NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

mercoledì 14 novembre 2018

Ritrovare l’Italia nel Centenario della Vittoria

di Alessandro Mella

La verità più amara è che l’Italia l’abbiamo perduta.
Dietro ai facili populismi dei social network, dietro ai revisionismi da burla antirisorgimentali, dietro le nostalgie per mondi che non abbiamo studiato, dietro il solco tremendo che ha spaccato le coscienze, dietro la crisi sempre più palese delle istituzioni e di un sistema violato dalla barbarie e dall’ignoranza sdoganata.
La storiografia, se seria e documentata, è scrigno di memoria per le generazioni future e su quella si costruisce l’avvenire di popoli e nazioni. Anche se oggi subisce, troppo spesso, le sevizie di chi, per vendere libercoli, inventa storie fantasiose per riscrivere un passato che giustifichi gli errori recenti, assolva da colpe e vizi, assecondi istanze indecorose, liberi la coscienza di classi politiche e dirigenziali fallimentari.
È un ritrattino triste dell’Italia digitale e dei reality, dell’Italia televisiva. Ma è un ritratto secco, severo e drammaticamente reale mentre il paese si allontana, si sfalda sempre più. Si sfalda perché, da decenni, venuti meno i simboli nazionali il collante del paese ha preso a sbriciolarsi e frammentarsi.
Per deterioramento naturale perché non più coltivato e perché preso a picconate da troppi stolti neogiacobini. Eppure questa è l’Italia del centenario non solo e soltanto della Grande Guerra. Ma della vittoria, si della vittoria perché va chiamata per quella che fu.
Il coronamento dello sforzo di popolo, di quel popolo che si unì e imparò ad amarsi fraternamente tra i pidocchi, il sangue e il fango delle trincee. Che nell’orrore e nella sofferenza condivise si incontrò davvero.
Parliamoci chiaro, Giolitti ed i neutralisti avevano perfettamente ragione a volersi tenere fuori da quella che papa Benedetto XV definì, giustamente, “l’Inutile strage”.
Ma quando il momento venne, tutti si unirono nella grande e quasi impossibile impresa. Ogni contrada d’Italia, ogni borgata, ogni frazione, conobbero il peso del lutto ma anche dell’orgoglio d’aver concorso a portare a termine il percorso iniziato dai padri nel glorioso Risorgimento: l’Italia unita.
Dopo le difficoltà, non disastro, di Caporetto; il paese reagì. Diaz, forte anche delle strategie e dell’eredità dell’ingiustamente vituperato Cadorna, guidò il paese alla vittoria con il suo Re sempre in prima linea. Da anni al fronte mentre la Regina Elena, al Quirinale, allestiva un ospedale non per soli generali ma per soldati comuni.
Dettagli che la gente dovrebbe ricordare quando, con leggerezza, parla del ritorno in patria del Re Soldato oggi dignitosamente accolto al Santuario di Casa Savoia di Vicoforte (Cuneo). Dove la presidenza e la segreteria della Consulta dei Senatori del Regno, unitamente al direttivo dell’Associazione già citata, si recheranno domenica per rendere omaggio al sovrano che, come l’umile fante, indossò l’elmetto al fronte.
Nel 1918 l’Italia vinse la sua guerra dopo mesi e mesi di sacrifici, lotta e povertà. La situazione europea in parte la vanificò e l’impotenza dei partiti, di fronte alle grandi tensioni e crisi postbelliche, condusse  a successive conseguenze disastrose ed alla grave crisi dello stato liberale. Ma qualcosa restò e non andò perduto. Trento, Trieste, Gorizia e così via. E la memoria collettiva di quella guerra che portò tutti al fronte o comunque a fare la propria parte. Uomini e donne, padri e figli, Re e operai.
In quel grande rogo, in quell’olocausto che bruciò l’intero continente falciando intere generazioni ed impoverendo ogni nazione, devastando tutto. Anche nelle città molti civili conobbero le bombe degli Zeppellin.
Profetiche nell’annunciare il dramma, ancor peggiore, che sarebbe venuto con la guerra dopo. La Prima Guerra Mondiale fu un grande disastro collettivo, una tragedia di proporzioni talmente grandi da sconvolgere le coscienze e segnarle per sempre. L’Italia ne uscì spossata ma vinse e vinse per tutti.
Nell’armistizio con l’Impero d’Austria Ungheria, infatti, fu previsto anche il passaggio di truppe italiane in territorio austriaco per sorprendere la Germania da Sud. Non si fece a tempo a percorrere questa via per fortuna, ma pesò nell’esito del conflitto sul fronte franco-tedesco e nella sua chiusura.
Le tragedie non si celebrano ma si prova a comprenderle, le vittorie si ricordano con sobrio affetto e devozione. Quando le due cose si intrecciano si cerca di capire, si rispettano i morti di ogni colore e di ogni divisa, si ammoniscono le generazioni future perché non ripetano ma si ricorda anche il retaggio glorioso rimastoci.
L’Italia e ciò che dalle trincee faticosamente uscì: gli italiani.
Nel tempo in cui tutto si fa fragile, in cui gli orizzonti mancano, in cui l’Europa pare smarrita, è doveroso ritrovare il ricordo della vittoria, dell’unità nazionale, della fratellanza che non può essere europea senza essere prima italiana.
A fine settembre, in occasione del convegno voluto dall’Associazione di Studi Storici “Giovanni Giolitti”, un appello si è levato da Vicoforte ove riposa il Re Soldato con la consorte: il 4 novembre 1918, centenario della vittoria e non solo della fine della guerra, tutti gli italiani e le italiane ricordino con un minuto di silenzio i caduti. I propri caduti perché quasi ogni casa ne ebbe uno o più d’uno. Nel loro ricordo si stringano in ideale raccoglimento. Per andare oltre allo smarrimento occorre prima di tutto ritrovare bussola e orientamento: ritrovare l’Italia.
Alessandro Mella

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