento generale della guerra condotta dalle Nazioni Unite non solo contro la Germania ma anche contro il Giappone, in un quadro globale niente affatto univoco. Mentre nel teatro europeo le Nazioni Unite operavano in convergenza, in quello asiatico erano divise. L'Urss di Stalin dichiarò guerra al Giappone solo l'8 agosto 1945, due giorni dopo il bombardamento atomico statunitense su Hiroshima. A sua volta il governo italiano riluttò a dichiarare guerra al Giappone (lo fece il 15 luglio 1945). Non per mancanza di condivisione degli ideali che avrebbero potuto giustificare l'intervento, ma in assenza di una motivazione plausibile e, soprattutto, nel timore che avrebbe dovuto onorare l'impegno inviando nel Pacifico il meglio della sua flotta: uno dei beni più preziosi del Regno d'Italia. Quel conflitto fu chiuso nel 1972, con una composizione amministrativa.

 

L'offensiva di Croce e di Sforza contro il Re

   Ai tanti conflitti che da anni imperversavano in Italia si aggiunse la richiesta perentoria  di alcuni partiti (segnatamente comunisti, socialisti, azionisti, frange della nascente democrazia cristiana e notabili di area liberale e “democratica”) che Vittorio Emanuele III abdicasse immediatamente. Il 24 ottobre 1943, neppure un mese dopo l'“armistizio lungo”, Badoglio informò il Re. Volevano la sua abdicazione, la rinuncia al trono da parte di suo figlio Umberto e il conferimento della corona al nipote, Vittorio Emanuele, principe di Napoli, di sette anni, assistito da un reggente. Fatto consultare riservatamente Carlo Sforza, indicato da Badoglio quale alfiere della lotta contro la monarchia, il Re ammonì il maresciallo, capo di un ministero “striminzito e inefficace”, a non contare sulla sua abdicazione. Per saggiarne la vanità e privarlo della possibilità di ostentarsi vittima di ostracismo da parte del sovrano, Vittorio Emanuele III fece proporre a Sforza di entrare in un nuovo governo e si assicurò della fedeltà delle forze armate, consolidate dal rientro in Italia del maresciallo Giovanni Messe, già suo aiutante di campo e massone, rilasciato dagli inglesi e nominato capo di stato maggiore generale il 18 novembre 1943 in successione ad Ambrosio.

   In prossimità del nuovo anno, il 28 dicembre 1943 Vittorio Emanuele III scrisse di suo pugno e diramò un messaggio radiofonico agli italiani. Omettendo tante schermaglie, il 23 gennaio 1944, in prossimità dell'annunciato congresso dei Cln a Bari, il re consegnò al capomissione alleata Noel Mason Mac Farlane un “appunto” sulle proprie intenzioni. Alla liberazione di Roma il governo tecnico-militare sarebbe stato sostituito da un ministero formato da esponenti di tutti i partiti e nessun compromesso col fascismo. Quattro mesi dopo la pace sarebbe stata eletta la Camera dei deputati e il Senato avrebbe ripreso le sedute. Il parlamento avrebbe discusso le istituzioni, anche riformandole completamente. In libera consultazione il Paese si sarebbe pronunciato sulla decisione delle Camere. La Corona avrebbe accettato il verdetto popolare. Però fino a quel momento tutti gli sforzi dovevano rimanere concentrati nella lotta di liberazione.

   Oltre quella linea il Re non poteva andare. Toccava a lui guidare l'Italia sino alla liberazione di Roma ove, sin dal 16 dicembre, aveva chiesto di entrare “contemporaneamente alle truppe”.

 

Le proposte del Congresso dei

   I lavori del congresso dei Cln a Bari, presieduti da Michele Cifarelli, esponente del partito d'azione e futuro parlamentare di quello repubblicano, si svolsero nell'intera giornata del 28 gennaio 1944 e proseguirono la mattina del 29. Furono aperti dal discorso di Croce su “La libertà italiana nella libertà del mondo”. Esso contenne un aspro passaggio polemico nei confronti del re, la cui abdicazione immediata egli chiese affinché gli italiani potessero “respirare liberamente”. I temi all'ordine del giorno erano le condizioni del Paese, l'organizzazione di volontari da affiancare all'esercito, il quadro politico internazionale, l'inflazione galoppante, la svalutazione della lira, l’emissione delle Am-lire e l’istituzione di un organo di collegamento tra i Cln e gli anglo-americani.

   Dopo veementi invettive contro il sovrano e la monarchia, Sforza propose l'invio di telegrammi al Congresso degli USA, alla Camera dei Comuni, a Stalin, De Gaulle, Chang Kai Schek e ai popoli della Jugoslavia e della Grecia. I Cln si ersero a soggetti titolari della politica estera, alternativi al Re e al suo Governo.

   Nella seduta pomeridiana, presieduta da Alberto Cianca, esponente del partito d'azione, il liberale Vincenzo Arangio-Ruiz ricordò ai partecipanti che almeno metà degli italiani erano favorevoli alla monarchia: perciò la soluzione della questione istituzionale andava rimessa al voto popolare, ma a pace raggiunta. Nel frattempo occorreva unità di intenti per garantire la sopravvivenza dell'Italia. Dopo di lui l'azionista Tommaso Fiore si scagliò contro il re, complice di Mussolini, e contro Badoglio. Concordò con Arangio-Ruiz sulla necessità di un’unione antifascista, da lui intesa, però, come fronte unico su posizioni antimonarchiche.

   La mattina del 29 gennaio i congressisti chiesero la formazione di un governo composto da esponenti dei sei partiti dei Cln, dotato di pieni poteri per compiere il massimo sforzo nella guerra contro il nazifascismo e per risolvere gli immensi problemi economici e sociali incombenti. Deliberarono anche la nascita di una Giunta esecutiva permanente formata da esponenti dei partiti dei Cln locali di concerto con il Cln Centrale: una sorta di governo alternativo a quello del re. Sforza concluse i lavori con un appello all’unità e alla fiducia nell'Italia libera, esortando a impedire attacchi reazionari contro la democrazia. Anche il suo secondo discorso risultò «violento e pieno di insulti all'indirizzo del Re», come nel “Diario” annotò il generale Paolo Puntoni. Di seguito i congressisti approvarono la richiesta di abdicazione immediata di Vittorio Emanuele III, senza entrare nel merito della successione al trono.

 

Un groviglio caotico

   Ancora esule nell'Unione Sovietica, il segretario del partito comunista italiano, Palmiro Togliatti, liquidò il congresso di Bari come un chiassoso “comizio antimonarchico”, irrilevante sotto il profilo politico interno e internazionale. Percepì con chiarezza che gli azionisti, al pari dei democratici del lavoro (o laburisti: erano ancora incerti sulla propria denominazione), non avevano e non avrebbero avuto seguito elettorale. I dirigenti della democrazia cristiana (compresi Alcide De Gasperi e Giovanni Gronchi) dovevano far dimenticare il sostegno dato all'avvento e al radicamento del governo Mussolini nel 1922-1924 (Gronchi era stato sottosegretario all'Industria, accanto al ministro giolittiano Teofilo Rossi di Montelera). Essi erano consapevoli che la base del loro elettorato era monarchica, non per devozione ai Savoia ma per la radicata diffidenza del “cittadino normale” (di cui parla Salvatore Satta in “De Profundis”) verso le “novità”: un “terreno ignoto”, come si prospettava la “repubblica”. Togliatti pensava infine che l'elettorato del partito socialista italiano di unità popolare, comprendente varie tendenze, era in gran parte fermo al riformismo di Turati e Treves e aveva per punto di riferimento iconico Giacomo Matteotti, dai toni talvolta rivoluzionari ma fermamente anticomunista. L'unità d'azione siglata in Francia tra il Pci e il Psi di Pietro Nenni nell'opinione dei socialisti italiani aveva già subìto lo scossone del brusco voltafaccia dei comunisti all'indomani del patto di non aggressione tra Hitler e Stalin nell'agosto 1939. Ligi alla Terza Internazionale i comunisti avevano voltato le spalle agli altri partiti antifascisti sino a quando nel giugno 1941 Hitler scatenò l'operazione Barbarossa contro l'Urss. Ora, però, si valevano del prestigio conquistato dall’Unione Sovietica grazie alla “grande guerra patriottica” contro l'avanzata germanica.

   Ivanoe Bonomi, presidente del Comitato centrale di liberazione nazionale, attivo in Roma nella più circospetta clandestinità, accolse con molta perplessità gli ordini del giorno approvati dai Cln adunati a Bari. All'avvento della RSI mussoliniana Bonomi commentò nel “Diario” la “frattura” che essa avrebbe determinato tra il Nord e il Sud d'Italia: «Il Nord e il Centro che hanno già fatto esperienze repubblicane con la Repubblica Cisalpina [in età franco-napoleonica, 1796-1804, NdA] e con le due repubbliche di Venezia e di Roma [1848-1849, NdA] si abitueranno a considerare la Monarchia come un regime che può essere rovesciato; il Mezzogiorno invece, che ha già una lunga tradizione monarchica, continuerà a considerare la monarchia come un istituto che non si discute perché radicato in una lunga e ininterrotta consuetudine.» Per chi la conosca, e Bonomi la conosceva, la storia è “magistra vitae”. Nessuno poteva cancellare l'impronta lasciata nel Mezzogiorno dai sacri romani imperatori, dai re Normanni e Aragonesi, dagli Asburgo di Spagna e d'Austria e, infine, dai Borbone di Spagna, durati dal 1737 fino all'arrivo in Napoli di Giuseppe Garibaldi con l'insegna “Italia e Vittorio Emanuele”, pronto a salutare Monsù Savoia “Re d'Italia” quando questi gli andò incontro a cavallo a Vairano Catena, presso Teano. Forma di religiosità, la monarchia era metastorica, radicata nel mito. Il rifiuto di collaborare con il governo Badoglio non implicava ostilità verso la figura del re in quanto tale, ma era la reazione alla predilezione accordata da Vittorio Emanuele III a militari e “tecnici” anziché ad antifascisti che, come Bonomi stesso, avevano attraversato il regime convinti che prima o poi quest’ultimo sarebbe stato travolto dai suoi errori.

   A conferma, il 16 ottobre 1943, tre giorni dopo la dichiarazione di guerra dell'Italia alla Germania, il Cln chiese la «costituzione di un governo straordinario che sia l'espressione di quelle forze politiche le quali hanno costantemente lottato contro la dittatura fascista e fin dal settembre 1939 si sono schierate contro la guerra nazista [a differenza del Pci, NdA]». Tale richiesta si accompagnava a quella di evitare «ogni atteggiamento che possa compromettere la concordia della nazione e pregiudicare la futura decisione popolare», rinviata alla cessazione delle ostilità, quando il popolo sarebbe stato convocato «per decidere sulla forma istituzionale dello Stato». Esattamente come proponeva Vittorio Emanuele III.

   Significativamente Bonomi non commentò nel “Diario” il congresso di Bari. Oltre un mese dopo, il 6 marzo 1944 egli inviò al CCln la Dichiarazione redatta il 2 precedente, «riflesso del suo fermo convincimento che inspirerà e indirizzerà la sua azione futura». Messe da parte le posizioni unilaterali (come quelle accesamente antimonarchiche del Psi e del PdA), occorreva promuovere la “guerra per bande” (poi detta “partigiana” e infine dei “volontari della libertà”, posti agli ordini del generale Raffaele Cadorna, monarchico), in aggiunta (non in alternativa) all’«azione preminente e decisiva delle forze armate dello Stato italiano». «La guerra nazionale – precisò Bonomi – ha bisogno della concordia nazionale.» Perciò bisognava «accantonare la questione della forma dello Stato, per rifare così l'unità spirituale degli italiani per la guerra e per la vittoria». «La richiesta dell'abdicazione dell'attuale re non può passare innanzi e comunque indebolire la richiesta dell'assemblea incaricata di deliberare, a territorio nazionale liberato, la nuova costituzione dello Stato.» In sé l’abdicazione non risolveva comunque la necessità di assicurare allo Stato un Capo sino al raggiungimento della pace. Posto che, a guerra ancora in corso, esso non poteva essere espresso dai cittadini, doveva continuare a esserlo il sovrano regnante o il suo successore, in attesa della vittoria finale. Presidente del CCln, Bonomi non dimenticava il suo rango di “cugino del re”, essendo stato insignito del collare della Santissima Annunziata il 21 dicembre 1920: lo stesso giorno di Sforza, che però mostrava “sensibilità” ben diversa dalla sua.

 

Le “bande” e la Rsi

   Le informazioni di cui Bonomi disponeva indicavano che le “bande” di volontari stentavano a costituire una forza decisiva per l'abbattimento della repubblica mussoliniana affiancata dai tedeschi. Questa si reggeva non solo sulla repressione di antifascisti notori e di partigiani (soprattutto con la spietata eliminazione dei militari), ma anche sulla forza di inerzia della vita quotidiana, sul funzionamento dell'amministrazione pubblica, in specie quella locale, e sull’elusione di misure troppo impopolari, causa di collasso sociale e di incontenibile ribellione di massa. Se non impedì le razzie di ebrei destinati alla deportazione nei campi germanici di sterminio (l'amministrazione anzi concorse alla sua attuazione mettendo a disposizione la schedatura degli ebrei effettuata all'indomani delle leggi del 1938), Mussolini concesse invece poco spazio e nessun potere autonomo ad antisemiti e massonofagi fanatici, come un antico spretato che il duce, superstizioso qual era, evitava di ricevere. Ferrovie, poste, scuole, dalle elementari alle università, e servizi annonari nell'Italia settentrionale continuarono a funzionare con una certa regolarità sino a fine aprile del 1945.

   Tra il settembre 1943 e la primavera del 1944 le “bande” impiegarono tempo a prendere corpo. Nuto Revelli, una delle sue “voci” più note dagli Anni Sessanta del Novecento, rientrato dalla disastrosa campagna di Russia, annotò in appunti diaristici di aver costituito con altri ufficiali del regio esercito la “1^ Compagnia rivendicazione caduti” (5 ottobre 1943), diffidente nei confronti dei politici (“La guerra dei poveri”, Torino, Einaudi, 1963, p. 141). Dante Livio Bianco, avvocato, già iscritto al Pnf, esponente di spicco della banda “Italia Libera” fondata nel cuneese da Duccio Galimberti e militante del partito d'azione, al primo incontro con Revelli e gli ufficiali Faustino Dalmazzo e Giovanni Delfino (13 novembre) annotò a sua volta nel “Diario”: «Si tratta di militari senza alcuna idea politica: speriamo però di averli scossi dal loro atteggiamento.» Solo quando si ebbe notizia dello sbarco anglo-americano a Nettuno (8 febbraio), che illuse sulla rapida avanzata degli Alleati verso Roma ma rischiò di risolversi in uno scacco, e dopo aver preso contatto con altre formazioni partigiane (ne ha scritto Aldo Sacchetti in “Un romano tra i ribelli”, Cuneo, L’Arciere, 1990), Revelli decise di aggregarsi alla “banda” di Bianco in una “atmosfera di simpatia” scaturita anche dalla scoperta che erano entrambi figli di massoni.

 

   Il congresso dei Cln a Bari non risolse dunque nessuno dei tanti assilli dell'Italia in guerra. Semmai indebolì il governo e concorse a isolare il Re: due obiettivi che gli Alleati perseguivano per retrocedere l'Italia a “potenza” di terza fila.

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