PROMEMORIA
Invito a VILLA BORGHESE
Il Parco ospita un repertorio monumentale straordinario,
tale da potersi considerare un vero e proprio Museo a cielo aperto.
INFO E PRENOTAZIONI 338 4714674
POSTA terzanavigazionefutura@gmail.com
PROMEMORIA
Invito a VILLA BORGHESE
Il Parco ospita un repertorio monumentale straordinario,
tale da potersi considerare un vero e proprio Museo a cielo aperto.
INFO E PRENOTAZIONI 338 4714674
POSTA terzanavigazionefutura@gmail.com
Siete cortesemente invitati a un Nostro Incontro di Studio e di Ricerca dedicato al Patrimonio Storico Italiano,
con particolare attenzione
alla Storia del Regno d'Italia.
Invito MUSEO CENTRALE MONTEMARTINI
Il Museo si presenta in un
luogo di sintesi eclettica
tra archeologia
industriale e architettura neoclassica,
monumentalità e
funzionalità.
Il percorso espositivo
mette in luce il dialogo straordinario
tra macchina moderna e
archeologia classica,
produttività e bellezza.
Incipit del Processo di
Modernizzazione di Roma Capitale d’Italia.
DOMENICA POMERIGGIO
27 LUGLIO 2025
ORE 17
VIA OSTIENSE
106 (Ingresso Museo)
ROMA
INGRESSO GRATUITO CON MIC
N.B. La Carta MIC
riservata ai residenti della Città Metropolitana
si può effettuare in rete
o nei musei comunali.
Per ulteriori
informazioni SITO
https://miccard.roma.it/
La puntualità è cosa gradita
PRENOTAZIONE OBBLIGATORIA
INFO E PRENOTAZIONI 338 4714674
POSTA terzanavigazionefutura@gmail.com
Cordialmente.
Prof. Massimo Fulvio Finucci e D.ssa
Clarissa Emilia Bafaro
di
Aldo A. Mola
Abbassare
l'asticella per saltare più alto?
Il
centenario del 1925 scivola via nell'indifferenza dei “media”. La
contrapposizione di “manifesti” pro e contro il fascismo (Giovanni Gentile da
una parte, Benedetto Croce dall'altra) importava ai loro firmatari e ai loro
(non molti) lettori ma lasciava indifferente la generalità degli italiani e
ancor più l'opinione estera. In vista del rinnovo dei consigli comunali e
provinciali eletti nel novembre 1920, Benito Mussolini, capo di un governo
abbastanza sicuro di sé, si domandò che cosa fosse meglio fare. Cambiare la
legge elettorale prima del voto, ieri come oggi, è la tentazione di chi vuol
vincere anche senza avere la maggioranza dei consensi. Basta abbassare
l'asticella per saltare più alto. Mussolini aveva il pieno controllo della
Camera grazie alla diserzione dall'Aula di democratici, repubblicani, dei due
partiti socialisti e dei popolari, arroccati sull'inutile “Aventino”. Ma il
Senato poteva riservare sorprese. I senatori iscritti al Partito fascista erano
una sparuta minoranza. Alle elezioni amministrative le opposizioni avrebbero
potuto sommarsi ai liberali in un fronte unico, numericamente prevalente. Per
pararsi le spalle il duce doveva disfarsi del loro possibile collante: la
Massoneria. Solo così avrebbe potuto completare il suo disegno: annientare il
regime liberale e sostituirlo con quello fascista. Lo disse chiaro e tondo alla
Camera.
La
legge antimassonica in Senato
Il
disegno di legge sulla “Regolarizzazione dell'attività delle associazioni, enti
e istituti e dell'appartenenza ai medesimi del personale dipendente dallo
Stato, dalle provincie, dai comuni e da istituti sottoposti per legge alla
tutela dello Stato, delle provincie e dei comuni” venne approvato alla Camera
dei deputati all'unanimità dei votanti il 19 maggio 1925.
I
passi definitivi verso la conquista del “potere di governo” (altra cosa da
quella sullo Stato, che rimase nelle mani del re, come si vide il 25 luglio
1943) vennero compiuti da Mussolini in Senato il 19-20 novembre, quando i patres
discussero la legge “contro la Massoneria”.
Alle
15:30 del novembre 19 la Camera Alta anzitutto convalidò la nomina a senatore
del quadrumviro Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, clericale e massonofobo.
Il tenore della discussione seguente fu molto elevato. In una vasta perorazione
l'insigne giurista Francesco Ruffini (1863-1934, nominato senatore il 30
dicembre 1914) ricordò le tre libertà cardinali: di pensiero, di stampa e di
associazione. Quando domandò se l'Italia credesse «veramente di tener fermi i
suoi odierni antiliberali ordinamenti» Mussolini lo interruppe: «Sì, finché ci
sono io.» Ruffini aggiunse che l'Italia
non poteva vivere «in una economia chiusa, e non può quindi neanche immaginarsi
di poter vivere di una vita costituzionalmente chiusa». Il messaggio andava
oltre il presidente del Consiglio, ma per farlo arrivare “in alto” occorreva un
“voto” di portata significativa, che non ci fu né quel giorno né poi.
Vittorio Emanuele III, re costituzionale
non poteva sostituirsi alle Camere. Ruffini concluse con le parole di Niccolò
Machiavelli: «Forza alcuna non doma, tempo alcuno non consuma, merito alcuno
non contrappesa il nome della libertà.»
Dopo di lui Filippo Crispolti, antesignano
dell'impegno dei cattolici nella vita politica della Nuova Italia, chiese che
venisse chiarita la distinzione tra le associazioni segrete e quelle lecite e
non segrete (come le cattoliche, che non nominò) e impetrò che non si
infierisse su quanti avevano percorso una strada deviante poi abbandonata: i
“massoni pentiti”. Con sottile perfidia aggiunse che «vi possono essere Governi
in cui qualche membro abbia dei precedenti che il Senato non vorrebbe
approvare!». Mussolini rimbeccò: «Ho capito», memore dei suoi precedenti
giudiziari. Era stato condannato e incarcerato per opposizione all’“impresa di
Libia” e successivamente “fermato” per reati contro l'ordine pubblico.
Il
protonazionalista Enrico Corradini ripeté con soverchia irruenza la condanna
della «esotica e svanita mitologia razionalistica, a cui fu dato il nome
sacrilegamente ridicolo di Supremo Architetto dell’Universo», del massone,
«prototipo dell'uomo socialmente basso», e della massoneria, «nazionalmente
criminale per due azioni continuate: per quella antireligiosa e per l'azione
internazionalista» e sollecitò a «riesaminare e regolare la libertà di stampa».
In attesa che il governo proponesse e il parlamento reprimesse la libertà di
stampa, i fascisti lo avevano fatto e lo stavano facendo a modo loro:
bastonando Piero Gobetti, Giovanni Amendola e altri giornalisti e parlamentari
scomodi e spingendo i proprietari o comproprietari di quotidiani di ampia diffusione
a disfarsi dei soci e dei direttori e vicedirettori invisi e scomodi. Fu il
caso del “Corriere della Sera”, dal quale vennero estromessi Luigi e Alberto
Albertini, e di “La Stampa”, sottratta al senatore Alfredo Frassati,
giolittiano. Corradini promise: «L’Italia s'è mossa, l'Europa seguirà».
Osservò: «Fra quaranta milioni di italiani chi grida, o chi piange, perché si
sospendono giornali, si sciolgono partiti? Nessuno. Non si levano voci dal
popolo italiano, in tutt'altre faccende affaccendato». Infine lodò il governo
«disciplinatore e attivo e fattivo». Fu sommerso dal plauso delle tribune, così
sguaiato che il presidente Tommaso Tittoni, antico ministro degli Esteri con
Giolitti, minacciò di farle sgombrare.
Nell'intervento
a sostegno della “legge modesta” Alfredo Rocco, ministro della Giustizia dal 5
gennaio di quello stesso 1925, esordì partendo da quanto il 16 maggio aveva
osservato alla Camera il comunista Antonio Gramsci: la legge non era che «un
anticipo di quella più vasta ed organica legislazione alla quale bisognerà pur
metter mano», a cominciare dalla «disciplina giuridica dei rapporti di lavoro».
Precisò che essa non toccava la libertà di associazione ma «la libertà del
segreto di associazione». Un sofisma. Per bocca sua i fautori del regime di
partito unico enunciarono apertamente i propri obiettivi. Rocco dichiarò che la
legge in discussione era «un primo timido passo sulla via della rivendicazione
dell'autorità dello Stato sulle forze che si organizzano nel paese. […] Lo
Stato deve dominare infatti tutte le forze esistenti nel Paese e non si può
ammettere, come si è purtroppo ammesso lungamente, l'esistenza di
organizzazioni potenti come la Confederazione del lavoro, come le associazioni
di impiegati delle ferrovie, delle poste, dei telegrafi, di marittimi e di
tramvieri, o infine come la Massoneria, che sieno padrone effettive della vita
della nazione». Aggiunse che il governo non dichiarava guerra contro la
Massoneria quale associazione internazionale, «una istituzione innocua e
perfino utile» ma per come essa era in Italia, «dannosa all'ordine pubblico e
alla pubblica moralità». Ripercorso rapidamente il profilo dell'Istituzione dal
Settecento, si soffermò su «il carattere e il programma anticattolico» di
quella italiana. Escluse infine che la legge avesse intenti punitivi con
efficacia retroattiva: «noi non vogliamo che il peccatore muoia, vogliamo
invece che si converta e viva.»
Croce
si astiene, Diaz approva
La
discussione riprese alle 15 dell'indomani, 20 novembre, un venerdì. A nome di
alcuni colleghi come lui travagliati dal dissidio tra giudizio negativo sulla
Massoneria e le circostanze presenti, intervenne per primo Benedetto Croce.
Dichiarò di astenersi dal voto perché la legge era proposta «quando non solo le
condizioni della pubblica libertà sono assai turbate in Italia (commenti
animatissimi), ma si ode proclamare con feroce gioia la distruzione del
sistema liberale (proteste) e questo disegno di legge è considerato come
parte integrante di un unico tutto di leggi antiliberali». Dopo Vittorio
Zupelli, già ministro della Guerra, a favore della legge si dichiarò anche il
generale Guglielmo Pecori Giraldi che propose di aggiungere: «Gli ufficiali di
qualsiasi grado e categoria dei corpi armati dello Stato, che risultino
appartenenti alla Massoneria, o ad altra società segreta, incorrono senza più
nella perdita del grado per mancanza contro l’onore». Lo sapesse o meno, tra
gli “ufficiali massoni” molti erano patrioti benemeriti dell'Italia. Dopo
altri, Mario Orso Corbino annunciò l'astensione e rivendicò la funzione
dell'anticlericalismo. Era stato allievo in un seminario nel quale si
assegnavano voti più alti ai temi nei quali si affermava che «Garibaldi era un
filibustiere, che Vittorio Emanuele II era un nefando usurpatore e che presto
sarebbero scesi in Italia i liberatori del Santo Padre in catene». Nettamente
contrari furono i senatori Vittorino Cannavina e Federico Ricci, secondo il
quale «colle leggi fascistissime di cui questa è la prima, la nazione viene
avviata verso un grave esperimento di nuovo regime». Avversi si dichiararono
anche Nino Tamassia (in specie per «il triste carattere retroattivo che una
giurisprudenza politica di un gran popolo ha voluto equiparare ad un delitto»)
e Guido Mazzoni.
Venne
chiesta la chiusura, approvata per alzata di mano.
Il
senatore Adriano De Cupis, relatore sul disegno di legge, ammonì che «il
diritto alla menzogna è statutario nella Massoneria». Dopo la dichiarazione di
astensione di Vito Volterra e di Eugenio Bergamasco, Armando Diaz, duca della
Vittoria, ricordò che da comandante supremo aveva respinto la proposta
dell’«allora capo della massoneria (Ernesto Nathan) di costituire dei nuclei e
dei centri di propaganda massonica nell'esercito per sollevare il morale dei
combattenti» e annunciò voto favorevole. Malgrado insinuazioni e asserzioni,
talvolta anche perentorie (per esempio da parte di Maria Rygier), non esiste
alcuna prova di iniziazione massonica sua né di Pietro Badoglio. La formula “in
odore di” può forse valere per i santi, non per i massoni. La storiografia non
si fonda sull'olfatto ma sui documenti.
Mussolini: annientare
il regime liberale
Per
ultimo intervenne Mussolini. Negò che il fascismo fosse divenuto antimassonico
solo dopo la fusione con i nazionalisti. Aveva seguito un progetto proprio,
articolato e coerente. Dapprima aveva «demolito il bolscevismo, poi ha
affrontato la Massoneria, finalmente il regime liberale». Ora era la volta del
terzo “nemico”, non ancora completamente distrutto ma ormai periclitante e
senza difensori in Parlamento, come appunto era emerso nei primi undici mesi
del 1925. Rivendicò che quello stesso 20 novembre ben 900 banchieri degli Stati
Uniti d'America lanciavano l'acquisto di azioni del Prestito italiano:
un'operazione complessa sotto il profilo tecnico e politicamente redditizia
perché mostrava che il nuovo regime aveva il sostegno della più solida economia
mondiale. Non accennò minimamente a quanto, a sostegno del prestito, stava
facendo oltre Atlantico Raoul Palermi, gran maestro della Serenissima Gran
Loggia d'Italia. Concluse: «Con questa legge si chiude evidentemente un periodo
della storia italiana, e io potrei modestamente dire che raccolgo i frutti di
una lunga e tenace campagna».
Su
235 presenti, 208 votarono “si”, 6 “no” e 21 si astennero. Tra i “si” vanno
ricordati Ernesto Artom, Badoglio, Luigi Cadorna, Eugenio Cagni, Alfredo
Dallolio, Bassano Gabba, Emanuele Greppi, il marchese Raniero Paulucci de
Calboli, Camillo Peano, Gabriele Pincherle, Vittorio Polacco, il generale Carlo
Porro, Vittorio Puntoni, Francesco Salata, Giuseppe Salvago Raggi, il conte
Salvatore Segré Sartorio, Paolo Thaon di Revel, Pietro Tomasi della Torretta,
il principe Giovanni Torlonia, Adolfo Venturi e Giulio Venzi. Votarono “no”
Nicola Badaloni, Alfredo Canevari, Vittorino Cannavina, Carlo Fadda, Ricci e
Ruffini. Tra gli astenuti, oltre a Mario Orso Corbino e Croce, si contarono
Alfredo Lusignoli, Gaetano Mosca, il marchese Emanuele Paternò di Sessa, massone
insigne, e Leo Wollemborg.
Nel
dibattito sugli articoli, ricordato che non poteva essere «condannata in
toto, in maniera assoluta e con tanta facilità, una associazione che
aveva avuto tra i suoi membri italiani Romagnosi, Garibaldi, Cairoli, Carducci
e Bovio», Ettore Ciccotti domandò a Rocco se era giuridicamente ammissibile
«obbligare, sotto gravi sanzioni e in forma coattiva, qualcuno ad accusarsi da
sé». Neppure il codice penale lo pretendeva. Il ministro cercò di conferire
alla legge un profilo molto basso: «Faremo indagini non su tutti gli impiegati,
ma solo su quelli per i quali abbiamo fondati motivi di ritenere che sono
massoni. E a questi giustamente domanderemo anche se lo sono stati, perché
l'essere stato massone in tempo recente è grave indizio per ritenere che lo
siano tuttavia». Argomenti da “ministro della polizia investigativa” (chi, come
e perché si era procurati i “fondati motivi” di imputabilità per un reato
inesistente?), che non confortano la sua celebrazione quale “giurista insigne”.
Nella votazione finale la legge passò con 182
voti favorevoli e 10 contrari.
L'abolizione
dei consigli comunali e provinciali elettivi
La
Camera il 18-21 e 25-28 novembre approvò i bilanci di previsione del 1926 e la
consueta congerie di leggi ordinarie. Altrettanto avvenne il 2-5, il 9-12 e
16-19 dicembre, mentre la “piazza”, ormai sotto pieno controllo del Pnf,
tumultuava chiedendo la pena di morte per gli attentatori alla vita di
Mussolini.
Mentre
l'indagine a carico di Tito Zaniboni e di Luigi Capello procedeva a rilento,
Mussolini accelerò la marcia verso il regime di partito unico lungo tre
direttive: anzitutto cancellare la libertà di scelta dei rappresentanti alla
Camera e nelle amministrazioni locali, conservando tuttavia l'esercizio del
voto nelle elezioni politiche per farne un plebiscito a favore del governo,
come in tutti i Paesi totalitari d'Europa; inoltre bisognava subordinare al
partito fascista il pubblico impiego e, infine, concentrare nelle mani del capo
del governo il massimo dei poteri, sino a farne l'interlocutore unico del re.
La fase decisiva della costruzione del regime venne facilitata
dall'autoesclusione delle opposizioni dall'Aula, a eccezione della pattuglia
giolittiana e dei comunisti.
Dopo il successo alle elezioni del 6 aprile
1924 e il furbesco annuncio del ritorno ai collegi uninominali (mai attuato)
Mussolini non era affatto tenuto a convocare nuove elezioni generali, che, se
del caso, si sarebbero svolte sulla base della “legge Acerbo”, smodatamente
maggioritaria. Gli premeva invece eliminare l'elettività delle amministrazioni
locali. La legge 11 settembre 1925, n. 1756 in un articolo unico sancì che
«quando sia necessario, il prefetto ed il sottoprefetto possono, secondo le
rispettive competenze, affidare provvisoriamente ad appositi commissari la
reggenza delle amministrazioni provinciali, comunali e consorziali», ma solo
per la durata di due mesi quando fosse in carica la metà dei consiglieri. I
consigli comunali e provinciali in carica erano stati in gran parte eletti nel
1920 e avevano registrato il successo dei “blocchi nazionali” (liberali,
combattenti, nazional-fascisti) poi varati col benestare di Giolitti nelle
elezioni politiche del maggio 1921. In molte elezioni amministrative svolte
dopo l'avvento del governo Mussolini socialisti e popolari avevano ottenuto
esiti soddisfacenti anche in città di rilievo. Il Pnf, ancora poco organizzato,
aveva tuttavia ottenuto lo scioglimento di numerose amministrazioni locali con
aggressioni e minacce a sindaci, componenti di giunte e consiglieri o con la
promessa di contributi statali per il completamento di opere pubbliche da tempo
in progetto o in cantiere ma ferme per carenza di fondi. Il disavanzo di
amministrazione divenne motivo (o tagliola) sufficiente per decretare il
commissariamento sulla base del controllo dei bilanci degli enti locali da
parte della apposita commissione prefettizia, grimaldello del ministero
dell'Interno per irrompere nelle autonomie locali. Fu il caso del consiglio
comunale di Roma, la cui amministrazione venne affidata a Filippo Cremonesi il
19 aprile 1923 creato senatore per la 21^ categoria.
Il
rinnovo dei consigli locali poteva costituire un’importante opportunità per i
partiti di opposizione, indotti a convergere su liste unitarie. Il rischio fu
scongiurato in due tappe. Dapprima il rinvio delle elezioni e poi la legge 4
febbraio 1926, n. 237 che sostituì i consigli comunali elettivi nei comuni non
eccedenti i 5.000 abitanti con il podestà nominato con decreto reale, assistito
da una consulta comunale, eventualmente formata su parere del prefetto. In
carica per cinque anni, con possibilità di essere sempre confermato, il podestà
poteva essere trasferito dal prefetto da un comune all'altro della provincia ed
esercitava tutte le funzioni precedentemente spettanti a sindaco, giunta e
consiglio comunale. Podestà vennero nominati personalità dalle comprovate
competenze “tecniche”, spesso ufficiali delle forze armate, assistiti dai
segretari comunali, vegliati dal ministro per l'Interno tramite i prefetti. Con
i Regi decreti 15 aprile e 3 settembre 1926 l'istituto podestarile fu esteso a
tutti i comuni del regno, che dipesero quindi dal governo tramite i prefetti,
chiamati a determinare gli enti economici, i sindacati e i sodalizi locali ai
quali competeva proporre i consultori comunali.
La
svolta verso il regime di partito unico non si risolse dunque in un colpo di
mano improvviso. Richiese quasi due anni e una concatenazione di interventi in
parlamento, leggi e circolari attuative. L'edificio sorse da un progetto
organico, vegliato da maestranze qualificate, con una folla di addetti. Opera
da Grande Architetto. Con varie “migliorie”
durò diciotto anni. Crollò solo per la catastrofe bellica del 1943,
quando ormai la stragrande maggioranza degli italiani neppure ricordava le
elezioni di una Camera pluripartitica e dei consigli locali.
Il
gusto della libertà è per palati fini.
Aldo
A. Mola
DIDASCALIA:
Benito Mussolini “domatore”. Alternò sorrisi e minacce. Intervenne in
Parlamento e rimbeccò parlamentari illustri. In un paio d'anni impose un regime
che le opposizioni non videro arrivare.
Siete cortesemente invitati a un Nostro Incontro di Studio e di Ricerca
dedicato al Patrimonio Storico Italiano,
con particolare attenzione alla Storia del Regno d'Italia.
Invito a VILLA BORGHESE
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SABATO POMERIGGIO 26 LUGLIO 2025 ORE 17
INFO E PRENOTAZIONI 338 4714674
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Cambi di fronte, cambi di regime
di Aldo A. Mola
El Valle de los Caidos: immaginata come emblema della pacificazione. |
Il
18 luglio 1936 in Spagna quattro generali insorsero contro il governo. Iniziò
una guerra civile durata quasi tre anni. Il calcolo delle sue vittime,
prevalentemente civili, rimane ancora approssimativo. Quella guerra non fu la
premessa della guerra “europea” iniziata
nel 1939 e divenuta mondiale dal 1941. Il governo repubblicano di Madrid
ebbe il sostegno di brigate internazionali, prevalentemente comuniste, ma non
quello diretto di Mosca. I nazionalisti furono fiancheggiati dalla Germania,
che inviò la micidiale Divisione Condor, e dall'Italia con il “Corpo Truppe
Volontarie”, bene armate. Ma la guerra del settembre 1939 iniziò con l'attacco
della Germania e dell'Urss contro la Polonia, alleata di Francia e Gran
Bretagna, che però non intervennero a sua tutela. L'Italia di Mussolini rimase
spettatrice e poco dopo co-belligerante, pro-Hitler. Tra la guerra civile
spagnola e l'europea vi fu dunque sequenza cronologica ma non strettamente
logica. Vincitore in Spagna, Francisco
Franco rimase prudentemente neutrale dall'avvento e infine aprì agli
anglo-americani, che garantirono la continuità del suo regime, sorretto dalla
Chiesa, sino alla sua morte.
Il 12 ottobre 1936 gli spagnoli celebrarono
la festa della Hispanidad, in coincidenza con la “scoperta dell'America”, che
il “descubrimiento” li univa al di sopra di ogni divisione
ideologico-partitica. Era divenuto ancor
più sentito dalla perdita delle Filippine e di Cuba nel 1898, a vantaggio degli
Stati Uniti d'America, in forte ribasso di popolarità nelle file degli
intellettuali iberici in varia misura segnati dal Novantottismo. Ne era stato
interprete il diplomatico e saggista granadino Angel Ganivet, suicida a 32
anni, nel 1898. Il suo Ideario spagnolo pose l'interrogativo sui motivi
della decadenza e smarrimento dell'identità degli spagnoli. Aprì le sue
riflessioni richiamando l'esempio di Seneca, lo stoico che si svenò dolcemente
in acqua tiepida, e le chiuse con don Chisciotte e Sancho Panza, rovello della
generazione seguente.
Quel 12 ottobre 1936 all'Università di
Salamanca esplose il durissimo scontro tra il rettore Miguel de Unamuno
(Bilbao, 1864-Salamanca 1936) e José Millan Astray, fondatore della Legiòn.
Secondo la versione più nota, Unamuno, filosofo, scrittore, autore di
tormentate opere teatrali e dal 1891 docente di greco e latino nella
prestigiosa Università salamantina, espresse un severo giudizio sulla mentalità
del “soldato”, dall'orizzonte chiuso tra vita e morte, in spregio ai dubbi
degli intellettuali. Millan Astray sbottò: “Viva la muerte!” o “Muoia
l'intelligenza”. Lo scrittore José Maria Pemàn tentò la mediazione:“Viva
l'intelligenza e muoiano gli intellettuali cattivi”, i cosiddetti “cattivi
maestri”. Unamuno rivendicò che l'Università era “il tempio dell'intelligenza”.
Da suo sommo sacerdote disse: “Voi state profanando il suo recinto”. Concluse:
“Vincerete ma non convincerete”. Dati i precedenti, gli poteva andare molto
male. Nel 1931 Unamuno era stato destituito da Rettore perché antimonarchico. In suo favore -era lo spagnolo più noto all'estero- scesero
in campo scrittori e artisti euro-americani. Invano. Unamuno lasciò le Canarie,
ove era “confinato”, poco sicure per la sua incolumità, riparò a Parigi e poi
si installò a Endaya, sul confine franco-spagnolo. Rientrato Salamanca dopo la caduta della monarchia
venne rieletto rettore. Ora doveva fare i conti con l'ala dura dei “nazionali”
insorti il 18 luglio.
A sorpresa, in soccorso del pensatore
intervenne Carmen Polo, la moglie di Francisco Franco y Bahamonde. Da settembre
scelto come capo unico della sollevazione armata dei “nazionali” contro il
governo repubblicano di Madrid, Franco aveva insediato il comando a due passi
dalla Cattedrale e dall'Università. Donna Carmen offrì il braccio a Unamuno e
scortata da Pemàn lo condusse al sicuro, fendendo la folla. Affranto, il
filosofo scrisse a un amico: “Vincere non è convincere e conquistare non è
convertire. (…) Si lotta, si ammazzano gli uni con gli altri, bruciano chiese, celebrano cerimonie,
sventolano bandiere rosse e stendardi di Cristo”. Ma non era vero che metà
degli spagnoli credessero nella religione di Cristo e metà in quella di Lenin.
Quello sfacelo avveniva perché gli spagnoli non credevano in niente. “Il popolo
spagnolo è uscito pazzo. Il popolo spagnolo e il mondo intero. Sono solo. Solo
come (Benedetto) Croce in Italia!”.
Nuovamente destituito da rettore, questa volta dai franchisti, si ritirò a vita
privata. Morì il 31 dicembre. Non perse di obiettività. A suo avviso i
“ribelli” (cioè i “nazionali”) tendevano a “salvare a civiltà occidentale
cristiana e l'indipendenza” della Spagna. Non si schierò per nessuna delle due
fazioni, ma per la Spagna.
Il successo internazionale e l'immensa
produzione letteraria non lo mettevano al sicuro. Autore di opere celebri, come
“Pace nella guerra” (1897), “Il sentimento tragico della vita” (1913) sino a “Vita di Don Chisciotte” e
“Romancero dell'esilio”, Unamuno sapeva dell'assassinio immotivato, già a
luglio, del poeta granadino Federico Garcia Lorca, che non aveva fatto in tempo
ad accogliere l'invito a riparare negli Stati Uniti d'America. Nella notte del
28-29 ottobre Ramiro de Maetzu, venne svegliato nella della prigione madrilena
di Ventas. Un carceriere gli disse che
era inutile si vestisse: “Per dove vai va bene anche il pigiama”. Ottenuta
l'assoluzione da un prete compagno di sventura, uscì. Cadde fucilato. Dopo
Unamuno e Ortega y Gasset, de Maetzu era l'intellettuale spagnolo più famoso
all'estero. Il suo percorso è esemplare. Nato nel 1874 a Vitoria, nel paese
basco, esordì collaborando a “El socialista”. A Londra dal 1905 al 1920 scrisse in “The New Age”, come Ezra Pound e George Bernard Shaw, una
rivista aperta a esoterismo e riformismo. Rientrato in Spagna si schierò con
Miguel Primo de Rivera. Dopo il colpo di stato indolore del 13 settembre 1923,
con la “dittablanda”, come la sua era detta per distinguerla da una “dittatura” vera, de Rivera impresse
all'economia spagnola una imponente
accelerazione, sorretta da cospicui investimenti esteri, in specie
britannici. Ne ha scritto Fernando Gaarcia Sanz. Già autore di un affermato
saggio sul Don Qujote di Cervantes, tormento di tutti gli scrittori della sua
epoca, e fondatore dell'Unione Monarchica Nazionale, nel 1931 Ortega si schierò
contro la repubblica nata dalla equivoca interpretazione dei risultati delle
elezioni amministrative. Le sinistre prevalsero a Madrid e nelle maggiori città
ma i monarchici ebbero più voti. A contare, però, furono le manifestazioni di
piazza a favore del cambio istituzionale. Memore degli eventi di un
settantennio prima e del naufragio della prima repubblica, Alfonso XIII di
Borbone lasciò la Spagna nella certezza di essere presto richiamato sul trono.
Autore di
“Difesa dell'Ispanità” (1933), che gli valse l'ingresso nella Real
Accademia, ed eletto deputato, Ortega si schierò per la difesa dei valori
tradizionali, contro gli “eccessi” dell'anticlericalismo divampante dal 1931:
incendio di chiese, devastazione di conventi, rogo di archivi, profanazione di
salme di ecclesiastici defunti, violenze
ai danni di preti e di monache. Gli stranieri rimasero indifferenti. I più
identificavano il cattolicesimo spagnolo con l'Inquisizione, la caccia alle
streghe (nel Cinque-Seicento imperversante nell'Europa centrale, tra evangelici
e riformati), l'oscurantismo e, ciò che più pesò, la “limpieza de sangre” e
l'espulsione degli ebrei.
Altro intellettuale di prestigio europeo era
Salvador de Madariaga (La Coruna, 1886-Locarno, 1978), storico, diplomatico,
poeta, autore della storia dell'Impero ispanico americano. Lasciata la Spagna
non vi fece ritorno. I colti andavano e venivano. In cerca. I contadini, gli
operai, gli imprenditori rimasero . Finirono nel vortice di una guerra civile
spietata.
Ma per cambiare la Spagna occorreva viverci;
e purtroppo anche morirci. Una sorta di espiazione collettiva.
Come a nota a piè di pagina della sintetica
panoramica dei passaggi di fronte di intellettuali prestigiosi determinati
dalla guerra di Spagna va aggiunto l'interrogativo sulle sue ripercussioni su
“Giustizia e Libertà”, il movimento creato in Francia da Carlo Rosselli, dopo
l'evasione con Emilio Lussu e Francesco Fausto Nitti, massone, dal confino di
polizia a Lipari, al quale era stato condannato dal regime fascista per aver
concorso a trasferire l'anziano Filippo Turati in Corsica, così sottraendolo a
eventuali vessazioni. Messe a segno alcune imprese, anche aviatorie, non sempre
fortunate e comunque lontane dall'impensierire Mussolini che stava riscuotendo vasto consenso nel Paese,
Rosselli organizzò una “colonna” di qualche decina di volontari a sostegno
della repubblica di Madrid con l'insegna “Oggi in Spagna, domani in Italia”.
Essa incontrò non poche difficoltà a farsi accogliere, inquadrare e ad essere
mandata “in linea”. Non tutti i suoi componenti, a cominciare da Rosselli
stesso e Aldo Garosci, che ne scrisse la storia, avevano pratica di armi e, a
differenza di Lussu, meno ancora di battaglie. Nello scontro di Monte Pelato
cadde Mario Angeloni, massone. Dopo vicissitudini che lasciamo tra parentesi,
lamentando una dolorosa flebite Rosselli
rientrò a Parigi. Sul suo “poi” circa trentacinque anni anni addietro lo
storico Franco Bandini pubblicò il frutto di lunghe riflessioni sulla domanda:
“Chi armò la mano degli assassini dei fratelli Rosselli?” (ed. SugarCo). A
Bagnoles-de-l'Orne il 9 giugno 1937 Carlo e suo fratello Nello, studioso del
Risorgimento, rimasto in Italia e sempre ai margini della militanza politica,
occasionalmente in Francia, furono assassinati da “cagoulards”, organizzazione
criminale dichiaratamente di estrema destra ma contraddittorio e sospetto.
Perché quel delitto così efferato? Quale posizione politica e quali progetti
coltivava Carlo Rosselli? In mancanza di elementi sicuri, Bandini non esprime
una sentenza categorica. Però, tassello dopo tassello, documenta che egli non
viveva affatto in clandestinità. Si era premurato di rinnovare il passaporto,
con estensione a Paesi dell'Europa centro-settentrionale (Germania hitleriana
esclusa, s'intende). In Catalogna i volontari italiani avevano assistito
sgomenti alla carneficina di anarchici e libertari da parte dei comunisti
eterodiretti da Mosca. “Giustizia e Libertà” non si riconosceva nel Fronte
Popolare varato da Stalin per egemonizzare l'antifascismo. Pertanto i suoi
militanti costituivano un avversario; anzi un nemico. Da eliminare, acche
fisicamente, come scoprì il repubblicano Randolfo Pacciardi, comandante del
battaglione “Garibaldi” in Spagna. Quando avvertì che la sua vita era
minacciata dai comunisti, previa una seconda iniziazione massonica riparò negli
Stati Uniti d'America.
Bandini intitolò il suo libro “Il cono
d'ombra”. Non immaginava che, ruvidamente stroncato, il volume sarebbe finito a
sua volta in un ...cono d'ombra. Vi rimase malgrado un convegno di studi
dedicatogli in Firenze altre rievocazioni, incluso uno“Speciale” del mensile
“Storia in Rete”. La vicenda, va però osservato, rimase ed è del tutto
circoscritta nei confini italiani. Nessuna tra le maggiori opere di autori
spagnoli ed esteri sulla guerra di
Spagna menzionano la “colonna Rosselli”. Se ne cerca invano traccia nella
monumentale biografia di Franco scritta dall'inglese Paul Preston (tradotta in
Italia da Mondadori), nei volumi di Juan Pablo Fusi e di Fernando Garcia de
Cortazar. La ignora anche lo scrupolosissimo Pio Moa che, autore di saggi e
biografie, ha passato in rassegna Los mitos de la guerra civil.
Anche in Spagna i vent'anni dalla
“ditta-blanda” di Primo de Rivera alla svolta “occidentale” di Francisco Franco
segnarono molti passaggi dall'uno all'altro “bando”. Alcune personalità
eminenti ebbero la sventura di essere uccise o di rimanere intrappolate
nelle tragiche regole di una guerra
civile che fu sull'orlo di divenire mondiale. Si esaurì con la vittoria dei
franchisti nella battaglia dell'Ebro, la loro avanzata in Catalogna, l'ingresso
in Barcellona il 26 gennaio 1939. A quel punto la Gran Bretagna riconobbe il
governo di Franco e lasciò i repubblicani al loro destino. I più previdenti
passarono in Francia, ove furono concentrati in “campi”, in pessime condizioni,
e circondati da diffidenza. Altri ripararono in Messico. In marzo in Madrid divampò
l'ultima guerra civile nella guerra civile tra fazioni dell'estrema sinistra.
Il 28 marzo i nazionali entrarono in Madrid
e il 1° aprile Franco vi celebrò il proprio trionfo, presente Eddy Sogno, che
ne scrisse. Questo si sostanzio in tre operazioni concatenate: il prolungamento
dello sterminio dell'opposizione con la legge speciale contro il comunismo e la
massoneria (ne hanno scritto Juan José Morales Ruiz nel fondamentale Palabras
asesinas, José Antonio Ferrer Benimeli e Maria Dolores Gomez Molleda in La Masonerìa en la crisis
espanola del siglo XX); la sussunzione nel “franchismo” di tutti gli
avversari del governo repubblicano; il consolidamento del suo potere di
generale assurto a “Jefe del Estado”. In quel quadro vennero sfumate le
differenze originarie, sostanziali e mai risolte di tanti “nazionali”, che da
Franco vennero monumentalizzati e sottratti alla storia. Fu il caso di José
Antonio Primo de Rivera. Quando lo fucilarononel carcere di Alicante, i
repubblicani non capirono che stavano facendo un regalo a Franco, perché il
programma della Falange stava al franchismo come il fascismo delle origini
stava al Mussolini degli Anni Trenta. Aveva aperture sociali e culturali molto
lontane dalla rigidità di Franco. Anche Emilio Mola y Vidal, artefice della
sollevazione, aveva un programma che solo la sua morte per incidente areo il 3
giugno 1937 lasciò in fieri. Non concideva con “franchismo”.
Per assicurare le fondamenta del regime
provvisorio Franco usò mano durissima. Esecuzioni e condanne a pene severissime
continuarono nel tempo. D'altronde, pochi mesi dopo la sua vittoria, iniziò la
guerra europea, basata sul clamoroso patto di non aggressione Hitler-Stalin,
sicché nessuno badò a quel che accadeva in Spagna. Importavano le sue risorse
naturali, in specie i minerali rari, da Franco messi a disposizione dei due
fronti con calcoli sagaci.
Scaltro e lungimirante, il “caudillo” si
accinse a fare il vero e più decisivo voltafaccia. Con il rifiuto di
immischiarsi nella guerra a fianco dell'Asse e di infastidire il dominio
britannico su Gibilterra, vitale per gli inglesi, fece buon viso agli Stati
Uniti d'America, che in cuor suo detestava: nulla di più lontano dalla “sua”
Spagna. Questa, però, aveva dalla propria la “Lettera collettiva
dell'episcopato spagnolo” che il 1° luglio 1937 si schierò al suo fianco. Dalle
file dei cattolici sorsero l'Opus Dei e la tecnocrazia che mutò il volto della
Spagna. Dato a Dio quel che era di Dio, Franco pensò a Cesare: il regime. Per
farlo finse di non vedere che il cambiamento sarebbe stato generato proprio
dalla sua scelta di campo. Franco condivideva poco , se non nulla, dello
statuto delle Nazioni Unite e meno ancor della dichiarazione universale dei
diritti dell'uomo. Però aveva bisogno di sedere nell'Onu (la Spagna vi fu
accolta nel 1955, come l'Italia) e di offrire all'esterno una parvenza di
rispettabilità. Chi la visitava constatava che il paese era “in ordine”. Le
città si riebbero. Nell'arco di un decennio si affacciò una dirigenza che non
arrivava dalla guerra civile. Tra i primi ne fu esponente Fraga Iribarne,
onnipresente in convegni culturali all'estero.
Prevalentemente in divisa, chiuso in
ossessioni confinanti con allucinazioni, Franco completò il “grande balzo”
ricevendo al Palazzo d'Oriente diplomatici e militari che avevano lasciato in
valigia grembiule, sciarpa e guanti di loggia, indossati nelle logge castrensi
installate in case private e nelle basi militari americane in Spagna. Con lo
pseudonimo di J. Boor egli scriveva articoli contro la massoneria ma non vedeva
i “fratelli” che incontrava. Grazie a quella distopia, da taluni considerato
doppiezza, gettò le basi della lunga transizione che non iniziò dopo la sua
morte ma dagli Ann Sessanta. Tra gli “intellettuali” esuli alcuni rientrarono,
con la massima discrezione. Lentamente furono poste le basi per l'attuazione
del programma il 18 luglio 1938 invocato da Manuel Azana: “paz, piedad,
perdòn”. Madrid aveva fretta di entrare a far parte del Mercato comune europeo
e delle istituzioni comunitarie nascenti. Incappò nell'ostilità di quanti
prendevano a pretesto la perdurante repressione di movimenti centrifughi per
escluderne la sempre più fiorente produzione agroalimentare manifatturiera. In quegli anni la Spagna non
fu l'unico Stato a combattere senza esclusione di colpi indipendentismi armati
come l'Ira, speculare all'Eta.
Ognuno di essi poté farlo a mani basse perché
la divisione dell'Europa in blocchi
favoriva la sopravvivenza dei regimi. Sotto la scorza del franchismo la
Spagna fu l'unico Paese a mutare in profondità. Il ripristino della monarchia
fece il resto.
Anche
il comunista Santiago Carrillo, rientratovi dal lungo esilio, osservò che per
gli spagnoli essa era come la “sopa de ajo”, un piatto popolare.
Un'ultima considerazione si impone. Dopo gli
anni indimenticabili di Felipe Gonzalez, i Spagna socialisti imboccarono la via
della “ley de la memoria” per cancellare i ricordi dell'età franchista,
erroneamente dipinta esclusivamente buia, fonata sul terrore. Con Zapatero e,
ancor più con Sanchez, imperversò la “memoria democratica”, che si risolse
nella memoria a senso unico, nella cancellazione della complessità della
storia. Una deformazione della verità. Cambiare nomi a vie e piazza è un conto,
spostare salme (come accadde a quelle di Franco e di José Antonio Primo de
Rivera, estumulati dal Valle de los Caidos, è un conto; negare che gli enormi
progressi economici e civili della Spagna odierna ha radici negli ultimi
quindici anni dell'età di Franco, è un altro. Il giudizio storico richiede
conoscenza ed equilibrio. Senza le esagerazioni dell'estremismo di sinistra
“Vox” sarebbe rimasto un partito con scarso seguito. Mentre si preparano a
tornare al governo, i “moderati” fanno sapere non intendono averli alleati, per
non attizzare un dualismo che appartiene al passato remoto e non ha nulla a che
vedere con la Spagna odierna, quella di Felipe VI di Borbone, perno e garante
dello Stato.
Aldo
A. Mola
Sulla
Spagna dal franchismo a fine Novecento v. Aldo A. Mola, L'integrazione
europea e la penisola iberica in Storia dell'integrazione europea, a
cura di Romain H. Rainero, Milano, Marzorati, 1997, vol,. I, pp.595-636.
Siete cortesemente invitati a un Nostro Incontro di Studio e di Ricerca
dedicato al Patrimonio Storico Italiano,
con particolare attenzione alla Storia del Regno d'Italia.
Invito a VILLA TORLONIA
La prestigiosa residenza nobiliare è stata al centro
della Storia del Regno d’Italia
e motivo di ispirazione per l’azione futura.
Il percorso museale metterà in luce l’intimo legame mitico-simbolico
sussistente tra Arte, Natura e Storia.
Dalle sale del Villino Nobile, dove si possono ammirare gli affreschi
esaltanti le virtù degli Italiani illustri,
alle stanze della Casina delle Civette,
dove si può cogliere il gusto raffinato delle Arti Decorative,
dalle vetrate di Cambellotti all’arredo d’epoca.
Il 22 giugno S.A.R, il Principe Emanuele Filiberto di Savoia, compirà 53 anni, e come tanti italiani mi sento onorato di porgerGli gli auguri più sentiti.
Il 13 giugno u.s. era presente alla cerimonia in onore del Santo di Padova.
In un’intervista aveva dichiarato di essere molto devoto al Santo, come suo padre S.A.R Vittorio Emanuele di Savoia, e come il nonno Re Umberto II.
Quest’ultimo ebbe la possibilità di frequentare l’università di Padova dove si laureò in Giurisprudenza. Il Principe Emanuele Filiberto non ebbe la possibilità di frequentare alcuna università italiana perché visse in esilio fino al 2002. La figura del Principe è diventata molto popolare e degna di ammirazione perché attraverso gli Ordini Dinastici della Real Casa Savoia si prodiga con abnegazione in opere solidali e benefiche in tutto il mondo.
Mi viene in mente una frase di Lev Tolstoj :” Nella vita non vi è che una felicità vera: vivere per gli altri”. Un assioma messo in pratica dal Principe.
Non bisogna dimenticare la gentilezza d’animo e la disponibilità che dimostra verso le persone che Lo avvicinano per un saluto, una dedica o una foto.
Quando nacque il 22 giugno del 1972 a Ginevra, io ero un ragazzo che frequentava le scuole medie, e ricordo quel giorno perché i miei genitori avevano appreso la notizia dai giornali.
Il loro volto aveva un velo di tristezza perché il nipote di un Re doveva vivere in esilio. Non capivano quali colpe gli si potesse attribuire. I vecchi giornali di allora li conservo ancora, sono una testimonianza di una parte di storia scritta da persone ingiuste.
Fin da allora nutro un grande rispetto per Casa Savoia e una profonda ammirazione per la sua storia millenaria che ha portato all’unificazione d’Italia. Un grande desiderio del Principe è quello di poter portare al Pantheon Re Umberto II e la consorte Maria Josè. Per questo spera nell’assenso del nostro Presidente della Repubblica. Nel mio archivio in cui conservo da anni i giornali che trattano delle vicende della Real Casa Savoia ho trovato una pagina del Secolo XIX del 3 novembre 1983 che riportava una lettera molto interessante, inerente alla visita della principessa Marina Doria all’Ospedale Gaslini di Genova.
“Come tutti sanno, la Principessa Marina di Savoia, sposa di Vittorio Emanuele, ha accettato l’invito della Contessa Germana Gaslini a visitare l’ospedale pediatrico migliore d’Italia. Al di là dell’etichetta, essa è rimasta veramente commossa e ha detto che vedere bambini che soffrono è atroce, e sentendo che il Gaslini attraversava gravi difficoltà economiche, si è impegnata ad aiutare, anche finanziariamente, questo istituto.
Quando le hanno chiesto che cosa suo figlio conosce dell’Italia ha risposto : - Praticamente tutto: la nostra lingua, la storia, e l’arte. Ha un grande desiderio: visitare Venezia. Spero che possa esaudirlo, perché ogni volta che vede un italiano, chiede: “ Ma com’è la mia città?”, della quale porta il titolo, conferitogli dal nonno.- Io mi dico: anche lui è un bimbo che soffre, sia pur moralmente e, come i suoi genitori aiutano i nostri bimbi.
Non è proprio possibile un gesto di bontà, da parte italiana, permettendo a questo bambino incolpevole e di innegabile origine italiana, di esaudire quel desiderio di vedere Venezia, anche per una sola volta?
Perché vogliamo solo
“ricevere” e non “ dare” nulla, soprattutto se non con costa niente? (
Alda Stranieri). E tutto ciò, nonostante , che anche l’Italia avesse
firmato , nel 1977, la Dichiarazione di Helsinki che vieta a
tutti i popoli di infliggere l’esilio per ragioni politiche.