NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

venerdì 25 luglio 2025

Incito a Villa Borghese

 PROMEMORIA

Confermiamo il Nostro Incontro di Studio e di Ricerca
       DOMANI  SABATO  POMERIGGIO  ore 17
   PRESENTARSI 15 MINUTI PRIMA È CONSIGLIABILE

Invito a VILLA BORGHESE

Il Parco ospita un repertorio monumentale straordinario,

tale da potersi considerare un vero e proprio Museo a cielo aperto.

La Capitale d’Italia lo individuò
come luogo rappresentativo delle Patrie Memorie.

Il percorso evocativo e rigenerativo, dal Monumento al Re Umberto I
al Monumento al Bersagliere Enrico Toti,
passando attraverso i busti degli Italiani illustri,
celebra l’avvento della Nuova Italia.
Letture di testi poetici, canti risorgimentali e discorsi inaugurali
illustreranno esempi fulgidi della Nostra Storia.

    DOMANI  SABATO POMERIGGIO 
            26  LUGLIO  2025  ORE 17

LARGO MARCELLO MASTROIANNI
    (Casa del Cinema) Roma      La puntualità è cosa gradita
PRENOTAZIONE OBBLIGATORIA     

INFO E PRENOTAZIONI   338 4714674

POSTA    terzanavigazionefutura@gmail.com

Cordialmente.
         Prof. Massimo Fulvio Finucci e D.ssa Clarissa Emilia Bafaro

mercoledì 23 luglio 2025

Invito al Museo Meomartini

 

Siete cortesemente invitati a un Nostro Incontro di Studio e di Ricerca dedicato al Patrimonio Storico Italiano, 

con particolare attenzione alla Storia del Regno d'Italia.

 



 Invito MUSEO CENTRALE MONTEMARTINI

Il Museo si presenta in un luogo di sintesi eclettica

tra archeologia industriale e architettura neoclassica,

monumentalità e funzionalità.

Il percorso espositivo mette in luce il dialogo straordinario

tra macchina moderna e archeologia classica,

produttività e bellezza.

Incipit del Processo di Modernizzazione di Roma Capitale d’Italia.

DOMENICA  POMERIGGIO  27  LUGLIO  2025  ORE 17

VIA  OSTIENSE  106  (Ingresso  Museo)  ROMA

         INGRESSO GRATUITO CON MIC

N.B. La Carta MIC riservata ai residenti della Città Metropolitana

si può effettuare in rete o nei musei comunali.

Per ulteriori informazioni  SITO https://miccard.roma.it/

          La puntualità è cosa gradita

PRENOTAZIONE OBBLIGATORIA

INFO E PRENOTAZIONI   338 4714674

POSTA    terzanavigazionefutura@gmail.com

Cordialmente.

         Prof. Massimo Fulvio Finucci e D.ssa Clarissa Emilia Bafaro 

 

lunedì 21 luglio 2025

1925 MUSSOLINI ANNIENTO' LA MASSONERIA PER INSTAURARE IL REGIME FASCISTA



di Aldo A. Mola

 

Abbassare l'asticella per saltare più alto?

Il centenario del 1925 scivola via nell'indifferenza dei “media”. La contrapposizione di “manifesti” pro e contro il fascismo (Giovanni Gentile da una parte, Benedetto Croce dall'altra) importava ai loro firmatari e ai loro (non molti) lettori ma lasciava indifferente la generalità degli italiani e ancor più l'opinione estera. In vista del rinnovo dei consigli comunali e provinciali eletti nel novembre 1920, Benito Mussolini, capo di un governo abbastanza sicuro di sé, si domandò che cosa fosse meglio fare. Cambiare la legge elettorale prima del voto, ieri come oggi, è la tentazione di chi vuol vincere anche senza avere la maggioranza dei consensi. Basta abbassare l'asticella per saltare più alto. Mussolini aveva il pieno controllo della Camera grazie alla diserzione dall'Aula di democratici, repubblicani, dei due partiti socialisti e dei popolari, arroccati sull'inutile “Aventino”. Ma il Senato poteva riservare sorprese. I senatori iscritti al Partito fascista erano una sparuta minoranza. Alle elezioni amministrative le opposizioni avrebbero potuto sommarsi ai liberali in un fronte unico, numericamente prevalente. Per pararsi le spalle il duce doveva disfarsi del loro possibile collante: la Massoneria. Solo così avrebbe potuto completare il suo disegno: annientare il regime liberale e sostituirlo con quello fascista. Lo disse chiaro e tondo alla Camera.

 

La legge antimassonica in Senato

 

Il disegno di legge sulla “Regolarizzazione dell'attività delle associazioni, enti e istituti e dell'appartenenza ai medesimi del personale dipendente dallo Stato, dalle provincie, dai comuni e da istituti sottoposti per legge alla tutela dello Stato, delle provincie e dei comuni” venne approvato alla Camera dei deputati all'unanimità dei votanti il 19 maggio 1925.

I passi definitivi verso la conquista del “potere di governo” (altra cosa da quella sullo Stato, che rimase nelle mani del re, come si vide il 25 luglio 1943) vennero compiuti da Mussolini in Senato il 19-20 novembre, quando i patres discussero la legge “contro la Massoneria”.

Alle 15:30 del novembre 19 la Camera Alta anzitutto convalidò la nomina a senatore del quadrumviro Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, clericale e massonofobo. Il tenore della discussione seguente fu molto elevato. In una vasta perorazione l'insigne giurista Francesco Ruffini (1863-1934, nominato senatore il 30 dicembre 1914) ricordò le tre libertà cardinali: di pensiero, di stampa e di associazione. Quando domandò se l'Italia credesse «veramente di tener fermi i suoi odierni antiliberali ordinamenti» Mussolini lo interruppe: «Sì, finché ci sono io.»  Ruffini aggiunse che l'Italia non poteva vivere «in una economia chiusa, e non può quindi neanche immaginarsi di poter vivere di una vita costituzionalmente chiusa». Il messaggio andava oltre il presidente del Consiglio, ma per farlo arrivare “in alto” occorreva un “voto” di portata significativa, che non ci fu né quel giorno né poi. Vittorio  Emanuele III, re costituzionale non poteva sostituirsi alle Camere. Ruffini concluse con le parole di Niccolò Machiavelli: «Forza alcuna non doma, tempo alcuno non consuma, merito alcuno non contrappesa il nome della libertà.» 

 Dopo di lui Filippo Crispolti, antesignano dell'impegno dei cattolici nella vita politica della Nuova Italia, chiese che venisse chiarita la distinzione tra le associazioni segrete e quelle lecite e non segrete (come le cattoliche, che non nominò) e impetrò che non si infierisse su quanti avevano percorso una strada deviante poi abbandonata: i “massoni pentiti”. Con sottile perfidia aggiunse che «vi possono essere Governi in cui qualche membro abbia dei precedenti che il Senato non vorrebbe approvare!». Mussolini rimbeccò: «Ho capito», memore dei suoi precedenti giudiziari. Era stato condannato e incarcerato per opposizione all’“impresa di Libia” e successivamente “fermato” per reati contro l'ordine pubblico.

Il protonazionalista Enrico Corradini ripeté con soverchia irruenza la condanna della «esotica e svanita mitologia razionalistica, a cui fu dato il nome sacrilegamente ridicolo di Supremo Architetto dell’Universo», del massone, «prototipo dell'uomo socialmente basso», e della massoneria, «nazionalmente criminale per due azioni continuate: per quella antireligiosa e per l'azione internazionalista» e sollecitò a «riesaminare e regolare la libertà di stampa». In attesa che il governo proponesse e il parlamento reprimesse la libertà di stampa, i fascisti lo avevano fatto e lo stavano facendo a modo loro: bastonando Piero Gobetti, Giovanni Amendola e altri giornalisti e parlamentari scomodi e spingendo i proprietari o comproprietari di quotidiani di ampia diffusione a disfarsi dei soci e dei direttori e vicedirettori invisi e scomodi. Fu il caso del “Corriere della Sera”, dal quale vennero estromessi Luigi e Alberto Albertini, e di “La Stampa”, sottratta al senatore Alfredo Frassati, giolittiano. Corradini promise: «L’Italia s'è mossa, l'Europa seguirà». Osservò: «Fra quaranta milioni di italiani chi grida, o chi piange, perché si sospendono giornali, si sciolgono partiti? Nessuno. Non si levano voci dal popolo italiano, in tutt'altre faccende affaccendato». Infine lodò il governo «disciplinatore e attivo e fattivo». Fu sommerso dal plauso delle tribune, così sguaiato che il presidente Tommaso Tittoni, antico ministro degli Esteri con Giolitti, minacciò di farle sgombrare.

Nell'intervento a sostegno della “legge modesta” Alfredo Rocco, ministro della Giustizia dal 5 gennaio di quello stesso 1925, esordì partendo da quanto il 16 maggio aveva osservato alla Camera il comunista Antonio Gramsci: la legge non era che «un anticipo di quella più vasta ed organica legislazione alla quale bisognerà pur metter mano», a cominciare dalla «disciplina giuridica dei rapporti di lavoro». Precisò che essa non toccava la libertà di associazione ma «la libertà del segreto di associazione». Un sofisma. Per bocca sua i fautori del regime di partito unico enunciarono apertamente i propri obiettivi. Rocco dichiarò che la legge in discussione era «un primo timido passo sulla via della rivendicazione dell'autorità dello Stato sulle forze che si organizzano nel paese. […] Lo Stato deve dominare infatti tutte le forze esistenti nel Paese e non si può ammettere, come si è purtroppo ammesso lungamente, l'esistenza di organizzazioni potenti come la Confederazione del lavoro, come le associazioni di impiegati delle ferrovie, delle poste, dei telegrafi, di marittimi e di tramvieri, o infine come la Massoneria, che sieno padrone effettive della vita della nazione». Aggiunse che il governo non dichiarava guerra contro la Massoneria quale associazione internazionale, «una istituzione innocua e perfino utile» ma per come essa era in Italia, «dannosa all'ordine pubblico e alla pubblica moralità». Ripercorso rapidamente il profilo dell'Istituzione dal Settecento, si soffermò su «il carattere e il programma anticattolico» di quella italiana. Escluse infine che la legge avesse intenti punitivi con efficacia retroattiva: «noi non vogliamo che il peccatore muoia, vogliamo invece che si converta e viva.»

 

Croce si astiene, Diaz approva

La discussione riprese alle 15 dell'indomani, 20 novembre, un venerdì. A nome di alcuni colleghi come lui travagliati dal dissidio tra giudizio negativo sulla Massoneria e le circostanze presenti, intervenne per primo Benedetto Croce. Dichiarò di astenersi dal voto perché la legge era proposta «quando non solo le condizioni della pubblica libertà sono assai turbate in Italia (commenti animatissimi), ma si ode proclamare con feroce gioia la distruzione del sistema liberale (proteste) e questo disegno di legge è considerato come parte integrante di un unico tutto di leggi antiliberali». Dopo Vittorio Zupelli, già ministro della Guerra, a favore della legge si dichiarò anche il generale Guglielmo Pecori Giraldi che propose di aggiungere: «Gli ufficiali di qualsiasi grado e categoria dei corpi armati dello Stato, che risultino appartenenti alla Massoneria, o ad altra società segreta, incorrono senza più nella perdita del grado per mancanza contro l’onore». Lo sapesse o meno, tra gli “ufficiali massoni” molti erano patrioti benemeriti dell'Italia. Dopo altri, Mario Orso Corbino annunciò l'astensione e rivendicò la funzione dell'anticlericalismo. Era stato allievo in un seminario nel quale si assegnavano voti più alti ai temi nei quali si affermava che «Garibaldi era un filibustiere, che Vittorio Emanuele II era un nefando usurpatore e che presto sarebbero scesi in Italia i liberatori del Santo Padre in catene». Nettamente contrari furono i senatori Vittorino Cannavina e Federico Ricci, secondo il quale «colle leggi fascistissime di cui questa è la prima, la nazione viene avviata verso un grave esperimento di nuovo regime». Avversi si dichiararono anche Nino Tamassia (in specie per «il triste carattere retroattivo che una giurisprudenza politica di un gran popolo ha voluto equiparare ad un delitto») e Guido Mazzoni.

Venne chiesta la chiusura, approvata per alzata di mano.

Il senatore Adriano De Cupis, relatore sul disegno di legge, ammonì che «il diritto alla menzogna è statutario nella Massoneria». Dopo la dichiarazione di astensione di Vito Volterra e di Eugenio Bergamasco, Armando Diaz, duca della Vittoria, ricordò che da comandante supremo aveva respinto la proposta dell’«allora capo della massoneria (Ernesto Nathan) di costituire dei nuclei e dei centri di propaganda massonica nell'esercito per sollevare il morale dei combattenti» e annunciò voto favorevole. Malgrado insinuazioni e asserzioni, talvolta anche perentorie (per esempio da parte di Maria Rygier), non esiste alcuna prova di iniziazione massonica sua né di Pietro Badoglio. La formula “in odore di” può forse valere per i santi, non per i massoni. La storiografia non si fonda sull'olfatto ma sui documenti.

 

Mussolini: annientare il regime liberale

Per ultimo intervenne Mussolini. Negò che il fascismo fosse divenuto antimassonico solo dopo la fusione con i nazionalisti. Aveva seguito un progetto proprio, articolato e coerente. Dapprima aveva «demolito il bolscevismo, poi ha affrontato la Massoneria, finalmente il regime liberale». Ora era la volta del terzo “nemico”, non ancora completamente distrutto ma ormai periclitante e senza difensori in Parlamento, come appunto era emerso nei primi undici mesi del 1925. Rivendicò che quello stesso 20 novembre ben 900 banchieri degli Stati Uniti d'America lanciavano l'acquisto di azioni del Prestito italiano: un'operazione complessa sotto il profilo tecnico e politicamente redditizia perché mostrava che il nuovo regime aveva il sostegno della più solida economia mondiale. Non accennò minimamente a quanto, a sostegno del prestito, stava facendo oltre Atlantico Raoul Palermi, gran maestro della Serenissima Gran Loggia d'Italia. Concluse: «Con questa legge si chiude evidentemente un periodo della storia italiana, e io potrei modestamente dire che raccolgo i frutti di una lunga e tenace campagna».

Su 235 presenti, 208 votarono “si”, 6 “no” e 21 si astennero. Tra i “si” vanno ricordati Ernesto Artom, Badoglio, Luigi Cadorna, Eugenio Cagni, Alfredo Dallolio, Bassano Gabba, Emanuele Greppi, il marchese Raniero Paulucci de Calboli, Camillo Peano, Gabriele Pincherle, Vittorio Polacco, il generale Carlo Porro, Vittorio Puntoni, Francesco Salata, Giuseppe Salvago Raggi, il conte Salvatore Segré Sartorio, Paolo Thaon di Revel, Pietro Tomasi della Torretta, il principe Giovanni Torlonia, Adolfo Venturi e Giulio Venzi. Votarono “no” Nicola Badaloni, Alfredo Canevari, Vittorino Cannavina, Carlo Fadda, Ricci e Ruffini. Tra gli astenuti, oltre a Mario Orso Corbino e Croce, si contarono Alfredo Lusignoli, Gaetano Mosca, il marchese Emanuele Paternò di Sessa, massone insigne, e Leo Wollemborg.

Nel dibattito sugli articoli, ricordato che non poteva essere «condannata in toto, in maniera assoluta e con tanta facilità, una associazione che aveva avuto tra i suoi membri italiani Romagnosi, Garibaldi, Cairoli, Carducci e Bovio», Ettore Ciccotti domandò a Rocco se era giuridicamente ammissibile «obbligare, sotto gravi sanzioni e in forma coattiva, qualcuno ad accusarsi da sé». Neppure il codice penale lo pretendeva. Il ministro cercò di conferire alla legge un profilo molto basso: «Faremo indagini non su tutti gli impiegati, ma solo su quelli per i quali abbiamo fondati motivi di ritenere che sono massoni. E a questi giustamente domanderemo anche se lo sono stati, perché l'essere stato massone in tempo recente è grave indizio per ritenere che lo siano tuttavia». Argomenti da “ministro della polizia investigativa” (chi, come e perché si era procurati i “fondati motivi” di imputabilità per un reato inesistente?), che non confortano la sua celebrazione quale “giurista insigne”.

 Nella votazione finale la legge passò con 182 voti favorevoli e 10 contrari.

 

L'abolizione dei consigli comunali e provinciali elettivi

La Camera il 18-21 e 25-28 novembre approvò i bilanci di previsione del 1926 e la consueta congerie di leggi ordinarie. Altrettanto avvenne il 2-5, il 9-12 e 16-19 dicembre, mentre la “piazza”, ormai sotto pieno controllo del Pnf, tumultuava chiedendo la pena di morte per gli attentatori alla vita di Mussolini.

Mentre l'indagine a carico di Tito Zaniboni e di Luigi Capello procedeva a rilento, Mussolini accelerò la marcia verso il regime di partito unico lungo tre direttive: anzitutto cancellare la libertà di scelta dei rappresentanti alla Camera e nelle amministrazioni locali, conservando tuttavia l'esercizio del voto nelle elezioni politiche per farne un plebiscito a favore del governo, come in tutti i Paesi totalitari d'Europa; inoltre bisognava subordinare al partito fascista il pubblico impiego e, infine, concentrare nelle mani del capo del governo il massimo dei poteri, sino a farne l'interlocutore unico del re. La fase decisiva della costruzione del regime venne facilitata dall'autoesclusione delle opposizioni dall'Aula, a eccezione della pattuglia giolittiana e dei comunisti.

 Dopo il successo alle elezioni del 6 aprile 1924 e il furbesco annuncio del ritorno ai collegi uninominali (mai attuato) Mussolini non era affatto tenuto a convocare nuove elezioni generali, che, se del caso, si sarebbero svolte sulla base della “legge Acerbo”, smodatamente maggioritaria. Gli premeva invece eliminare l'elettività delle amministrazioni locali. La legge 11 settembre 1925, n. 1756 in un articolo unico sancì che «quando sia necessario, il prefetto ed il sottoprefetto possono, secondo le rispettive competenze, affidare provvisoriamente ad appositi commissari la reggenza delle amministrazioni provinciali, comunali e consorziali», ma solo per la durata di due mesi quando fosse in carica la metà dei consiglieri. I consigli comunali e provinciali in carica erano stati in gran parte eletti nel 1920 e avevano registrato il successo dei “blocchi nazionali” (liberali, combattenti, nazional-fascisti) poi varati col benestare di Giolitti nelle elezioni politiche del maggio 1921. In molte elezioni amministrative svolte dopo l'avvento del governo Mussolini socialisti e popolari avevano ottenuto esiti soddisfacenti anche in città di rilievo. Il Pnf, ancora poco organizzato, aveva tuttavia ottenuto lo scioglimento di numerose amministrazioni locali con aggressioni e minacce a sindaci, componenti di giunte e consiglieri o con la promessa di contributi statali per il completamento di opere pubbliche da tempo in progetto o in cantiere ma ferme per carenza di fondi. Il disavanzo di amministrazione divenne motivo (o tagliola) sufficiente per decretare il commissariamento sulla base del controllo dei bilanci degli enti locali da parte della apposita commissione prefettizia, grimaldello del ministero dell'Interno per irrompere nelle autonomie locali. Fu il caso del consiglio comunale di Roma, la cui amministrazione venne affidata a Filippo Cremonesi il 19 aprile 1923 creato senatore per la 21^ categoria.

Il rinnovo dei consigli locali poteva costituire un’importante opportunità per i partiti di opposizione, indotti a convergere su liste unitarie. Il rischio fu scongiurato in due tappe. Dapprima il rinvio delle elezioni e poi la legge 4 febbraio 1926, n. 237 che sostituì i consigli comunali elettivi nei comuni non eccedenti i 5.000 abitanti con il podestà nominato con decreto reale, assistito da una consulta comunale, eventualmente formata su parere del prefetto. In carica per cinque anni, con possibilità di essere sempre confermato, il podestà poteva essere trasferito dal prefetto da un comune all'altro della provincia ed esercitava tutte le funzioni precedentemente spettanti a sindaco, giunta e consiglio comunale. Podestà vennero nominati personalità dalle comprovate competenze “tecniche”, spesso ufficiali delle forze armate, assistiti dai segretari comunali, vegliati dal ministro per l'Interno tramite i prefetti. Con i Regi decreti 15 aprile e 3 settembre 1926 l'istituto podestarile fu esteso a tutti i comuni del regno, che dipesero quindi dal governo tramite i prefetti, chiamati a determinare gli enti economici, i sindacati e i sodalizi locali ai quali competeva proporre i consultori comunali.

La svolta verso il regime di partito unico non si risolse dunque in un colpo di mano improvviso. Richiese quasi due anni e una concatenazione di interventi in parlamento, leggi e circolari attuative. L'edificio sorse da un progetto organico, vegliato da maestranze qualificate, con una folla di addetti. Opera da Grande Architetto. Con varie “migliorie”  durò diciotto anni. Crollò solo per la catastrofe bellica del 1943, quando ormai la stragrande maggioranza degli italiani neppure ricordava le elezioni di una Camera pluripartitica e dei consigli locali.

Il gusto della libertà è per palati fini.

 

Aldo A. Mola

 

DIDASCALIA: Benito Mussolini “domatore”. Alternò sorrisi e minacce. Intervenne in Parlamento e rimbeccò parlamentari illustri. In un paio d'anni impose un regime che le opposizioni non videro arrivare.

 

 

Invito a Villa Borghese

 Siete cortesemente invitati a un Nostro Incontro di Studio e di Ricerca

dedicato al Patrimonio Storico Italiano, 

con particolare attenzione alla Storia del Regno d'Italia.

      Invito a VILLA BORGHESE

Il Parco ospita un repertorio monumentale straordinario,

tale da potersi considerare un vero e proprio Museo a cielo aperto.


La Capitale d’Italia lo individuò
come luogo rappresentativo delle Patrie Memorie.

Il percorso evocativo e rigenerativo, dal Monumento al Re Umberto I
al Monumento al Bersagliere Enrico Toti,
passando attraverso i busti degli Italiani illustri,
celebra l’avvento della Nuova Italia.

Letture di testi poetici, canti risorgimentali e discorsi inaugurali
illustreranno esempi fulgidi della Nostra Storia.

SABATO POMERIGGIO  26  LUGLIO  2025  ORE 17

LARGO MARCELLO MASTROIANNI
   (Casa del Cinema) Roma       La puntualità è cosa gradita
PRENOTAZIONE OBBLIGATORIA     

INFO E PRENOTAZIONI   338 4714674

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Cordialmente.
         Prof. Massimo Fulvio Finucci e D.ssa Clarissa Emilia Bafaro

lunedì 14 luglio 2025

GUERRA DI SPAGNA

Cambi di fronte, cambi di regime

di Aldo A. Mola


El Valle de los Caidos: immaginata come emblema della pacificazione. 

Il 18 luglio 1936 in Spagna quattro generali insorsero contro il governo. Iniziò una guerra civile durata quasi tre anni. Il calcolo delle sue vittime, prevalentemente civili, rimane ancora approssimativo. Quella guerra non fu la premessa della guerra “europea” iniziata  nel 1939 e divenuta mondiale dal 1941. Il governo repubblicano di Madrid ebbe il sostegno di brigate internazionali, prevalentemente comuniste, ma non quello diretto di Mosca. I nazionalisti furono fiancheggiati dalla Germania, che inviò la micidiale Divisione Condor, e dall'Italia con il “Corpo Truppe Volontarie”, bene armate. Ma la guerra del settembre 1939 iniziò con l'attacco della Germania e dell'Urss contro la Polonia, alleata di Francia e Gran Bretagna, che però non intervennero a sua tutela. L'Italia di Mussolini rimase spettatrice e poco dopo co-belligerante, pro-Hitler. Tra la guerra civile spagnola e l'europea vi fu dunque sequenza cronologica ma non strettamente logica.  Vincitore in Spagna, Francisco Franco rimase prudentemente neutrale dall'avvento e infine aprì agli anglo-americani, che garantirono la continuità del suo regime, sorretto dalla Chiesa, sino alla sua morte.

                                           

   Il 12 ottobre 1936 gli spagnoli celebrarono la festa della Hispanidad, in coincidenza con la “scoperta dell'America”, che il “descubrimiento” li univa al di sopra di ogni divisione ideologico-partitica. Era divenuto  ancor più sentito dalla perdita delle Filippine e di Cuba nel 1898, a vantaggio degli Stati Uniti d'America, in forte ribasso di popolarità nelle file degli intellettuali iberici in varia misura segnati dal Novantottismo. Ne era stato interprete il diplomatico e saggista granadino Angel Ganivet, suicida a 32 anni, nel 1898. Il suo Ideario spagnolo pose l'interrogativo sui motivi della decadenza e smarrimento dell'identità degli spagnoli. Aprì le sue riflessioni richiamando l'esempio di Seneca, lo stoico che si svenò dolcemente in acqua tiepida, e le chiuse con don Chisciotte e Sancho Panza, rovello della generazione seguente.

  Quel 12 ottobre 1936 all'Università di Salamanca esplose il durissimo scontro tra il rettore Miguel de Unamuno (Bilbao, 1864-Salamanca 1936) e José Millan Astray, fondatore della Legiòn. Secondo la versione più nota, Unamuno, filosofo, scrittore, autore di tormentate opere teatrali e dal 1891 docente di greco e latino nella prestigiosa Università salamantina, espresse un severo giudizio sulla mentalità del “soldato”, dall'orizzonte chiuso tra vita e morte, in spregio ai dubbi degli intellettuali. Millan Astray sbottò: “Viva la muerte!” o “Muoia l'intelligenza”. Lo scrittore José Maria Pemàn tentò la mediazione:“Viva l'intelligenza e muoiano gli intellettuali cattivi”, i cosiddetti “cattivi maestri”. Unamuno rivendicò che l'Università era “il tempio dell'intelligenza”. Da suo sommo sacerdote disse: “Voi state profanando il suo recinto”. Concluse: “Vincerete ma non convincerete”. Dati i precedenti, gli poteva andare molto male. Nel 1931 Unamuno era stato destituito da Rettore  perché antimonarchico. In suo favore  -era lo spagnolo più noto all'estero- scesero in campo scrittori e artisti euro-americani. Invano. Unamuno lasciò le Canarie, ove era “confinato”, poco sicure per la sua incolumità, riparò a Parigi e poi si installò a Endaya, sul confine franco-spagnolo. Rientrato  Salamanca dopo la caduta della monarchia venne rieletto rettore. Ora doveva fare i conti con l'ala dura dei “nazionali” insorti il 18 luglio.

   A sorpresa, in soccorso del pensatore intervenne Carmen Polo, la moglie di Francisco Franco y Bahamonde. Da settembre scelto come capo unico della sollevazione armata dei “nazionali” contro il governo repubblicano di Madrid, Franco aveva insediato il comando a due passi dalla Cattedrale e dall'Università. Donna Carmen offrì il braccio a Unamuno e scortata da Pemàn lo condusse al sicuro, fendendo la folla. Affranto, il filosofo scrisse a un amico: “Vincere non è convincere e conquistare non è convertire. (…) Si lotta, si ammazzano gli uni con gli altri,  bruciano chiese, celebrano cerimonie, sventolano bandiere rosse e stendardi di Cristo”. Ma non era vero che metà degli spagnoli credessero nella religione di Cristo e metà in quella di Lenin. Quello sfacelo avveniva perché gli spagnoli non credevano in niente. “Il popolo spagnolo è uscito pazzo. Il popolo spagnolo e il mondo intero. Sono solo. Solo come  (Benedetto) Croce in Italia!”. Nuovamente destituito da rettore, questa volta dai franchisti, si ritirò a vita privata. Morì il 31 dicembre. Non perse di obiettività. A suo avviso i “ribelli” (cioè i “nazionali”) tendevano a “salvare a civiltà occidentale cristiana e l'indipendenza” della Spagna. Non si schierò per nessuna delle due fazioni, ma per la Spagna.

   Il successo internazionale e l'immensa produzione letteraria non lo mettevano al sicuro. Autore di opere celebri, come “Pace nella guerra” (1897), “Il sentimento tragico della vita”  (1913) sino a “Vita di Don Chisciotte” e “Romancero dell'esilio”, Unamuno sapeva dell'assassinio immotivato, già a luglio, del poeta granadino Federico Garcia Lorca, che non aveva fatto in tempo ad accogliere l'invito a riparare negli Stati Uniti d'America. Nella notte del 28-29 ottobre Ramiro de Maetzu, venne svegliato nella della prigione madrilena di Ventas.  Un carceriere gli disse che era inutile si vestisse: “Per dove vai va bene anche il pigiama”. Ottenuta l'assoluzione da un prete compagno di sventura, uscì. Cadde fucilato. Dopo Unamuno e Ortega y Gasset, de Maetzu era l'intellettuale spagnolo più famoso all'estero. Il suo percorso è esemplare. Nato nel 1874 a Vitoria, nel paese basco, esordì collaborando a “El socialista”. A Londra dal 1905 al 1920  scrisse in “The New Age”,  come Ezra Pound e George Bernard Shaw, una rivista aperta a esoterismo e riformismo. Rientrato in Spagna si schierò con Miguel Primo de Rivera. Dopo il colpo di stato indolore del 13 settembre 1923, con la “dittablanda”, come la sua era detta per distinguerla  da una “dittatura” vera, de Rivera impresse all'economia spagnola una imponente  accelerazione, sorretta da cospicui investimenti esteri, in specie britannici. Ne ha scritto Fernando Gaarcia Sanz. Già autore di un affermato saggio sul Don Qujote di Cervantes, tormento di tutti gli scrittori della sua epoca, e fondatore dell'Unione Monarchica Nazionale, nel 1931 Ortega si schierò contro la repubblica nata dalla equivoca interpretazione dei risultati delle elezioni amministrative. Le sinistre prevalsero a Madrid e nelle maggiori città ma i monarchici ebbero più voti. A contare, però, furono le manifestazioni di piazza a favore del cambio istituzionale. Memore degli eventi di un settantennio prima e del naufragio della prima repubblica, Alfonso XIII di Borbone lasciò la Spagna nella certezza di essere presto richiamato sul trono.

   Autore di  “Difesa dell'Ispanità” (1933), che gli valse l'ingresso nella Real Accademia, ed eletto deputato, Ortega si schierò per la difesa dei valori tradizionali, contro gli “eccessi” dell'anticlericalismo divampante dal 1931: incendio di chiese, devastazione di conventi, rogo di archivi, profanazione di salme di ecclesiastici defunti,  violenze ai danni di preti e di monache. Gli stranieri rimasero indifferenti. I più identificavano il cattolicesimo spagnolo con l'Inquisizione, la caccia alle streghe (nel Cinque-Seicento imperversante nell'Europa centrale, tra evangelici e riformati), l'oscurantismo e, ciò che più pesò, la “limpieza de sangre” e l'espulsione degli ebrei.   

  Altro intellettuale di prestigio europeo era Salvador de Madariaga (La Coruna, 1886-Locarno, 1978), storico, diplomatico, poeta, autore della storia dell'Impero ispanico americano. Lasciata la Spagna non vi fece ritorno. I colti andavano e venivano. In cerca. I contadini, gli operai, gli imprenditori rimasero . Finirono nel vortice di una guerra civile spietata.

  Ma per cambiare la Spagna occorreva viverci; e purtroppo anche morirci. Una sorta di espiazione collettiva.

   

  Come a nota a piè di pagina della sintetica panoramica dei passaggi di fronte di intellettuali prestigiosi determinati dalla guerra di Spagna va aggiunto l'interrogativo sulle sue ripercussioni su “Giustizia e Libertà”, il movimento creato in Francia da Carlo Rosselli, dopo l'evasione con Emilio Lussu e Francesco Fausto Nitti, massone, dal confino di polizia a Lipari, al quale era stato condannato dal regime fascista per aver concorso a trasferire l'anziano Filippo Turati in Corsica, così sottraendolo a eventuali vessazioni. Messe a segno alcune imprese, anche aviatorie, non sempre fortunate e comunque lontane dall'impensierire Mussolini che  stava riscuotendo vasto consenso nel Paese, Rosselli organizzò una “colonna” di qualche decina di volontari a sostegno della repubblica di Madrid con l'insegna “Oggi in Spagna, domani in Italia”. Essa incontrò non poche difficoltà a farsi accogliere, inquadrare e ad essere mandata “in linea”. Non tutti i suoi componenti, a cominciare da Rosselli stesso e Aldo Garosci, che ne scrisse la storia, avevano pratica di armi e, a differenza di Lussu, meno ancora di battaglie. Nello scontro di Monte Pelato cadde Mario Angeloni, massone. Dopo vicissitudini che lasciamo tra parentesi, lamentando una dolorosa flebite  Rosselli rientrò a Parigi. Sul suo “poi” circa trentacinque anni anni addietro lo storico Franco Bandini pubblicò il frutto di lunghe riflessioni sulla domanda: “Chi armò la mano degli assassini dei fratelli Rosselli?” (ed. SugarCo). A Bagnoles-de-l'Orne il 9 giugno 1937 Carlo e suo fratello Nello, studioso del Risorgimento, rimasto in Italia e sempre ai margini della militanza politica, occasionalmente in Francia, furono assassinati da “cagoulards”, organizzazione criminale dichiaratamente di estrema destra ma contraddittorio e sospetto. Perché quel delitto così efferato? Quale posizione politica e quali progetti coltivava Carlo Rosselli? In mancanza di elementi sicuri, Bandini non esprime una sentenza categorica. Però, tassello dopo tassello, documenta che egli non viveva affatto in clandestinità. Si era premurato di rinnovare il passaporto, con estensione a Paesi dell'Europa centro-settentrionale (Germania hitleriana esclusa, s'intende). In Catalogna i volontari italiani avevano assistito sgomenti alla carneficina di anarchici e libertari da parte dei comunisti eterodiretti da Mosca. “Giustizia e Libertà” non si riconosceva nel Fronte Popolare varato da Stalin per egemonizzare l'antifascismo. Pertanto i suoi militanti costituivano un avversario; anzi un nemico. Da eliminare, acche fisicamente, come scoprì il repubblicano Randolfo Pacciardi, comandante del battaglione “Garibaldi” in Spagna. Quando avvertì che la sua vita era minacciata dai comunisti, previa una seconda iniziazione massonica riparò negli Stati Uniti d'America.

   Bandini intitolò il suo libro “Il cono d'ombra”. Non immaginava che, ruvidamente stroncato, il volume sarebbe finito a sua volta in un ...cono d'ombra. Vi rimase malgrado un convegno di studi dedicatogli in Firenze altre rievocazioni, incluso uno“Speciale” del mensile “Storia in Rete”. La vicenda, va però osservato, rimase ed è del tutto circoscritta nei confini italiani. Nessuna tra le maggiori opere di autori spagnoli ed esteri  sulla guerra di Spagna menzionano la “colonna Rosselli”. Se ne cerca invano traccia nella monumentale biografia di Franco scritta dall'inglese Paul Preston (tradotta in Italia da Mondadori), nei volumi di Juan Pablo Fusi e di Fernando Garcia de Cortazar. La ignora anche lo scrupolosissimo Pio Moa che, autore di saggi e biografie, ha passato in rassegna Los mitos de la guerra civil.

 

   Anche in Spagna i vent'anni dalla “ditta-blanda” di Primo de Rivera alla svolta “occidentale” di Francisco Franco segnarono molti passaggi dall'uno all'altro “bando”. Alcune personalità eminenti ebbero la sventura di essere uccise o di rimanere intrappolate nelle  tragiche regole di una guerra civile che fu sull'orlo di divenire mondiale. Si esaurì con la vittoria dei franchisti nella battaglia dell'Ebro, la loro avanzata in Catalogna, l'ingresso in Barcellona il 26 gennaio 1939. A quel punto la Gran Bretagna riconobbe il governo di Franco e lasciò i repubblicani al loro destino. I più previdenti passarono in Francia, ove furono concentrati in “campi”, in pessime condizioni, e circondati da diffidenza. Altri ripararono in Messico. In marzo in Madrid divampò l'ultima guerra civile nella guerra civile tra fazioni dell'estrema sinistra.

   Il 28 marzo i nazionali entrarono in Madrid e il 1° aprile Franco vi celebrò il proprio trionfo, presente Eddy Sogno, che ne scrisse. Questo si sostanzio in tre operazioni concatenate: il prolungamento dello sterminio dell'opposizione con la legge speciale contro il comunismo e la massoneria (ne hanno scritto Juan José Morales Ruiz nel fondamentale Palabras asesinas, José Antonio Ferrer Benimeli e Maria Dolores  Gomez Molleda in La Masonerìa en la crisis espanola del siglo XX); la sussunzione nel “franchismo” di tutti gli avversari del governo repubblicano; il consolidamento del suo potere di generale assurto a “Jefe del Estado”. In quel quadro vennero sfumate le differenze originarie, sostanziali e mai risolte di tanti “nazionali”, che da Franco vennero monumentalizzati e sottratti alla storia. Fu il caso di José Antonio Primo de Rivera. Quando lo fucilarononel carcere di Alicante, i repubblicani non capirono che stavano facendo un regalo a Franco, perché il programma della Falange stava al franchismo come il fascismo delle origini stava al Mussolini degli Anni Trenta. Aveva aperture sociali e culturali molto lontane dalla rigidità di Franco. Anche Emilio Mola y Vidal, artefice della sollevazione, aveva un programma che solo la sua morte per incidente areo il 3 giugno 1937 lasciò in fieri. Non concideva con “franchismo”.

  Per assicurare le fondamenta del regime provvisorio Franco usò mano durissima. Esecuzioni e condanne a pene severissime continuarono nel tempo. D'altronde, pochi mesi dopo la sua vittoria, iniziò la guerra europea, basata sul clamoroso patto di non aggressione Hitler-Stalin, sicché nessuno badò a quel che accadeva in Spagna. Importavano le sue risorse naturali, in specie i minerali rari, da Franco messi a disposizione dei due fronti con calcoli sagaci.

   Scaltro e lungimirante, il “caudillo” si accinse a fare il vero e più decisivo voltafaccia. Con il rifiuto di immischiarsi nella guerra a fianco dell'Asse e di infastidire il dominio britannico su Gibilterra, vitale per gli inglesi, fece buon viso agli Stati Uniti d'America, che in cuor suo detestava: nulla di più lontano dalla “sua” Spagna. Questa, però, aveva dalla propria la “Lettera collettiva dell'episcopato spagnolo” che il 1° luglio 1937 si schierò al suo fianco. Dalle file dei cattolici sorsero l'Opus Dei e la tecnocrazia che mutò il volto della Spagna. Dato a Dio quel che era di Dio, Franco pensò a Cesare: il regime. Per farlo finse di non vedere che il cambiamento sarebbe stato generato proprio dalla sua scelta di campo. Franco condivideva poco , se non nulla, dello statuto delle Nazioni Unite e meno ancor della dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Però aveva bisogno di sedere nell'Onu (la Spagna vi fu accolta nel 1955, come l'Italia) e di offrire all'esterno una parvenza di rispettabilità. Chi la visitava constatava che il paese era “in ordine”. Le città si riebbero. Nell'arco di un decennio si affacciò una dirigenza che non arrivava dalla guerra civile. Tra i primi ne fu esponente Fraga Iribarne, onnipresente in convegni culturali all'estero.

  Prevalentemente in divisa, chiuso in ossessioni confinanti con allucinazioni, Franco completò il “grande balzo” ricevendo al Palazzo d'Oriente diplomatici e militari che avevano lasciato in valigia grembiule, sciarpa e guanti di loggia, indossati nelle logge castrensi installate in case private e nelle basi militari americane in Spagna. Con lo pseudonimo di J. Boor egli scriveva articoli contro la massoneria ma non vedeva i “fratelli” che incontrava. Grazie a quella distopia, da taluni considerato doppiezza, gettò le basi della lunga transizione che non iniziò dopo la sua morte ma dagli Ann Sessanta. Tra gli “intellettuali” esuli alcuni rientrarono, con la massima discrezione. Lentamente furono poste le basi per l'attuazione del programma il 18 luglio 1938 invocato da Manuel Azana: “paz, piedad, perdòn”. Madrid aveva fretta di entrare a far parte del Mercato comune europeo e delle istituzioni comunitarie nascenti. Incappò nell'ostilità di quanti prendevano a pretesto la perdurante repressione di movimenti centrifughi per escluderne la sempre più fiorente produzione agroalimentare  manifatturiera. In quegli anni la Spagna non fu l'unico Stato a combattere senza esclusione di colpi indipendentismi armati come l'Ira, speculare all'Eta.

  Ognuno di essi poté farlo a mani basse perché la divisione dell'Europa in blocchi  favoriva la sopravvivenza dei regimi. Sotto la scorza del franchismo la Spagna fu l'unico Paese a mutare in profondità. Il ripristino della monarchia fece il resto.

Anche il comunista Santiago Carrillo, rientratovi dal lungo esilio, osservò che per gli spagnoli essa era come la “sopa de ajo”, un piatto popolare.

 

  Un'ultima considerazione si impone. Dopo gli anni indimenticabili di Felipe Gonzalez, i Spagna socialisti imboccarono la via della “ley de la memoria” per cancellare i ricordi dell'età franchista, erroneamente dipinta esclusivamente buia, fonata sul terrore. Con Zapatero e, ancor più con Sanchez, imperversò la “memoria democratica”, che si risolse nella memoria a senso unico, nella cancellazione della complessità della storia. Una deformazione della verità. Cambiare nomi a vie e piazza è un conto, spostare salme (come accadde a quelle di Franco e di José Antonio Primo de Rivera, estumulati dal Valle de los Caidos, è un conto; negare che gli enormi progressi economici e civili della Spagna odierna ha radici negli ultimi quindici anni dell'età di Franco, è un altro. Il giudizio storico richiede conoscenza ed equilibrio. Senza le esagerazioni dell'estremismo di sinistra “Vox” sarebbe rimasto un partito con scarso seguito. Mentre si preparano a tornare al governo, i “moderati” fanno sapere non intendono averli alleati, per non attizzare un dualismo che appartiene al passato remoto e non ha nulla a che vedere con la Spagna odierna, quella di Felipe VI di Borbone, perno e garante dello Stato.

 

Aldo A. Mola    


Sulla Spagna dal franchismo a fine Novecento v. Aldo A. Mola, L'integrazione europea e la penisola iberica in Storia dell'integrazione europea, a cura di Romain H. Rainero, Milano, Marzorati, 1997, vol,. I, pp.595-636. 

Appuntamento culturale a Villa Torlonia. Roma

 Siete cortesemente invitati a un Nostro Incontro di Studio e di Ricerca

dedicato al Patrimonio Storico Italiano, 

con particolare attenzione alla Storia del Regno d'Italia.

      Invito a VILLA TORLONIA


La prestigiosa residenza nobiliare è stata al centro

della Storia del Regno d’Italia

e motivo di ispirazione per l’azione futura.

Il percorso museale metterà in luce l’intimo legame mitico-simbolico

sussistente tra Arte, Natura e Storia.

Dalle sale del Villino Nobile, dove si possono ammirare gli affreschi

esaltanti le virtù degli Italiani illustri,

alle stanze della Casina delle Civette,

dove si può cogliere il gusto raffinato delle Arti Decorative,

dalle vetrate di Cambellotti all’arredo d’epoca.

Un luogo decisivo per comprendere gli Eventi storici
da Porta Pia a Palazzo Venezia.

SABATO POMERIGGIO  19  LUGLIO  2025  ORE 17
VIA  NOMENTANA   70  (Ingresso Villino  Nobile) ROMA
        INGRESSO GRATUITO CON MIC
N.B. La Carta MIC riservata ai residenti della Città Metropolitana
si può effettuare in rete o nei musei comunali.
Per ulteriori informazioni SITO https://miccard.roma.it/
          La puntualità è cosa gradita
PRENOTAZIONE OBBLIGATORIA     

In ALLEGATO ulteriori informazioni e le modalità di partecipazione.
Cordialmente.
         Prof. Massimo Fulvio Finucci e D.ssa Clarissa Emilia Bafaro

domenica 22 giugno 2025

Auguri al Principe Emanuele Filiberto

 

Il 22 giugno S.A.R, il Principe Emanuele Filiberto di Savoia, compirà 53 anni, e come tanti italiani mi sento onorato di porgerGli gli auguri più sentiti.  

Il 13 giugno u.s. era presente alla cerimonia in onore del Santo di Padova.  

In un’intervista aveva dichiarato di essere molto devoto al Santo, come suo padre S.A.R  Vittorio Emanuele di Savoia, e come il nonno Re Umberto II. 

Quest’ultimo ebbe la possibilità di frequentare l’università di Padova dove si laureò in Giurisprudenza.  Il Principe Emanuele Filiberto non ebbe la possibilità di frequentare alcuna università italiana perché visse in esilio fino al 2002.  La figura del Principe è diventata molto popolare e degna di ammirazione perché attraverso gli Ordini Dinastici della Real Casa Savoia si prodiga con abnegazione in opere solidali e benefiche in tutto il mondo. 

Mi viene in mente una frase di Lev Tolstoj  :” Nella vita non vi è che una felicità vera: vivere per gli altri”. Un assioma messo in pratica dal Principe. 

Non bisogna dimenticare la  gentilezza d’animo e la disponibilità che dimostra verso le persone che Lo avvicinano per un saluto, una dedica o una foto.  

Quando nacque il 22 giugno del 1972 a Ginevra, io ero un ragazzo che frequentava le scuole medie, e ricordo quel giorno perché i miei genitori avevano appreso la notizia dai giornali.

Il loro volto aveva un velo di tristezza perché il nipote di un Re doveva vivere in esilio. Non capivano quali colpe gli si potesse attribuire.  I vecchi giornali di allora li conservo ancora, sono una testimonianza di una parte di storia scritta da persone ingiuste. 

Fin da allora nutro un grande rispetto per Casa Savoia e una profonda ammirazione per la sua storia millenaria che ha portato all’unificazione d’Italia. Un grande desiderio del Principe è quello di poter portare al Pantheon Re Umberto II e la consorte Maria Josè. Per questo spera nell’assenso del nostro Presidente della Repubblica. Nel mio archivio in cui conservo da anni i giornali che trattano delle vicende della Real Casa Savoia ho trovato una pagina del Secolo XIX del 3 novembre 1983 che riportava una lettera molto interessante, inerente alla visita della principessa Marina Doria all’Ospedale Gaslini di Genova. 

“Come tutti sanno, la Principessa Marina di Savoia, sposa di Vittorio Emanuele, ha accettato l’invito della Contessa Germana Gaslini a visitare l’ospedale pediatrico migliore d’Italia. Al di là dell’etichetta, essa è rimasta veramente commossa e ha detto che vedere bambini che soffrono è atroce, e sentendo che il Gaslini attraversava gravi difficoltà economiche, si è impegnata ad aiutare, anche finanziariamente, questo istituto. 

Quando le hanno chiesto che cosa suo figlio conosce dell’Italia ha risposto : - Praticamente tutto: la nostra lingua, la storia, e l’arte. Ha un grande desiderio: visitare Venezia. Spero che possa esaudirlo, perché ogni volta che vede un italiano, chiede: “ Ma com’è la mia città?”, della quale porta il titolo, conferitogli dal nonno.- Io mi dico: anche lui è un bimbo che soffre, sia pur moralmente e, come i suoi genitori aiutano i nostri bimbi. 

Non è proprio possibile un gesto di bontà, da parte italiana, permettendo a questo bambino incolpevole e di innegabile origine italiana, di esaudire quel desiderio di vedere Venezia, anche per una sola volta? 


Perché vogliamo solo “ricevere” e non “ dare” nulla, soprattutto se non con costa niente?  ( Alda Stranieri).  E tutto ciò, nonostante , che anche l’Italia avesse firmato , nel 1977, la Dichiarazione di Helsinki che vieta a tutti i popoli di infliggere l’esilio per ragioni politiche.