di Aldo A. Mola
Elena di Savoia, medico-chirurgo “honoris
causa”
Il 27 maggio 1940 il Consiglio della Facoltà di
Medicina dell'Università “La Sapienza” di Roma approvò la proposta del suo
presidente, Giovanni Perez, di conferire la laurea in Medicina e chirurgia
“honoris causa” “a Augusta Persona”, meritevole per «l’attuazione in Italia di
un metodo terapeutico che con fine intuito concepì per le desolanti conseguenze
di una fra le più grandi malattie, l'encefalite letargica o epidemica»: la
cura, cioè, del Parkinsonismo post encefalico.
Presenziarono i nomi più prestigiosi della
sanità in Italia, quali Cesare Frugoni ed Eugenio Morelli. Il nome
dell'insignita, Jelena Petrovic, rimase riservato. Era Elena di Savoia, Regina
d'Italia. Il 30 maggio il ministro dell'Educazione Nazionale, Giuseppe Bottai,
antico iniziato alla loggia massonica “La Forgia” di Roma, approvò. Accolti dai
sovrani a Villa Savoia il 2 giugno Bottai, Perez e il rettore dell'Università,
Pietro de Francisci, consegnarono personalmente il diploma di laurea alla
Regina più amata dagli italiani. Erano giorni bui. Lasciati cadere gli inviti a
desistere, giunti anche dal presidente degli USA, Franklin D. Roosevelt,
ipotizzando un imminente armistizio tra Germania, Francia a Gran Bretagna, in
guerra dal 1° settembre 1939, e e di
potervi svolgere il ruolo di mediatore, Mussolini premeva per entrare in guerra
a fianco di Hitler. L'attacco da sud-est offriva alla Francia il motivo di
arrendersi e scongiurava il rischio che i tedeschi giungessero sul
Mediterraneo. Ascoltate le voci più autorevoli del Paese, il Re assecondò.
La
Regina, annota Maurizio Grandi nell'incipit di “I farmaci e la meccanica
quantistica della dottoressa Jelena, la Regina d’Italia” (ed. Torino, La
Lorre), fu «tra coloro che connotavano il lavoro “scientifico” con fervore
visionario e entusiasmo. Ideale di un impegno intenso e in prima persona.
Reazione contro l'idea di un universo meccanico, [la Regina Elena, NdA] favorì
la nascita di una scienza fatta da forze invisibili e energie misteriose». Era
una Luce giunta in Italia da Oriente, col suo matrimonio con Vittorio Emanuele
di Savoia, principe di Napoli, il 24 ottobre 1896: una scelta propiziata da
politici sagaci come il siciliano Francesco Crispi. Nel tempo, i Savoia si
erano uniti alle grandi Case dell'Europa centro-occidentale, dagli Asburgo (sia
d'Austria, sia di Spagna), ai Borbone (di Francia, Spagna e delle Due Sicilie)
e della Germania. Figlia di Nicola, principe (poi re) del Montenegro, come lo
zar e molti sovrani dell'Europa orientale Jelena di Montenegro era di
confessione ortodossa.
Malgrado esploratori di talento, annota Grandi, a fine Ottocento per la
quasi totalità degli italiani il Montenegro era un mondo pressoché sconosciuto.
In parte lo rimane tuttora. Solo l'1,5% dei turisti che annualmente lo visitano
sono italiani. Perciò la storia dell'attuale Repubblica del Montenegro merita
un sintetico ripasso.
Il 13 luglio 1878: quando il Montenegro
divenne Stato
Poche miglia marine separano la costa orientale
della Penisola dalle Bocche di Cattaro. Eppure per secoli l'Adriatico
meridionale nella percezione degli abitanti degli Stati preunitari italiani
(Venezia a parte) rimase più largo di un oceano. Al di qua vi erano il Sacro
romano impero e i Principi ai quali venne via via delegato l'esercizio del
potere. Al di là, dopo la caduta di Costantinopoli nelle mani di Maometto II
(1453), improvvisamente ci fu l'ignoto, anzi un nemico mortale, l'impero
turco-ottomano, giunto ad assediare Vienna e fermato solo tra Sei e Settecento
da Eugenio di Savoia che lo sconfisse a Zenta, a Petervaradino e a Belgrado,
come documentò S.A.R. la Principessa Maria Gabriella di Savoia in una dotta
conferenza svolta in perfetto francese al Castello di Racconigi. Perciò si
susseguirono secoli di disattenzione nei confronti delle popolazioni indomite
che al di là dell'Adriatico difendevano strenuamente la propria indipendenza,
radicata anche nella confessione cristiana ortodossa. Solo nell'ultimo quarto
dell'Ottocento un'esigua pattuglia di “politici” colti e lungimiranti scoprì
l'esistenza del Montenegro e ne comprese l'identità, soprattutto da quando, a
conclusione del Congresso di Berlino (13 giugno-13 luglio 1878), esso venne
riconosciuto quale Stato sovrano dalla Comunità internazionale.
Dopo
la feroce guerra franco-prussiana e la proclamazione dell'Impero di Germania
(1870-1871) l'Europa rimaneva in fibrillazione. Ad allentare la tensione non
era bastata l'Alleanza degli imperatori di Russia, Germania e Austria-Ungheria
(1873). Nel 1877 la guerra russo-turca, segnata da orrori medievali, rimise in
discussione l'impero ottomano, classificato come il “grande malato di Oriente”.
La pace di Santo Stefano (3 marzo 1878) chiuse quel conflitto a vantaggio dello
zar, ma le sue conseguenze andavano condivise e ratificate dalle “grandi
potenze”. Occorreva appunto un “Congresso”, come era avvenuto a Parigi nel
1856, al termine della guerra anglo-franco-turca (con adesione del regno di
Sardegna) contro l'impero russo e, più addietro ancora, nel 1815 a Vienna,
inizio del “secolo della pace” (1815-1914). Come scosse telluriche a bassa
intensità, i conflitti “di teatro” scaricavano la tensione in aree
circoscritte, rinviando il terremoto devastante: la conflagrazione europea.
Il
“concerto delle grandi potenze” in realtà non accettava un unico direttore
d'orchestra. Perciò ogni Stato suonava per proprio conto. Spesso steccava. Il
bisogno di adottare uno spartito comune si impose (o così si ritenne di fare)
con l'ultimo Congresso di pace dell'Ottocento, voluto dal Cancelliere germanico
Otto von Bismarck. Bisognava prendere atto delle “nazioni senza Stato” e dare
loro un assetto senza causare la deflagrazione degl'imperi turco e asburgico.
La politica di equilibrio aveva già accettato le due principali “novità” di
metà Ottocento: la costituzione del regno d'Italia nei confini del 1870 e
quella dell'impero di Germania proclamato nel Salone degli specchi di
Versailles sotto l'egemonia della Prussia. Però vi erano tabù intoccabili. Fu
il caso della cattolica Polonia che rimase spartita tra Russia (ortodossa),
Prussia (luterana) e impero d'Austria (prevalentemente cattolico).
Con il
trattato “di pace” del 13 luglio 1878 Austria-Ungheria, Francia, Germania, Gran
Bretagna, Russia e Turchia, «desiderando regolare in un pensiero d'ordine
europeo le questioni sollevate in Oriente dagli avvenimenti degli ultimi anni»,
raggiunsero «felicemente» l'intesa. Uno “strumento” di soli 64 articoli inglobò
e superò quelli di Parigi del 30 marzo 1856 e di Londra del 13 marzo 1871.
Alcune “partite” molto delicate erano già state risolte alla chetichella tra i
diretti interessati. Fu il caso dell'occupazione di Cipro da parte della Gran
Bretagna, pattuita con una convenzione segreta tra Londra e la Sublime Porta il
4 giugno 1878.
Le
innovazioni concordate dal Trattato di Berlino segnarono il successivo secolo e
mezzo della storia europea e in gran parte vigono tuttora. Gli articoli 1-11
riconobbero la Bulgaria come principato autonomo, con governo cristiano e
milizia nazionale, benché ancora tributario del Sultano, e con un sovrano
liberamente eletto dalla popolazione ma estraneo alle dinastie al potere nelle
Grandi potenze. Gli articoli 13-22 istituirono la Rumelia Orientale, retta da
un governatore generale nominato dalla Sublime Porta ma con temporanea
occupazione di truppe russe gravanti sulla popolazione. Il Sultano si impegnò
ad «applicare rigorosamente nell'isola di Creta il regolamento organico del
1868» con eque modifiche a garanzia dei non islamici. La loro continua violazione
suscitò rivolte duramente represse nel silenzio generale dell'Europa
occidentale, miope e vile. Bosnia ed Erzegovina furono occupate e amministrate
da Vienna, che vi avrebbe mantenuto una guarnigione. Gli articoli 34-42
riconobbero l'indipendenza del Principato di Serbia e ne definirono le
frontiere. Fu altresì riconosciuta l'indipendenza del Principato di Romania, ma
con restituzione della Bessarabia all'impero russo. Venne deliberata la
smilitarizzazione delle rive del Danubio, con libertà di navigazione. Furono
inoltre ridisegnati i confini tra gli imperi russo e turco. La Sublime Porta si
impegnò a concedere le riforme chieste dagli Armeni e a tutelarli dai Circassi
e dai Curdi, ma verso fine Ottocento ne perpetrò il primo genocidio, condannato
da Giosue Carducci negli aspri versi “La mietitura del turco”. I sovrani
sottoscrissero il “principio della libertà religiosa”, caposaldo della “pax
europea”, intimato sia al principe di Romania sia, in specie, al Sultano: «In
nessuna parte dell'impero ottomano, la differenza di religione potrà essere
opposta da alcuno come motivo di esclusione o di incapacità in ciò che concerne
l'uso dei diritti civili e politici, l'ammissione ai pubblici impieghi, le
funzioni e gli onori o l'esercizio delle diverse professioni e industrie». I
monaci del Monte Athos ebbero speciale garanzia di libertà.
Inoltre, gli articoli 26-29 del Trattato riconobbero l'indipendenza e la
neutralità del Montenegro. Per garantirle venne ordinata la demolizione di
tutte le fortificazioni esistenti sul suo territorio e gli fu vietata la
costruzione di fortificazioni e di navi da guerra. Il suo sbocco al mare,
Antivari, fu precluso ai vascelli militari di Paesi terzi. Dunque, la “forza”
del nuovo Principato risultò tutt'uno con il suo “disarmo”. Proprio perché
oggettivamente indifendibile, esso era anche invulnerabile. Chiunque avesse
voluto soggiogarlo avrebbe scatenato un conflitto di dimensioni imprevedibili,
come avvenne nel 1914 con l'aggressione della Serbia da parte dell'impero
austro-ungarico. La “Montagna Nera” divenne un fulcro della pace europea,
sempre più precaria. Era “Il Piemonte dei Balcani”.
Una storia aggrovigliata
Abitato da una popolazione fiera e bellicosa,
prevalentemente cristiano ortodossa, col 1711 il Montenegro divenne di fatto
indipendente dalla dominazione ottomana. Dal 1697 fu retto dalla dinastia
Petrovic-Niegos, principi-vescovi, che si susseguivano al potere da zio a
nipote perché i vescovi osservavano il celibato a differenza del clero. Tra
loro spiccò Petar II (1830-1851), due metri di altezza, volitivo ed elegante,
autore del capolavoro letterario “Il serto della montagna”, nel quale sono
celebrati i “vespri montenegrini”, cioè il massacro degli islamici alla vigilia
del Natale ortodosso del 1702. Le sue spoglie riposano in un suggestivo
Mausoleo sulla vetta di un monte. Suo nipote, Danilo II, interrompendo la
tradizione, nel 1852 “laicizzò” il principato e, col titolo di Danilo I, lo
rese simile agli altri Stati europei. Con abile strategia matrimoniale suo
figlio Nicola (1860-1918), molto legato allo zar di Russia, strinse rapporti
con altre dinastie.
Come
accennato e ampiamente narra Maurizio Grandi nel suo libro, il 24 ottobre 1896
Vittorio Emanuele di Savoia, erede della Corona d'Italia, sposò una delle sue
figlie, Elena, previa la sua conversione alla chiesa cattolica. La loro fu
unione singolarmente felice, allietata dalla nascita di quattro principesse
(Jolanda, Mafalda, Giovanna e Maria) e del principe ereditario Umberto di
Piemonte (Castello di Racconigi, 15 settembre 1904-Ginevra, 18 marzo 1983).
Nel
1910 il Montenegro fu elevato alla dignità di regno. Sei anni dopo, nella
bufera della Grande Guerra, venne occupato dagli austro-ungarici. Nicola riparò
in Francia. Un'assemblea a Podgorica nel 1918 lo dichiarò decaduto e approvò
l'incorporazione del Montenegro nel nascente Stato serbo-croato-sloveno. Regno
di Jugoslavia dal 1929, questo ebbe vicende interne turbolente sino alla
seconda conflagrazione europea, che vide il Montenegro travolto dalle armate
germaniche e affidato a un corpo di occupazione italiano. Il 12 luglio 1941 fu
proclamato a Cettigne un effimero Regno libero e indipendente di Montenegro.
L'indomani, ricorrenza dell'indipendenza del 1878, iniziò la rivolta dei
montenegrini contro gli occupanti, repressa con metodi brutali dal governatore
civile e militare Alessandro Pirzio Biroli. La popolazione visse pagine
tragiche. Fiancheggiò i “comunisti” locali e quelli di Tito, non per motivi
ideologici ma per liberarsi dalla dominazione straniera.
Nel
settembre 1943, al momento della resa agli anglo-americani, l'Italia contava 27
divisioni in Jugoslavia e un corpo d'armata in Montenegro agli ordini del
generale Ercole Roncaglia. Nel groviglio di fazioni in lotta (cetnici,
monarchici filoserbi; ustascia croati e bande di varie stirpi e colori) i
militari italiani sopravvissuti agli scontri con i tedeschi e con i
“partigiani” stabilirono intese con l'Esercito popolare di liberazione
jugoslavo e si organizzarono in Divisione “Garibaldi”, d'intesa con il governo
presieduto dal maresciallo Pietro Badoglio. Dettero ripetute prove di valore,
in specie nell'agosto 1944 quando i tedeschi tentarono l'ultima offensiva. A
fine conflitto il Montenegro entrò a far parte della Repubblica federale di
Jugoslavia che sedette tra i vincitori al congresso di pace di Parigi, concluso
con il diktat del 10 febbraio 1947 imposto all'Italia a tutto vantaggio
di Tito.
La
distanza tra le due coste dell'Adriatico si ampliò nuovamente. Separò mondi che
rimasero a lungo quasi privi di relazioni. Alla deflagrazione della Jugoslavia
(1991), il Montenegro formò una federazione con la Serbia, che però, per la
disparità di “forze”, per lui si rivelò nettamente svantaggiosa.
Il Montenegro: destino europeo contro l'orrore
della guerra
Nel 2002 la federazione venne commutata in
“unione”, da sperimentare per tre anni. L'esito fu scontato. Nel 2006 con un
referendum i montenegrini chiesero l'indipendenza, proclamata a giugno e
soccorsa da imponenti investimenti bancari internazionali. “Oh, splendente alba
di maggio” è l'inno nazionale. Dopo un lungo percorso, il 28 aprile 2017 il
parlamento montenegrino ha ratificato l'adesione alla Nato, mettendo tra
parentesi i bombardamenti e le vittime subite dalla sua stessa capitale,
Podgorica, durante la “guerra di Bosnia”. Il governo presentò la richiesta di
ingresso nell'Unione Europea, rinviata per la persistente gracilità del suo
assetto economico, che tuttavia migliora di anno in anno, al di là della
complicatissime vicissitudini parlamentari e partitiche e della sequenza di
presidenti del governo, comprensibili per una Entità antica e nuova qual è la
Repubblica del Montenegro. Tra le sue personalità di valenza internazionale
spicca Dukanovic, politico di lungo corso, già presidente del Consiglio e poi
della Repubblica con mandato sino al 2025.
L'Italia ha tutto da guadagnare dal rafforzamento dell'amicizia con il
Montenegro. Lo aveva intuito il futuro Vittorio Emanuele III anche prima di
andare a Cettigne a chiedere in sposa la Principessa Elena Petrovic-Niegos a
suo padre Nicola. L'Europa già c'era. Occorreva rendere effettivo il “principio
della libertà religiosa” e rimuovere tutti i motivi di conflitto attraverso la
diplomazia, la Corte internazionale dell'Aja e, ancor più, la promozione della
conoscenza reciproca tra i popoli o, quanto meno, tra le loro dirigenze. Erano
gli anni delle Esposizioni universali, dei congressi scientifici non solo
internazionali ma sovranazionali, dei Premi Nobel e delle organizzazioni
pacifiste. Occorreva, inoltre, abbattere le frontiere doganali e rivendicare la
libertà della ricerca scientifica dalla subordinazione al potere
politico-militare nazionale. Sono altrettanti temi passati in rassegna da
Maurizio Grandi, specialista in oncologia clinica all'Università di Torino,
esperto di bioetica, fitoterapia, etnomedicina, etnofarmacologia e di
applicazione della fisica alla medicina, nei suggestivi capitoli che
tratteggiano la figura della Regina Elena, sempre in prima linea nella ricerca
e nella promozione degli studi medici, con particolare attenzione per la ginecologia,
le malattie infantili e quelle legate all'invecchiamento. Mentre ricorda le
imponenti realizzazioni promosse dalla Regina in campo sanitario, Grandi
stigmatizza “la fisica della morte” coltivata negli USA e culminata nel
“progetto Manhattan”.
Dopo
il bombardamento di Hiroshima il presidente Harry Truman, “Prometeo americano”,
rivendicò orgogliosamente i suoi effetti devastanti e tacque sulle sue atroci
conseguenze irreversibili. Altrettanto silenzio, aggiunge Grandi, ha circondato il materiale radioattivo
disseminato dai bombardamenti nella guerra del Kosovo un quarto di secolo
addietro. Vi è motivo di ricordarlo mentre nell'Europa orientale da un canto
viene minacciato l'impiego di armi nucleari “tattiche”, dall'altro vengono
disseminate micidiali mine antiuomo (sia pure “desistenti”) invano messe al
bando, come tanti altri strumenti di morte, largamente impiegati nei conflitti
in corso.
Così
vi è motivo di tornare a riflettere sulla figura esemplare della Regina della
Carità (come Elena di Savoia venne detta). Per fermare la seconda “grande
guerra”, poi divenuta mondiale, ella tentò persino la carta di un appello alla
pace, firmato su suo impulso dalle sei regine di Paesi europei ancora neutrali.
È tra i motivi che hanno fatto nascere la causa per la sua beatificazione.
Utopia? Sarà. Tuttavia, forse è meglio passare alla storia come ingenui che con
la taccia di criminali di guerra.
Nessun commento:
Posta un commento